Nella storia della chiesa e del mondo
Eccoci
al terzo, e ultimo, appuntamento con il racconto della vita di Madre Teresa di
Calcutta e della sua congregazione missionaria. Nei due precedenti volumi
abbiamo idealmente “visitato” i luoghi della sua primissima
giovinezza - la Macedonia - e il paese della nascita della sua vita
di religiosa missionaria accanto ai poveri tra i più poveri,
l’India, culla di una lunga avventura di solidarietà e
carità cristiana trascorsa nei sobborghi di Calcutta, nelle grandi e
piccole città di una terra antica, nobile ed affascinante, avventura che,
nel giro di qualche anno, si è sviluppata in tante altre parti del
mondo.
Inoltre, abbiamo fatto “amicizia” con i tanti personaggi
- noti, meno noti, anonimi bisognosi di tutto, uomini di Chiesa, leader
politici, moribondi abbandonati lungo le strade di Calcutta o di una delle tante
favelas del Sudamerica, dei villaggi africani - che hanno costellato il cammino
terreno di una minuscola suora destinata a diventare, anche contro la sua stessa
volontà, uno degli emblemi di fine millennio, un originale testimonial di
pace e di fratellanza, figlia prediletta della Chiesa cattolica, capace di fare
breccia in qualsiasi ambiente, anche il più lontano.
Una suora
piccola, esile, all’apparenza fragile, ma forte dentro, capace di battersi
come una leonessa pur di centrare l’obiettivo che si era data fin dal
giorno in cui varcò la soglia della congregazione delle suore di Nostra
Signora di Loreto, vale a dire, la totale dedizione alla causa dei poveri e dei
moribondi, degli ultimi tra gli ultimi.
Abbiamo visto, ancora, con quanta
determinazione lascia la sua prima congregazione religiosa - le suore di
Loreto - per fondarne una tutta sua, le Missionarie della Carità, un
gesto rivoluzionario e profetico allo stesso tempo, compiuto non per dissapori
con le consorelle del primo ordine in cui lavorò per una ventina
d’anni e, tantomeno, per dare ascolto a qualche spinta polemica. Madre
Teresa cambia semplicemente per potersi dedicare ancora di più alla sua
vocazione missionaria. Lo fa per stare ancora più a contatto con i
bisognosi, conservando sempre un buon ricordo degli anni trascorsi nella
congregazione di Nostra Signora di Loreto. La suora cambia vita e nel giro di
pochi anni, insieme alle sue nuove consorelle, diventa punto di riferimento
essenziale per i poveri tra i più poveri, non solo dell’India, ma
delle aree più depresse dell’Africa, dell’America Latina,
dell’Europa, dell’Oceania.
La grande semina fatta da Madre
Teresa nel corso del suo cammino lungo le strade del mondo produce frutti
abbondanti in termini di nuove vocazioni, di case fondate per accogliere
moribondi, ammalati, bambini abbandonati, scuole per i poveri.
Un successo
in quantità e in qualità - volendo artatamente usare una
espressione più commerciale che religiosa - che non ha smesso di
stupire (e di crescere) nemmeno all’indomani della morte di Madre Teresa e
con l’entrata in campo della religiosa chiamata a succederle alla testa
delle Missionarie della Carità, suor Nirmala, che ha raccolto il
testimone come guida spirituale del suo piccolo esercito con il
“grado” di Superiora generale, dopo essere stata per anni la
responsabile del ramo contemplativo della congregazione.
Ma prima di
arrivare a raccontare i primi passi mossi da suor Nirmala negli anni del
dopo-Madre Teresa, non si potrà fare a meno di ricordare i tanti
avvenimenti che caratterizzeranno il cammino della suora nei decenni Settanta e
Ottanta, un arco di tempo intenso, ricco di storie, di successi, di sacrifici,
che culminerà con l’assegnazione del Premio Nobel per la pace alla
fondatrice delle Missionarie della Carità, il riconoscimento che
farà di lei una delle figure più amate e conosciute del mondo
intero. Abbiamo visto nel secondo volume di questo racconto come in tutto il
decennio Sessanta la nuova congregazione fosse diventata un’importante
realtà dentro e fuori la Chiesa cattolica, con centri di accoglienza,
ospedali, scuole, dispensari e Case per i moribondi fondate, praticamente, in
quasi tutti i continenti. Spinte dall’entusiasmo e dalla grande fede di
Madre Teresa, le Missionarie della Carità crescono, si diffondono in
tutto il mondo e mettono radici nelle aree più a rischio della terra, a
prezzo di sacrifici immani e di un lavoro accanto ai poveri tra i più
poveri che solo delle religiose fortemente votate al bene per gli ultimi nel
nome di Cristo possono tranquillamente affrontare e portare a termine con il
sorriso sulle labbra. Sorriso che non viene mai meno nemmeno davanti ai
sacrifici più duri e persino al cospetto dei non pochi drammi che non di
rado si abbattono sulle religiose nel corso della loro opera missionaria. Ad
esempio, abbiamo visto a questo proposito, nel volume precedente, il grande
dolore provato da Madre Teresa e dalle sue consorelle il giorno in cui furono
costrette a lasciare l’Irlanda per motivi di sicurezza. Oppure, le grandi
paure provate da quelle consorelle che, per condividere fino in fondo i disagi
dei poveri, scelgono di convivere in aree oppresse da conflitti, da guerre
fratricide e da continui attentati. Non mancano missionarie coinvolte in
tragedie legate ad incidenti stradali o a malattie contratte dopo essere state
per giorni e giorni a stretto contatto con poveri colpiti da virus
infettivi.
Il “prezzo” della fede
Vedremo, nelle pagine seguenti, alcuni
episodi della vita della comunità che dimostrano quanto sia stato alto il
prezzo pagato dalle Missionarie della Carità nel corso della loro vita
religiosa. In diverse occasioni, Madre Teresa ha dovuto affrontare lunghi viaggi
per assistere in prima persona consorelle rimaste ferite per il crollo di un
ponte, per lo straripamento di un fiume, per un’auto capovolta o per aver
contratto malattie infettive in uno dei tanti centri di accoglienza dove vengono
ospitati malati poveri rifiutati dagli ospedali. Spesse volte non ha esitato a
saltare su un aereo per andare ad accudire amorevolmente, come una mamma,
qualche suora nel momento del “ritorno al Padre”, cioè
nell’attimo supremo della morte. Come accadde ad esempio, il 7 maggio
1966, giorno in cui una delle sue consorelle più preparate, suor Leonie,
medico, specializzata in medicina omeopatica, perse la vita per avere contratto
una grave malattia in seguito al morso di un cucciolo di cane. In un primo
momento suor Leonie non aveva dato eccessivo peso a quel morso. Pensava che con
una normale medicazione tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi,
trattandosi di un cagnolino. Ma quando - dopo alcuni giorni -
incominciò a perdere schiuma dalla bocca, ad accusare sudori freddi e
repulsione per l’acqua capì di essere stata colpita dalla rabbia.
Sì, perché quel cagnolino, minuscolo e indifeso, bisognoso di
carezze, era malato di rabbia. Si tratta di una malattia che non perdona ed
infatti suor Leonie morì nel giro di pochi giorni. Madre Teresa, per
tutta la durata della degenza, non l’abbandonò mai, specialmente
durante le lunghe e dolorose ore di agonia, le rimase sempre accanto con la mano
nella mano, pronta a rispondere a ogni sua necessità e a recitare le
preghiere insieme a lei secondo il calendario teologico scandito dalle
Costituzioni dell’ordine. La suora morì serenamente, con il sorriso
sulle labbra e in grazia di Dio, pur tra indicibili sofferenze. Prima di esalare
l’ultimo respiro pronunciò anche tante parole di riconoscenza:
“Grazie, Madre, per tutto quello che lei sta facendo per me. Grazie per
stare qui con me. Il Signore te ne renda merito”.
“Quel che perdiamo in vita guadagniamo in cielo”
Ogni volta che ricorda questa tragedia, Madre
Teresa è solita rincuorare le sue allieve affermando che
“ciò che perdiamo nella vita lo guadagniamo in cielo, perché
il Signore è grande e generoso, e non si scorda mai dei suoi figli. La
sua ricompensa finale è grande”.
Ed è proprio grazie a
questa ferma convinzione, che le consorelle nel corso degli anni riescono a
sopportare tanti altri dolori simili, a volte provocati anche da gravi
incidenti. Come avverrà, negli anni successivi, a suor Stanislaus,
superiora di Dehra Dun, e alla sua assistente, suor Carol, che moriranno
affogate in un torrente durante un violento temporale. Il giorno della tragedia
si presenta a tinte fosche fin dalle prime luci dell’alba quando un
violento temporale si abbatte sulla città mettendo a dura prova
strutture e persone. Di fronte alla turbolenza del tempo sarebbe opportuno
restare al coperto: ma le due suore decidono ugualmente di uscire dal convento
per portare le medicine a un gruppo di ammalati. Malgrado le avversità
meteorologiche le due consorelle riescono a svolgere ugualmente il loro impegno
tra gli ammalati più in difficoltà. Lungo la strada del ritorno,
mentre attraversano un fiume, il ponte cede sotto il loro peso e le due
missionarie vengono inghiottite dalle acque. Suor Carol muore sul colpo col capo
fracassato da un masso. Suor Stanislaus, pur sapendo nuotare, resta impigliata
col sari a una trave e, dopo lunghi interminabili minuti, viene risucchiata
dalle acque. I corpi delle due religiose vengono ritrovati solo dopo ore di
ricerche. La tragedia scuote la congregazione. Ai solenni funerali il dolore
trafigge i cuori di tutte le consorelle presenti. In tante non riescono a
trattenere le lacrime, alcune piangono in silenzio, tutte pregano con le mani
giunte e il capo chino con un trasporto vocazionale più intenso del
solito. Madre Teresa - anche lei con l’animo stravolto -
riesce a mala pena a trattenere le lacrime. Vorrebbe piangere, sfogarsi come
quasi tutte le sue consorelle, ma sa che non può, che non deve farlo. Lei
è il punto di riferimento di tutta la congregazione, è la Madre
che tante giovani ragazze hanno deciso di seguire per servire Dio
nell’aiuto ai poveri e per questo nei momenti della tragedia è
“obbligata” a dare conforto agli altri. Il suo ruolo di Madre
fondatrice delle Missionarie della Carità non le consente di apparire
fragile, vulnerabile. Il dolore - anche quello causato dalla tragedia
più grande - deve restare circoscritto nel suo animo di donna e di
religiosa. Ecco perché - di fronte alla morte violenta delle due
consorelle - ancora una volta si fa carico di portare conforto alle allieve
“leggendo” l’accaduto come misterioso disegno divino
“che comunque - esorta Madre Teresa - va accettato per il grande
amore che ci unisce al Signore al quale noi doniamo, giorno dopo giorno, tutte
le nostre gioie e tutti i nostri dolori”. Durante i funerali - ma
anche in seguito quando avrà modo di parlare di questa drammatica vicenda
durante le sue conferenze - nel ricordare la breve intensissima vita delle due
missionarie così tragicamente scomparse mentre stavano compiendo il loro
dovere presso i più bisognosi, parlerà della “storia di due
nostre Sorelle carissime che andavano a servire i poveri e gli ammalati, e la
loro ricompensa è stata che Gesù era così grato dei loro
sforzi che le ha volute prendere con Sé senza aspettare troppo
tempo...quando un giardiniere va a cogliere i fiori, prende sempre i migliori:
lo stesso ha fatto Gesù con queste due nostre consorelle. Le ha prese con
Sé, in Paradiso, come due bellissimi fiori di campo. Noi le ricorderemo
sempre così”. Solo chi ha una robusta fede è in grado di
trasformare una grande tragedia in una simile originale espressione di amore
verso il Signore della vita. Madre Teresa è una di questi e quando lo
ritiene opportuno lo ricorda, riuscendo a trarre insegnamento e persino coraggio
anche di fronte alle tragedie più dure e violente.
I fratelli missionari
Altri “prezzi” pagati dalle
Missionarie della Carità sono i guai giudiziari a cui le suore vanno
incontro a causa di incidenti, più o meno gravi, accaduti nei loro centri
o durante le attività assistenziali. Tra i più drammatici, il
violento incendio scoppiato nel marzo del 1980 in una Casa di accoglienza a
Kilburn, in un sobborgo di Londra, in conseguenza del quale morirono una decina
di ospiti e una volontaria. Per questa tragedia, le suore responsabili della
Casa furono accusate di omicidio colposo e sottoposte a un clamoroso processo
celebrato nel Tribunale penale londinese tra lo stupore dell’opinione
pubblica mondiale, che mai in precedenza aveva visto delle Missionarie della
Carità sul banco degli imputati. Alla fine il verdetto dei giudici fu di
non colpevolezza per le missionarie e per l’incendio si parlò di
tragedia causata da un ignoto piromane. L’esperienza fu comunque pesante e
per la sede londinese rappresenterà un trauma che sarà superato
solo dopo tanto tempo.
Anche in questa circostanza la presenza di Madre
Teresa è determinante: è sempre accanto alle consorelle durante il
processo, incoraggia, invita a non avere timori della giustizia e si dice sempre
convinta che alla fine tutto sarà chiarito. La sua serenità
è un vero toccasana per le missionarie durante tutte le fasi del processo
ed alla fine anche la giustizia inglese le darà ragione.
Gli
incidenti mortali, i guai giudiziari, le espulsioni da qualche paese
eccessivamente “litigioso” - come avviene ad esempio in
Irlanda - stanno a dimostrare quanto alto sia il tasso di rischio a cui
vanno quotidianamente incontro le Missionarie di Madre Teresa. Non tutto fila
liscio e non sempre la storia finisce nel migliore dei modi. Come dimostra,
appunto, la tragica morte delle consorelle travolte dalla corrente del fiume
indiano o gli ospiti e i volontari morti nel rogo di Londra. Episodi messi
comunque in conto dalle suore fin dal primo momento in cui entrano in
comunità. Tuttavia, la Madre fondatrice con il passare degli anni si
convince che le sue sorelle - pur con tutta la loro grande volontà
- non sempre sono in grado di affrontare tutto e tutti. Ci sono lavori e
circostanze per le quali - incomincerà a spiegare nei primi anni
Sessanta - è più adatta la presenza di un uomo. È un
pensiero che non l’abbandonerà mai più e che, di fatto,
può essere considerato come la vera anticamera della nascita del ramo
maschile della congregazione, vale a dire i Fratelli Missionari della
Carità. Prima di arrivare alla costituzione di questa nuova
realtà, dettata anche dalla crescente presenza di uomini tra i suoi
volontari, Madre Teresa ne parlerà a lungo con le sue consorelle. Spesso
aprirà questa parentesi soffermandosi ad illustrare il seguente
principio: “Voi potete fare ciò che io non posso fare, a causa dei
miei limiti, della mia scarsa forza o dei confini psico-fisici legati alla mia
natura. Io posso fare quello che non potete fare voi, perché sento di
essere in grado di affrontare mansioni, compiti, impegni che forse solo grazie
alla mia esperienza di donna e di religiosa potrò fare. Ma, sia io che
tu, insieme possiamo fare qualche cosa di meraviglioso per
Dio”.
“Fare qualche cosa di meraviglioso per Dio”
Ecco la frase-chiave - in verità
non l’unica - che Madre Teresa ama regalare ai suoi collaboratori,
“fare qualche cosa di meraviglioso per Dio”: tutti insieme, uomini e
donne, ciascuno nei propri ambiti e con le proprie mansioni; ma tutti animati da
una stessa volontà missionaria, cioè quella di dedicare tutta la
propria vita ai poveri tra i più poveri. La frase che farà da
ideale battistrada alla nascita del ramo maschile della congregazione e che
affonda le proprie radici nell’essenza più intima della vocazione
delle Missionarie della Carità, la spinta che ha sempre guidato i passi
di Madre Teresa quando ancora non si chiamava così, ma era conosciuta con
il nome di battesimo di Agnese.
Nasce il ramo maschile delle Missionarie della Carità
Tra i primi ad essere informato della nuova
idea di gettare le basi per il ramo maschile della congregazione è,
naturalmente, il fido consigliere spirituale, padre Van Exem, il quale prima di
sbilanciarsi si consiglia a sua volta con l’arcivescovo di Calcutta,
monsignor Vivian Dyer, successore di monsignor Perier, il primo
“sponsor” di Madre Teresa. La primissima reazione del consigliere
spirituale non è delle più entusiasmanti. Il religioso non capisce
la necessità di un simile passo: di congregazioni maschili - tenta
di convincere la sua interlocutrice - ce ne sono già tante, a che
serve fondarne un’altra?
Madre Teresa, pur rispettando tali
interrogativi, non si lascia condizionare. Lei è convinta della
bontà del progetto - e soprattutto del fatto che la congregazione
non può fare ormai a meno di un ramo maschile in grado di svolgere il
lavoro che le consorelle per motivi di forza maggiore non sono in grado di
affrontare. Ma non sarà la sola ad avvertire questa esigenza. Anche nelle
alte sfere della gerarchia cattolica indiana avvertono un’analoga
esigenza. Ed infatti, l’iniziale titubanza di padre Van Exem viene ben
presto spiazzata dall’entusiasmo con cui il nuovo arcivescovo di Calcutta
accoglie l’idea di Madre Teresa di fondare il ramo maschile delle
Missionarie della Carità. “Dovrà essere una parte della
nostra istituzione - spiega Madre Teresa - completamente
indipendente dal ramo femminile, dotata di autonomia, ma forgiata dallo stesso
spirito vocazionale”.
“In tutta l’India - risponde
monsignor Dyer a padre Van Exem e alla stessa Madre Teresa - non troverete
un vescovo più favorevole di me alla fondazione dei frati missionari. In
India la gente ha capito la vocazione di un sacerdote; ha capito la vocazione di
una suora; ma non ha ancora capito la vocazione di un frate. Per questo vi dico
di cominciare”. Con la benedizione del vescovo decolla quindi il progetto
che porterà alla fondazione della Congregazione dei Fratelli Missionari
della Carità. I primi tre candidati ad entrare nel nuovo istituto di
Madre Teresa si presentano agli inizi del 1963. La nascita vera e propria del
nuovo organismo missionario avviene il 25 marzo 1963, al cospetto di padre
Julian Henry e dell’arcivescovo Albert de Souza. La cerimonia si svolge
nella cappella della Casa Madre di Lower Circular Road, a Calcutta. Il rito
è semplice, molto intimo, commovente. L’imprimatur ai tre arriva
direttamente da Madre Teresa con un gesto semplice ma carico di significato, la
consegna del crocifisso-simbolo della congregazione delle Missionarie della
Carità, che la stessa fondatrice provvede ad appuntare sulle loro camicie
bianche.
I primi tempi del nuovo ramo della comunità sono di
formazione di studio sotto la diretta tutela di Madre Teresa e di padre Van
Exem. I tre vengono alloggiati in un piano indipendente di Shisu Bhavan:
studiano, pregano secondo i ritmi e gli orari della comunità, svolgono
lavori manuali - specialmente di falegnameria -, aiutano le altre
consorelle alla Casa del Moribondo. Ben presto, però, Madre Teresa
incomincia ad avvertire l’esigenza di nominare un superiore, anche
perché nel frattempo il gruppo è cresciuto. La scelta alla fine
cadrà su un giovane gesuita, padre Ian Travers-Ball, che al momento di
entrare nella grande famiglia delle Missionarie della Carità - ramo
maschile - assumerà il nome di Fratel Andrea. Nato in Australia, a
Melbourne il 27 agosto 1928, fin dall’inizio della sua vita religiosa,
aveva sempre nutrito una grande attrazione per l’aiuto ai poveri,
specialmente quelli completamente abbandonati. Fatale quindi l’incontro
con quella nuova congregazione missionaria - vale a dire Madre Teresa e le
sue consorelle - che per seguire il carisma dell’aiuto
incondizionato ai poveri tra i più poveri da qualche anno aveva
letteralmente rivoluzionato il modo di fare attività missionaria
all’interno della Chiesa cattolica, dentro e fuori l’India. E
proprio come aveva fatto tanti anni prima la stessa fondatrice della Missionarie
della Carità, quando per dare vita ad un nuovo ordine lasciò la
congregazione delle suore di Nostra Signora di Loreto, anche padre Ian
Travers-Ball lascerà i gesuiti per entrare nei Fratelli Missionari della
Carità e assumerne il priorato col nome di Fratel Andrea.
L’approvazione diocesana del nuovo istituto arriva il 26 marzo 1967,
quattro anni dopo la nascita e con un gruppo di fratelli missionari arrivato a
quota trentatré, quasi tutti impegnati nelle varie Case di accoglienza ed
in particolare nella Casa del Moribondo, dove hanno la responsabilità di
accudire gli uomini. Un anno dopo, nel giugno del 1968, il ramo maschile della
congregazione celebra la prima professione di fede dei suoi novizi, tra i quali
c’è anche Fratel Andrea.
La “rivoluzione” conciliare
Passano i mesi, la Chiesa cattolica si
appresta a mettere in pratica il rinnovamento varato dal Concilio Vaticano II,
conclusosi appena tre anni prima, e anche per la grande famiglia di Madre Teresa
di Calcutta si respira aria di trasformazione. In primo luogo, le suore devono
rivedere le loro Costituzioni alla luce della “rivoluzione”
conciliare. È un momento di crescita e di aggiornamento che Madre Teresa
e le sue consorelle vivono con trepidazione e rispetto. Anche i fratelli
missionari fanno altrettanto. Fratel Andrea in quei giorni matura una decisione
che porterà alla definitiva autonomia del ramo maschile delle Missionarie
della Carità, il varo di nuove Costituzioni, rivedute e
“corrette” alla luce delle esperienze e degli obiettivi che i figli
di Madre Teresa intendono raggiungere camminando solo con le loro gambe. Fratel
Andrea naturalmente non stravolge l’originaria intuizione del carisma
della Madre: anzi la sua revisione partirà proprio dai valori religiosi
predicati fin dal principio dalla fondatrice. In aggiunta a quei valori
originari, il superiore dei Fratelli apporterà alcune norme con le quali,
oltre ad avvicinare il suo istituto al rinnovamento del Concilio Vaticano II,
accentuerà il carattere della nuova Congregazione in termini di autonomia
e di carisma. Ecco come Fratel Andrea introdurrà le nuove Costituzioni
del ramo maschile delle Missionarie di Madre Teresa: “Lo scopo generale
della Congregazione - scrive il religioso - viene dalle labbra
stesse di Cristo Nostro Signore: ‘Vi do un comandamento nuovo, che vi
amiate gli uni con gli altri; come io ho amato voi, così amatevi anche
voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei
discepoli”.
In particolare, il tratto caratterizzante dei Fratelli
Missionari della Carità viene delineato al punto due delle Costituzioni,
che recita così: “Vivere questa vita d’amore dedicandosi al
servizio dei più poveri tra i più poveri negli slums, nelle
strade, ed ovunque essi si trovino. Lebbrosi, mendicanti, persone abbandonate,
giovani senza fissa dimora e giovani degli slums, disoccupati e tutti coloro che
hanno perso tutto a causa di guerre o calamità naturali, saranno sempre
fatti oggetto della speciale sollecitudine dei Fratelli”.
Pur
condividendo in tutto e per tutto lo spirito con cui Madre Teresa ha plasmato la
sua congregazione, Fratel Andrea concede al ramo maschile alcune
“libertà” non sempre condivise dalle consorelle. Specialmente
dalla fondatrice. Ad esempio, la Madre non vede con favore che i confratelli
abbiano più libertà di movimento rispetto alla vita del convento.
Ogni suora sa, fin dall’inizio, che dopo aver svolto il suo lavoro in un
ospedale o per strada, è obbligata a far ritorno alla Casa Madre per il
pranzo o per rispettare gli orari liturgici previsti dalle Costituzioni. Regole
e tempi che non sempre lo spirito gesuitico di Fratel Andrea è disposto a
seguire fino in fondo. E per questo, a volte, con Madre Teresa nascono
incomprensioni, sempre superate con buona volontà da ambo le parti.
”Devo dire - riferirà in seguito il responsabile del ramo
maschile delle Missionarie della Carità - che Madre Teresa mi
concedeva totale libertà, anche se qualche volta dissentiva da me. Ma
bisogna dire anche che poteva essere irritata ed offesa, e lo mostrava. Su certi
punti cedevo, e lei era molto felice di far prevalere la sua impostazione.
Quando non cedevo, lei alla fine accettava, sempre con indulgenza. Ma era
meravigliosa nel non covare risentimento”.
I fratelli di Saigon
Come appare evidente, tra i due rami della
congregazione il rapporto matura e si consolida senza ipocrisie o lotte
intestine, anche quando i punti di vista divergono. Ma tutto il rapporto si
muove lungo i normali binari del confronto umano e fraterno. Risultato, anche il
ramo maschile, spinto sempre dall’esempio di Madre Teresa, ben presto si
ramifica nella società indiana, specialmente tra le fasce urbane
più deboli. Ad esempio, nel villaggio di Noynam, i Fratelli fondano un
centro di accoglienza dove nel giro di poche settimane riescono a dare
assistenza a più di cinquecento famiglie di poveri: vi aprono scuole,
dispensari, mense per i più poveri e un centro specializzato nella cura
ai malati di tubercolosi. A Calcutta, in una Casa di Pipe Road, cinque Fratelli
si prendono cura di oltre trenta bambini orfani, aprendo per loro una scuola e
un centro di accoglienza per lo studio, il gioco e il tempo libero. Ben presto,
altri gruppi di Fratelli incominciano a frequentare le stazioni ferroviarie
della città per andare alla ricerca di bambini abbandonati da genitori e
parenti, e che si sono rifugiati nelle vecchie carrozze abbandonate.
La
crescita repentina del ramo maschile della congregazione, porta i Missionari
della Carità a fondare una delle loro prime Case di accoglienza fuori
dall’India, precisamente a Saigon, in Vietnam. Succede nei primi anni
Settanta, parallelamente alla crescita del gruppo femminile guidato da Madre
Teresa, che in quegli anni è impegnata a seguire la nascita di nuove sedi
in tante altre parti del mondo, come in Inghilterra, Giordania, Usa, Bangladesh,
Mauritius, Israele, Yemen, Perù.
A Saigon il primo gruppo di
confratelli di Fratel Andrea apre una Casa di accoglienza di tre piani: al primo
vi vengono subito accolti una trentina di senzatetto; al secondo piano, di
giorno c’è la scuola, di notte le aule sono adibite a rifugi per i
poveri raccolti lungo le strade; al terzo piano i Fratelli sistemano le loro
stanze per dormire e pregare. In poco tempo intorno alla Casa di Saigon vengono
accolti un centinaio di bisognosi e quindi i religiosi di Madre Teresa preparano
da mangiare, effettuano visite mediche, danno lezioni ai bambini delle famiglie
più povere. Diventano subito parte integrante del quartiere, che in pochi
mesi vede in questi religiosi arrivati dall’India - ma che pregano
il Dio dei cristiani ed obbediscono al pastore vestito di bianco che risiede a
Roma, il Papa - un insostituibile punto di riferimento.
In pochi
anni in Vietnam i Fratelli organizzano altre Case e danno una mano concreta alle
tante ragazze costrette a prostituirsi durante la guerra con gli Usa. Ma tutto
è destinato a finire con la vittoria del regime comunista, che nel 1975
espropria tutte le Case fondate dai Missionari e costringe i religiosi di Madre
Teresa a lasciare il paese. La delusione di Fratel Andrea e dei suoi
collaboratori è grande. È lo stesso responsabile del ramo maschile
della congregazione a scriverlo nella lettera inviata ai confratelli in
occasione delle festività del Natale 1975. È un documento
importante, che vale la pena conoscere da vicino perché dimostra come sia
duro, a volte, scegliere di vivere una vita accanto agli ultimi, specialmente
quando il bene fatto per aiutare chi ha bisogno si trasforma in un provvedimento
di espulsione al quale i Fratelli non possono che rispondere con un mesto
ritorno a casa. Il religioso vi descrive tutta la sua amarezza di uomo e di
missionario. Eccone un ampio stralcio.
Una lettera triste per il Natale 1975
“Quest’anno mi ha
distrutto”: sono le prime parole con cui Fratel Andrea inizia la sua
lettera. Come si capisce subito, è un testo carico di delusione, rabbia
ed angoscia. Senza eccessivi giri di parole - pur nella solennità
della ricorrenza, il Natale del 1975 - il religioso fin dalle primissime
battute arriva subito al sodo: “Quest’anno mi ha distrutto. Abbiamo
perso quattro Case in Vietnam e Cambogia. Degli edifici non mi importa nulla; ma
venir separati in modo così definitivo da tutti coloro con cui si era
riusciti a stabilire un rapporto, e che si amavano, è una sofferenza
indescrivibile. Dopo quello che è successo non sarò mai più
lo stesso, e so che per la loro sorte proverò dolore finché
avrò vita”. Fratel Andrea - come si legge nella lettera
natalizia - è angosciato per la sorte dei poveri abbandonati al
loro destino per motivi di forza maggiore e contro la volontà dei suoi
confratelli. Pensa ai poveri, alle vittime della guerra, ai feriti, alle donne
sole, sfruttate, costrette a prostituirsi. Come Madre Teresa e le sue consorelle
hanno sofferto in analoghe circostanze, i Missionari non pensano alle Case perse
ma ai poveri rimasti in Vietnam e in Cambogia privi di qualsiasi sostentamento.
“La vera storia della caduta di Saigon e della radicale trasformazione che
è avvenuta - continua la lettera natalizia di Fratel Andrea -
non sarà mai raccontata. I giornalisti che erano presenti vivevano per la
maggior parte negli hotel in centro. Non penetravano nei vicoli e nei viottoli
dei quartieri sovraffollati della città. Non hanno avuto davvero
l’opportunità di vivere da vicino, né di comunicare nei
reportages ai media i sentimenti della gente che io ho conosciuto a Saigon.
L’idea generale che la gente al di fuori del Vietnam ha di quello che
è successo qui non è realistica. La storia resta da narrare, e
tale resterà finché forse non si sentirà la voce di qualche
Solzenicyn vietnamita. Ma questo, se mai succederà, sarà tra molti
anni. Per quanto mi riguarda, non ho cuore neanche di provare a raccontare.
Così il Vietnam e la Cambogia sono un libro chiuso, per me e per i
Fratelli; ciò che avverrà qui negli anni a venire, nelle vite di
questa maggioranza silenziosa, privata della possibilità di esprimersi,
non è dato di saperlo”.
Fortunatamente, altrove il cammino dei
Fratelli va incontro ad epiloghi di ben altra natura. Come, ad esempio, in
India, dove nel 1974 Madre Teresa decide di affidare loro il Centro per Lebbrosi
Gandhi Prem Nivas di Titagarh. Qualche anno dopo, nel 1978, su decisione
dell’amministrazione locale, i Fratelli ricevono in dotazione un
importante lotto di terreno della ferrovia, nel quale viene impiantato il centro
artigianale dei lebbrosi. In quegli stessi anni - precisamente a partire
dal 1975, proprio in coincidenza della cacciata da Saigon - inizia per i
Fratelli l’avventura americana, in una delle città più
ricche e goderecce, Los Angeles. Qui, in uno dei quartieri del centro, Skid Row,
Fratel Andrea e i suoi fondano una prima Casa di accoglienza destinata a dare
pace e calore ai tanti emarginati della città, specialmente a quelle
vittime del sistema consumistico americano che non può
“tollerare” cadute, battute di arresto, improvvise malattie. La
scelta è felice e ben presto la Casa dei Missionari della Carità
diventa per i bisognosi di Los Angeles uno dei pochi rifugi sicuri.
Fratel
Andrea - con la ferita ancora aperta a causa della cacciata subita dai
nuovi governanti vietnamiti - decide di potenziare la presenza della
congregazione negli Usa, fondando proprio a Los Angels il secondo noviziato per
il ramo maschile dell’ordine. Qui i novizi dell’area americana
- ma anche quelli provenienti dall’Europa, dall’Australia,
dalla Nuova Zelanda - imparano ad entrare in contatto con i poveri
metropolitani, in genere alcolizzati, prostitute, vecchi ammalati lasciati soli
da amici e parenti. Da Los Angeles, Fratel Andrea e i suoi incominciano a
guardare - e a fondare nuove Case - anche in America Latina e, in
seguito, in estremo Oriente, in Giappone e in Europa.
Andare tra i poveri dei paesi benestanti
“A volte la gente si chiede -
spiega Fratel Andrea - perché andiamo in posti dove regna il
benessere, come Los Angeles, Tokyo, Hong Kong, quando in India c’è
una povertà più assoluta e drammatica, e su così vasta
scala. Io ritengo che qui vi sia una povertà molto più terribile
di quella che ho trovato in India. Tipico, per me, è l’esempio di
Hong Kong. Quando, poco tempo fa, mi trovavo a Calcutta durante
un’inondazione che ha fatto danni terribili, sono rimasto colpito dal
constatare come la gente di Calcutta sia molto più ricca umanamente della
gente di Hong Kong. È uno strano paradosso che dovrebbe dirci qualche
cosa; ed è valido per la maggior parte delle società del benessere
e dell’opulenza. Ad Hong Kong abbiamo una piccola Casa per disabili
mentali gravi; otteniamo dei finanziamenti pubblici , ma abbiamo anche molte
interferenze. Un esempio: le persone che abitano nella nostra Casa sono
gravemente ritardate; sono già state in cura in molti istituti, dove non
hanno risposto granché al training e alle cure a cui erano sottoposte.
Prima di venire da noi vivevano con le loro famiglie nelle stanze
insopportabilmente piccole dell’edilizia di Hong Kong. Da quando sono
venuti da noi, tutti hanno risposto bene, e la cosa grande è -
almeno mi sembra - che sono felici. Ma non è abbastanza -
così ci è stato detto. Devono fare qualche cosa, devono essere
programmati. Penso ci siano pochi posti al mondo così frenetici e
fanatici degli standard di produttività come Hong Kong. Lo stress e la
pressione sono a dei livelli insostenibili. A quanto pare non possiamo essere
soddisfatti che questi disabili siano felici: devono anche loro essere travolti
dalla frenesia, dal ritmo indiavolato, dalla concorrenza senza pietà che
già stanno facendo impazzire tutti. Dietro a questi atteggiamenti si
celano questioni fondamentali, la questione, per esempio, del dove e in che cosa
risiedano il valore e la dignità dell’uomo: se nel suo essere o
nelle sue prestazioni. E dunque l’India, con la sua grandissima
povertà materiale, possiede una qualità della vita che spesso si
perde irrimediabilmente quando Dio è sostituito dal dio danaro, e tutto
deve essere quantificato. In queste società non si sa più godere
la vita dal punto di vista spirituale e umano. Mi sembra che in posti come Hong
Kong ci sia dato di vedere questo, come accade agli orsi in ‘Animal
Farm’ (romanzo satirico dello scrittore inglese George Orwell,
1903-1950)”.
In ogni lettera di Fratel Andrea traspaiono l’
entusiasmo e la tanta voglia di fare, unitamente ad una istintiva
predisposizione alla comunicazione diretta con la vita esterna alla
congregazione. Forse è questo il tratto caratteriale che lo
contraddistingue da Madre Teresa, con la quale vive sempre un rapporto di
filiale riconoscenza e rispettosa obbedienza, pur nella reciproca autonomia. Un
solo esempio per tutti: il religioso, contrariamente alla fondatrice delle
Missionarie della Carità, tende a non nascondere le sue emozioni e in
genere tutti i sentimenti che maturano intorno alle opere realizzate dal ramo
maschile dell’Ordine. Quando è felice o è soddisfatto,
Fratel Andrea ama farlo sapere agli altri, non resiste alla tentazione di
rendere partecipi i suoi confratelli del suo stato d’animo. È,
sotto un certo aspetto, un entusiasta, un estroverso, un trascinatore non privo
di venature gioiose che condizionano, in positivo, la vita interna al convento e
che danno al ramo maschile dell’Ordine un carattere ed una immagine
esterna del tutto differente da quella delle Missionarie della
Carità.
Ma da dove deriva tanta voglia di vivere? Perché i
missionari sono così differenti dalle missionarie? Forse un
“perché” in grado di spiegare esaurientemente una così
evidente differenza caratteriale tra i due rami della congregazione non esiste.
Qualche tentativo di spiegazione può essere tratto dai frequenti dialoghi
che il Superiore generale del ramo maschile ama tenere spesso e volentieri,
anche attraverso lettere e messaggi, con i suoi confratelli.
“Abbiamo il grande dono - scrive infatti Fratel Andrea in una
lettera indirizzata ai confratelli e ai collaboratori della Casa di Los Angeles
- di poter vedere che chi sembrava finito viene ancora salvato; chi
sembrava un peccatore è un santo; chi sembrava povero è ricco come
mai avremmo immaginato. Sì, il Signore ci ha concesso la sua benedizione.
Ci ha portati qui, oggi, per essere testimoni del miracolo della Sua presenza
che si manifesta nuovamente nei cuori dei poveri. Qui Egli è tra noi,
celato dalla sporcizia e dagli stracci. È Lui l’affamato; è
Lui l’assetato; è Lui Colui che è senza casa e senza
nessuno. È Lui, qui a Los Angeles, che cammina per le strade, che chiede
di essere aiutato, allunga una mano spinto dal bisogno, che ha bisogno di
curarsi o di liberarsi dalla prigionia dell’alcool e della
tossicodipendenza, così irriconoscibile nel Suo celarsi, da essere
scioccante anche per noi”.
Gli immigrati clandestini
Come si vede, lo stile espressivo di Fratel
Andrea è del tutto diverso da quello di Madre Teresa: è più
aperto, più comunicativo, meno ermetico, anche se alla fine il contenuto
del messaggio è sempre lo stesso, essendo i due religiosi intimamente
legati a una teologia missionaria che fa del riscatto dei poveri e degli ultimi
la strada maestra da seguire in qualsiasi parte del mondo e in ogni circostanza.
Entrambi amano infatti ricordare che il povero non ha colore, ha sempre la
stessa espressione, vive lo stesso dramma di abbandono e di solitudine
dappertutto, sia nella ricca America sia nella povera India.
A cavallo tra
gli anni Sessanta e Settanta le Missionarie ed i Missionari della Carità
vivono anni di crescita che i più stretti collaboratori di Madre Teresa
amano raccontare in prima persona in diari che ora costituiscono preziosi
documenti sulla vita della congregazione. Lo fa Fratel Andrea - lo abbiamo
visto nei suoi precedenti documenti - e lo fa anche, ad esempio, Fratel
Geoff, un missionario australiano che in seguito sarà il primo successore
dello stesso Fratel Andrea alla guida del ramo maschile delle Missionarie della
Carità. “A Los Angeles - racconta Geoff in uno scritto
dedicato alle attività intraprese nella metropoli americana - il
nostro principale lavoro è in un centro diurno per immigrati clandestini
latino-americani, molti dei quali vivono per strada. È un posto dove, per
tre giorni alla settimana, un centinaio di giovani tra i quattordici e i
diciotto anni vengono a trovarci per ricevere un pasto caldo, una doccia,
assistenza medica, un taglio di capelli, o anche solo a riposare. Nel reparto
maschile seguiamo otto uomini portatori di handicap fisici e mentali. Anche
queste persone sono state trovate per strada a Los Angeles e hanno un bisogno
disperato di attenzione e di un ambiente protetto”.
“In
Giappone, a Tokyo - continua Fratel Geoff nella sua testimonianza -
lavoriamo con alcolizzati raccolti per strada. È un lavoro a tempo pieno.
A volte c’è qualche rissa e in certi casi l’atmosfera si
surriscalda; ma noi facciamo di tutto per impedire che la violenza entri nelle
nostre Case. Gli alcolizzati giapponesi, in confronto a quelli di altri paesi,
di solito si comportano molto bene; ma a Los Angeles abbiamo avuto fratelli che
assistevano ragazzi delle bande giovanili e a Hong Kong qualcuno di noi ha
lavorato con i tossicodipendenti. Operiamo anche in zone a più alto
rischio: in città come Bogotà o Medellin, in Colombia, dove
c’è molta violenza. Siamo testimoni di tante brutte storie, ma ce
ne teniamo al di fuori. La gente conosce bene il lavoro che facciamo e di solito
non ci disturba”. “Il nostro lavoro è molto diverso da quello
di altre organizzazioni per i poveri. Non voglio dire che una sia migliore
dell’altra (credo che si faccia del bene in ogni caso), ma gli altri si
impegnano ad aiutare i loro assistiti a uscire dalla situazione in cui si
trovano, soprattutto a vincere se si cerca di attuarlo per mezzo
dell’istruzione, ma può diventare un impegno politico. I poveri con
cui si sentono chiamati a lavorare i Missionari della Carità sono quelli
che, indipendentemente da ciò che si fa per loro, in qualche modo
continuano ad avere bisogno di aiuto. E per questo ci viene domandato spesso:
Invece di dare un pesce ad una persona, perché non le insegnate a
pescare? E noi rispondiamo che la maggior parte della nostra gente non avrebbe
nemmeno la forza di reggere la canna da pesca. Io penso spesso che la fonte
degli errori di giudizio - e in certi casi delle critiche - a
proposito del nostro lavoro sia proprio questa, che cioè non si fa
nessuna distinzione tra i poveri che assistiamo noi e quelli che assistono gli
altri”.
“Abbiamo moltissime richieste di apertura di nuove Case
in tutto il mondo e ne apriamo di continuo - spiegherà negli anni
successivi il successore di Fratel Andrea- Ora siamo presenti in
più di cento paesi: è un vero dono di Dio essere in grado di
offrire con tutto il cuore un servizio gratuito ai più poveri tra i
poveri in così tanti luoghi. Ora abbiamo, per esempio, Case per malati di
Aids in Spagna, Portogallo, Brasile e in Honduras. In Africa lavoriamo, pur non
avendo Case specifiche, e lo stesso vale per Haiti. Anche negli Usa abbiamo Case
per malati di Aids in varie città, tra cui New York, Washington,
Baltimora, Dallas, Atlanta e San Francisco. Ora stiamo aprendo la prima Casa per
malati di Aids in India, a Bombay. Abbiamo appena avviato anche un orfanotrofio
a Washington e da tempo speriamo di aprire una Casa in Cina”.
Il ramo
maschile della congregazione non sarà il solo “frutto”
esterno partorito dalla fervida mente di Madre Teresa. Nel corso degli anni
Settanta, la grande famiglia della Missionarie della Carità sarà
affiancata da altri organismi quali l’Associazione dei collaboratori laici
delle Missionarie della Carità e il ramo contemplativo della
congregazione, che Madre Teresa fonda in seguito ad un periodo di convalescenza
trascorso in preghiera dopo un incidente a una spalla capitatole nelle isole
Mauritius. A capo delle suore contemplative delle Missionarie della
Carità viene indicata una consorella destinata - suo malgrado
- a fare molta strada e a far parlare molto di sé all’interno
della congregazione, suor Nirmala, la religiosa che succederà a Madre
Teresa.
Il primo giubileo delle missionarie
Il 1975 non è solo l’anno della
dolorosa forzata chiusura delle Case in Vietnam e in Cambogia. Fortunatamente,
negli annali della vita della congregazione questo anno sarà ricordato
per un altro motivo, molto più allegro ed edificante: il 1975 è
l’anno del venticinquesimo anniversario della fondazione
dell’ordine, una data importante ed un traguardo che Madre Teresa e le sue
consorelle - unitamente ai rami maschile e laico della congregazione
- festeggiano solennemente col cuore e l’animo rivolto al Cielo in
segno di ringraziamento al Signore. È il primo Giubileo delle Missionarie
della Carità che la madre fondatrice dell’ordine celebra il 7
ottobre 1975. Per onorare degnamente tale ricorrenza, Madre Teresa stabilisce
- tramite una lettera inviata alle Case della congregazione - tutte
le regole a cui le suore dovranno attenersi. In primo luogo, scrive la
fondatrice, in ogni Casa si dovrà “celebrare una solenne Messa di
ringraziamento al Signore, invitando tutti i nostri benefattori ed i nostri
poveri ad unirsi a noi per rendere grazie a Dio per tutto quello che ha fatto
per noi e per la nostra Società in questi venticinque anni, per
intercessione del Cuore Immacolato di Maria”. Il Giubileo delle
Missionarie dovrà avere solo un carattere squisitamente religioso e
niente più. Madre Teresa vieta, in maniera tassativa alle sue consorelle
di accettare per la ricorrenza regali, donazioni, forme di sprechi come la
stampa di depliant o di libri illustrati sulla vita della congregazione. Tutto
dovrà essere vissuto - stabilisce la suora - in un perfetto
clima di letizia e sobrietà, senza inutili sprechi che - agli occhi
della religiosa - suonerebbero offesa a Dio e ai tanti poveri sparsi per
il mondo.
Ma il venticinquennale è anche una valida occasione per
Madre Teresa per fare il punto del cammino fino ad allora svolto dalla
congregazione e di ringraziare quanti - a partire dal buon cuore della
Divina Provvidenza - hanno permesso alle Missionarie di mettere radici in
tutti i continenti. Con questo spirito il 10 settembre 1975, a poco meno di un
mese dal Giubileo, scrive una lettera al primo gruppo di consorelle che la
seguirono nella Casa di Creek Lane, la prima sede ufficiale della congregazione.
È un doveroso omaggio al coraggio e alla determinazione con cui
l’originario gruppo accettò ad occhi chiusi la nuova avventura
missionaria, senza garanzie, senza certezza per il futuro, senza mezzi di
sussistenza, ma animato solamente da una profonda fede nel Signore e da una
incondizionata fiducia nella fondatrice dell’Ordine.
“Dopo Dio
e la Vergine - si legge nello storico messaggio scritto alle sue prime
coraggiose discepole - la Madre vuole ringraziare ognuna di voi per la
costante fedeltà, lealtà, umiltà e amore, specialmente per
la cieca fiducia con cui l’avete seguita, senza sapere se la
Società sarebbe riuscita a sopravvivere. Non c’era nulla che
garantisse il futuro. Tutti questi anni di duro lavoro, con così tanta
gioia, tutti questi anni d’amore e di servizio reso al più Povero
dei Poveri...ed è con tutti voi e attraverso l’opera di tutti voi
che Gesù ha posto le fondamenta della Società su di una salda
roccia”.
Dopo il ringraziamento al nucleo originario delle
Missionarie, la Madre si rivolge anche a tutte le altre consorelle entrate in
congregazione negli anni successivi, oltre un migliaio di donne, giovani e meno
giovani, attratte dalla vocazione per gli ultimi secondo il carisma e
l’esempio di vita della prima missionaria futuro premio Nobel per la pace.
“E voi altri, tutti: voi 1.100 consorelle - scrive Madre Teresa
- che con tanta generosità avete seguito le orme del primo gruppo,
il Signore vi conceda il Suo amore e vi tenga sino alla fine della vostra vita
profondamente radicate nel Suo cuore. E tutte quelle care sorelle che hanno
trascorso una buona parte della loro vita nella Società, e poi per
qualche motivo l’hanno dovuta lasciare, a ognuna di loro dico: che Dio vi
ami per l’amore che avete dato, per il lavoro - avete operato con
tanto amore - per la gioia che avete diffuso intorno a voi. Grazie anche
alle nostre sorelle che, dopo avere compiuto il loro lavoro su questa terra,
sono tornate alla Casa del Padre, per intercedere per noi”.
“Insieme abbiamo lavorato per Gesù e con Gesù”
Nella lettera del 10 settembre, Madre Teresa
non si dimentica di ringraziare anche le novizie, le postulanti e i tanti laici
e consiglieri che danno il loro disinteressato aiuto alla congregazione, per
concludere con queste parole: “Nel corso di questi venticinque anni
abbiamo avuto momenti di letizia e momenti difficili. Insieme abbiamo lavorato
per Gesù e con Gesù, e sempre con Maria, motivo della nostra
gioia, al nostro fianco. Ringraziamo Dio per tutti i doni che ci ha dato e
promettiamo solennemente che impegneremo tutte le nostre forze e tutte le nostre
capacità per fare della nostra Società qualcosa di meraviglioso
per Dio”.
Il Giubileo delle Missionarie della Carità dura
circa un mese; viene celebrato con Messe di ringraziamento, incontri di
preghiera, brevi momenti di festa - sempre all’insegna della
sobrietà e della semplicità - nelle ottanta Case di
accoglienza aperte dalla congregazione in tutto il mondo. Alla ricorrenza si
uniscono anche i non cattolici, le comunità protestanti vicine al carisma
di Madre Teresa, i seguaci delle altre religioni (indù, musulmani, sikh),
le comunità ebraiche. Il venticinquennale si trasforma, così, in
una gigantesca preghiera di ringraziamento, interreligiosa ed ecumenica allo
stesso tempo, che Madre Teresa giudica nella sua lettera come
“un’altra cosa meravigliosa” nata intorno alla vita e alle
opere della congregazione. Ed è forse questo l’aspetto più
gratificante del Giubileo delle Missionarie della Carità: vedere, almeno
per un solo giorno, migliaia e migliaia di credenti, appartenenti a religioni
diverse, uniti intorno ad una preghiera comunitaria per il Signore della vita,
lodato nelle opere di assistenza organizzate nelle varie Case di accoglienza
delle Missionarie della Carità alle quali guardano con rispetto e
riconoscenza credenti e non credenti, cattolici, cristiani e non
cristiani.
La “Magna Charta” delle giovani missionarie
La ricorrenza del venticinquennale offre,
inoltre, lo spunto alla fondatrice per fare il punto della situazione generale
dell’Ordine e per tracciare un’ analisi interna alla luce del lavoro
fin qui svolto. In un documento scritto per scrutare dal di dentro in
particolare la vita delle novizie o di quelle consorelle che, pur avendo
professato i voti solenni, vivono la vocazione ancora con un certo peso, Madre
Teresa traccia una sorta di “Magna Charta” della giovane
missionaria. È un documento interno, severo per molti versi, ma che
dimostra con quanta fermezza e dedizione Madre Teresa vive il suo ruolo di
fondatrice e madre spirituale di tutte le sue ragazze. Il venticinquesimo
anniversario delle Missionarie della Carità si trasforma, quindi, in una
sorta di esame di coscienza generale per tutta la congregazione, alla luce del
cammino fatto e in vista delle future attività socio-assistenziali che i
vari rami dell’Ordine si apprestano ad affrontare sulla spinta della forte
richiesta di assistenza che arriva alla Casa Madre di Calcutta dalle tante aree
di crisi dei cinque continenti.
Sorprende e colpisce il fatto che Madre
Teresa per festeggiare adeguatamente i primi venticinque anni di vita della sua
congregazione, invece di dar vita ad una serie di festeggiamenti, invita le sue
consorelle a lodare il Signore con Messe di ringraziamento e ad analizzare la
propria vita di missionarie alla luce delle maggiori problematiche vissute nelle
varie Case di accoglienza. Nell’esame di coscienza suggerito dalla
fondatrice non mancano, infatti, termini forti e sconvolgenti come
“infelicità”, “ferite”, “paure”: la
Madre - consapevole che sarebbe ancora più dannoso per il
proseguimento delle attività caritative se si facesse finta che
all’interno dell’Ordine non ci fossero problemi - ne parla
apertamente, senza paura, convinta che far finta di niente sarebbe deleterio per
il cammino futuro della congregazione. Nella lettera invita, senza eccessivi
giri di parole, le sue consorelle ad un confronto franco e profondo
perché è fermamente convinta che le sfide future vadano affrontate
con l’animo ed il cuore sgombro da pesi o da eventuali incomprensioni.
Leggere questo documento significa compiere un ulteriore passo verso una
più completa conoscenza del forte carattere di Madre Teresa. “In
molte delle nostre comunità - scrive la suora nella sua
lettera-analisi sul venticinquennale - ci sono così tanta
infelicità e così tante ferite create da voi sorelle. Se foste a
casa vostra, o immerse nella vita del mondo, non osereste agire in questo modo.
Dovreste stare attente, per timore di perdere il vostro posto di lavoro o, nel
caso voleste sposarvi, per timore che nessuno vi voglia. Avete appena preso i
voti e subito cominciate con la vostra salute: ‘Non posso prendere cibo
- non posso lavorare - non riesco a camminare - ho mal di
schiena’. Questi alcuni dei malanni più frequenti nelle nostre
giovani consorelle. Alcune di voi lavorano così poco che se per il lavoro
che prestate doveste essere pagate non guadagnereste nulla - e avete fatto
voto per dedicarvi al servizio reso ai più poveri dei poveri in totale
gratuità e abnegazione! Alcune di voi hanno preso la cattiva abitudine di
rispondere, e quella di creare disturbo nella propria comunità con la
speranza di essere cambiate di comunità. E così andate di
comunità in comunità, approfittando del fatto che le vostre
giovani Superiore non sono in grado di esercitare su di voi il necessario
controllo. Molte di voi si sono ridotte il vitto regolarmente, e poi non si
vergognano di mangiare fuori orario nelle case in cui si recano in visita,
oppure a Shishu Bhavan o a Nirmal Hriday, quando lì ci sono persone che
muoiono letteralmente di fame. Eppure la vostra Madre è capace di
lavorare fino alle ore piccole, è capace di viaggiare la notte e di
lavorare il giorno. Non è umiliante per voi che io, alla mia età,
possa mangiare regolarmente e fare tutta una giornata di lavoro e voi che dite
di voler vivere una vita da poveri conduciate una vita oziosa?”.
Raramente Madre Teresa nel corso della sua vita di donna e di missionaria
è apparsa così severa e determinata come in questa
lettera-analisi. Il documento - e va ricordato che rappresenta
l’esame di coscienza fatto alle giovani novizie e postulanti in occasione
del venticinquesimo anniversario dell’Ordine, un’occasione, quindi,
di festa e di gioia - affronta senza mezzi termini alcuni degli aspetti
della vita interna dell’Ordine, sottolinea alcune storture emerse tra le
consorelle ed indica la strada maestra per ritornare all’originario
carisma della Missionarie della Carità. Va detto che Madre Teresa ci
riesce molto bene, anche perché lei non si stanca mai di rammentare alle
sue collaboratrici che la porta è sempre aperta e che nessuna deve
sentirsi obbligata a restare per forza. “Chi sente di voler restare con
noi - ripete infatti in più occasioni - deve sapere che
questa è la nostra vita, che in cima ai nostri pensieri quotidiani ci
sono i poveri che vanno serviti per il grande amore che ognuna di noi prova
verso il Signore. Chi si accorge di non essere in grado di vivere questa vita o
di reggere il passo contemplato nelle nostre Costituzioni è libera di
lasciare”.
Tanta fermezza non può non produrre importanti
frutti in quanto serve, in un certo senso, a ricompattare le fila tra le giovani
missionarie e a sgombrare il campo - all’interno della congregazione
- da eventuali forme di incomprensioni. Con questa impostazione
l’Ordine di Madre Teresa attraversa speditamente il decennio Settanta,
anni dei grandi riconoscimenti per la fondatrice delle Missionarie della
Carità che culmineranno con il premio Nobel del
1979.
E arriva il tempo dei riconoscimenti
La stagione dei tributi e degli attestati di
stima per Madre Teresa da parte delle istituzioni pubbliche e private tocca il
punto più alto con l’avvento degli anni Settanta. Anche se
già nel corso del decennio precedente alla suora erano arrivati non pochi
riconoscimenti da parte della comunità internazionale. Tra i più
prestigiosi, nel 1962, il “Magsaysay Award for International
Understanding”, grazie al quale Madre Teresa ha modo di fondare la Casa
dei bambini di Agral. Nello stesso anno su iniziativa del presidente
dell’India, Rajendra Prasad, la suora viene insignita del “Padma
Shri” (che letteralmente significa, “Lo splendore raggiante del
loto”). Quando le arriva la comunicazione, Madre Teresa resta interdetta.
Non è preparata; non si aspetta tanta attenzione da parte delle alte
sfere della politica indiana.
Tanto è vero che in un primo momento
è tentata di rifiutare. Ma prima di dire di no, si consulta con il suo
diretto superiore, l’arcivescovo Dyer, al quale manifesta tutte le sue
perplessità, a partire dal troppo tempo che avrebbe dovuto
“perdere” per andare a ritirare il premio. “Eccellenza -
spiega la Madre all’arcivescovo Dyer - siccome sono una suora,
suppongo che non dovrei viaggiare sino a Delhi per ricevere
l’onorificenza... è un viaggio lungo, qui c’è tanto da
fare...”. Un modo, indiretto e elegante, per dire che tutto sommato
avrebbe fatto a meno dell’importante riconoscimento. Il vescovo capisce al
volo le titubanze della suora, ma subito le fa capire che lui è di avviso
completamente contrario. Anzi, la sua risposta si trasforma in un perentorio
ordine di partenza: “Madre - controbatte infatti monsignor Dyer
- lei andrà a Delhi per la cerimonia di investitura. Nel conferirle
questa medaglia, il presidente dell’India di certo intende onorare tutte
le nostre Sorelle che si dedicano alle opere di carità in tutto il paese.
È un gesto di riconoscimento a cui non si può dire di
no...”.
Il tributo di Delhi
Madre Teresa, di fronte a tanta insistenza
da parte del vescovo di Calcutta, non può più tirarsi indietro e
parte per Delhi. Fa bene, perché la cerimonia di premiazione - al
di là del valore simbolico legato al riconoscimento - si trasforma
in un autentico tributo per la suora, accolta nella sala della premiazione da
scroscianti applausi, incontenibili manifestazioni di affetto da parte delle
più alte istituzioni del paese. Grazie a questo premio, Madre Teresa
può finalmente constatare di persona con quanta considerazione tutto il
paese che “conta” - nelle persone di politici, capi religiosi,
intellettuali, primari, scienziati - segua la sua opera tra i poveri dei
sobborghi indiani. Il momento più alto della cerimonia è
contrassegnato da uno scrosciante applauso di tutti i presenti, che al momento
della premiazione si alzano in piedi per sottolineare con più forza la
loro riconoscenza verso quella esile suorina macedone assurta a paladina degli
ultimi alla testa di un altrettanto esile esercito di religiose e religiosi
pronti a farsi carico dei problemi degli ultimi dentro e fuori l’India. Il
premier Jawaharlal Nehru, presente alla premiazione, alla fine le va incontro,
le stringe la mano e le manifesta pubblicamente tutta la sua ammirazione. Madre
Teresa è commossa, ma non tanto per lei: in seguito confesserà che
in quel momento pensava che il riconoscimento fosse indirizzato a tutte le sue
consorelle: “Il premio era stato assegnato a loro, io ero solo quella a
cui era stato consegnato: era tutta l’opera delle consorelle che veniva
onorata”.
Gli anni Settanta iniziano con un altro importante
riconoscimento, questa volta dal Vaticano su iniziativa di Paolo VI. Nel gennaio
del 1971, Madre Teresa e la sua congregazione ricevono, infatti, il primo premio
“Giovanni XXIII” dedicato alla pace nel mondo: è un assegno
di diecimila sterline che le Missionarie della Carità utilizzano subito
per costruire un centro di accoglienza per i malati di lebbra a Madhya Pradesh
su un ampio appezzamento di terreno ricevuto in dono dalle autorità
indiane. Anche in questa circostanza la suora accetta dopo essersi consultata
con il suo diretto superiore, l’arcivescovo di Calcutta, anche se non le
passa mai per la testa - nemmeno per un solo attimo - di opporre
qualche resistenza, trattandosi di un riconoscimento deciso dal Papa in persona.
A turbare, in qualche modo, la sensibilità della Madre è la parte
economica del premio, quelle diecimila sterline che a suo dire potrebbero andare
contro l’ordinamento delle Costituzioni, dove c’è chiaramente
scritto che la congregazione non deve accettare somme di denaro da nessuno. La
scappatoia viene subito trovata con la “immediata” prospettiva di
destinare il finanziamento alla costruzione di una nuova Casa di accoglienza per
una particolarissima categoria di bisognosi, i malati di lebbra, per i quali
avere a disposizione una nuova Casa è di vitale importanza. Di fronte a
questa prospettiva di concreta carità, cadono anche le più piccole
incertezze e il premio viene accolto senza riserve da Madre Teresa.
Dal
Vaticano agli Stati Uniti d’America, dove lo stesso anno - il 15
ottobre 1971 - la fondazione “Joseph P. Kennedy jr” le
conferisce un altro importante riconoscimento per l’ opera missionaria
svolta tra le metropoli americane. Il premio - che Madre Teresa ritira con
tanta gioia e profondo senso di rispetto per le autorità americane
- consiste in un vaso di cristallo sul quale è stata incisa una
figura di San Raffaele e a corredo della motivazione una frase della stessa
fondatrice delle Missionarie della Carità: “A Madre Teresa, i cui
sforzi hanno saputo creare qualcosa di meraviglioso per Dio”.
Dopo
pochi mesi, nel 1972, si fa ancora una volta avanti l’India con un altro
importante tributo, il “Premio Nehru per la solidarietà
internazionale”. Questa volta la madre non ha dubbi: autorizzata come
sempre dai suoi superiori, si reca senza esitazione alla cerimonia di consegna,
pienamente convinta che con quel premio le autorità indiane, oltre a
manifestare la loro attenzione verso le opere delle Missionarie della
Carità, vogliono ancora una volta esprimere tutto il loro rispetto per le
sue consorelle, i collaboratori laici e ogni singola persona che, dentro e fuori
l’India, si sente vicino alla congregazione. Convinzione che trova
puntuale riscontro nella motivazione ufficiale che accompagna il premio. Madre
Teresa, si legge infatti nell’encomio, viene presentata come “una
delle più notevoli manifestazioni di carità nel mondo”. La
suora, sanciscono i giurati responsabili dell’assegnazione del premio
“Nehru”, è stata d’esempio per tanti devoti
(consorelle, fratelli, professionisti, laici, esponenti di altre religioni) che
in tutto il mondo hanno attivato iniziative di carità per i più
poveri e per gli emarginati che, senza l’aiuto delle Missionarie della
Carità, erano destinati ad un sicuro abbandono, privi di qualsiasi forma
di sostentamento, senza amore e privi di qualsiasi manifestazione di
affetto.
Tra i tanti premi, spicca anche qualche importante riconoscimento
per il suo fondamentale ruolo all’interno del movimento interreligioso ed
ecumenico. Come avviene nel 1973, quando Madre Teresa è la prima
personalità ad essere insignita del premio “Templeton per il
Progresso della Religione”: il suo nome viene scelto da una giuria
internazionale formata da personalità del mondo della religione,
studiosi, rappresentanti di enti statali ed enti ecclesiastici di diverse
confessioni, tra cui spiccano i rappresentanti del cristianesimo,
dell’ebraismo, del buddismo e dell’induismo. Il nome della suora
prevale su una lista di 2.000 candidati scelti tra le più importanti
personalità religiose del mondo. Madre Teresa accetta, anche se -
al momento della cerimonia di consegna - tiene a precisare che in cuor suo
non si sente di essere al vertice di una lista così prestigiosa: il mondo
è pieno di bravi cristiani, ma anche di buoni fedeli di altre religioni
che lavorano per i poveri, “noi - confessa - siamo solo una
congregazione tra le tante”.
Tanta modestia le fa certamente onore,
ma non convince quasi nessuno. Ormai - al di là del premio -
Madre Teresa è una figura internazionale di grande prestigio, un esempio
per potenti o semplici uomini della strada che travalica i confini
dell’India per toccare le aree più lontane e
disparate.
L’anno della Fao
Come dimostra il 1973, l’anno in cui
la Fao - l’organizzazione alimentare delle Nazioni Unite -
decide di dedicare la sua medaglia annuale, la famosa Cerere-Fao, al volto di
Madre Teresa. Anche questa scelta è una sorpresa, del tutto inaspettata,
per la diretta interessata. La richiesta le viene rivolta dal presidente della
stessa Fao, R. Lloyd, che in una lettera le domanda: “Madre,
acconsentirebbe ad essere la nostra Cerere-Fao? Saremmo commossi se
acconsentisse”. La lettera le viene inviata il 25 settembre, ma la
risposta arriva con un certo ritardo, nel dicembre del 1973. “Vi ringrazio
per la vostra cortese lettera - scrive tra l’altro Madre Teresa
- perdonate il ritardo. Non avevo mai sentito prima dell’esistenza
di una medaglia di Cerere della Fao; sono grata a tutti voi, al medaglista
inglese, e a tutti i membri della Fao, per aver proposto me per figurare sulla
medaglia. Accetto soltanto se sarà per la gloria di Dio e per il bene dei
poveri. Dio vi ama per tutto l’amore che avete dato alla gente del mondo,
e, come gesto di gratitudine per ciò che avete fatto per la nostra gente,
il mio accettare il vostro invito non è che un minimo segno di
riconoscenza”. E così, dopo quel placet dato con tanto amore e
riconoscenza, dopo qualche mese - precisamente nel marzo del 1975 -
il volto di Madre Teresa viene impresso sulla medaglia dedicata dalla Fao a
Cerere, la dea dell’agricoltura: è, praticamente, la consacrazione
mondiale per la piccola suora macedone, seconda per importanza solo a un altro
riconoscimento che arriverà alla fine degli anni Settanta, il Premio
Nobel per la pace.
Tra i premi più inaspettati va annoverato,
sicuramente, quello che le viene assegnato nel 1974 dal primo ministro della
Repubblica Araba dello Yemen. È l’onorificenza della “Spada
dell’Onore”, la più alta dello Stato yemenita, che Madre
Teresa riceve unitamente all’invito del governo a fondare nello stesso
Yemen una nuova Casa di accoglienza per i poveri del paese.
A Città del Messico per l'Anno della Donna
Verso la fine di giugno del 1975, Madre
Teresa riceve un’ altra attestazione di stima, quando, su specifico invito
della Santa Sede, entra a far parte della commissione vaticana presente ai
lavori del Congresso Mondiale delle Nazioni Unite in programma a Città
del Messico in occasione dell’Anno internazionale della Donna. Per la
suora è, a suo modo, un “esordio”, carico di
responsabilità perché la Santa Sede, prima di indicare una
personalità che rappresenti la dottrina della Chiesa cattolica in
determinati consessi (simposi, congressi, meeting interreligiosi...), ci pensa
sempre bene. E quando indica un nome, come fa con Madre Teresa per il congresso
dell’Onu a Città del Messico, è più che sicura che il
prescelto o la prescelta rappresenteranno le istanze cattoliche nel migliore dei
modi. La commissione vaticana è formata da otto personalità
nominate dalla Santa Sede a livello internazionale e Madre Teresa è una
di esse. È un incarico di prestigio, ma anche un riconoscimento
all’opera che da anni la fondatrice delle Missionarie della Carità
e il suo piccolo esercito di irriducibili consorelle svolgono in tutto il mondo.
Un incarico naturalmente non cercato, ma per il quale, quando viene comunicato
ufficialmente, la religiosa di Calcutta non può fare a meno di
manifestare tutta la sua riconoscenza verso il Papa. È lei stessa che
decide di informare direttamente le consorelle di essere stata designata dalla
Santa Sede a partecipare al summit dell’Onu. Lo fa col preciso intento di
coinvolgere tutta la congregazione in un momento di gioia e di così alto
impegno, come lei stessa spiega poco prima di partire alla volta di Città
del Messico. “Sapete da sempre che la Chiesa è tutto per me, come
è tutto per voi. Per questo - confessa Madre Teresa - ho
accettato di essere invitata a testimoniare l’amore di Cristo per i suoi
poveri a nome della Chiesa. Dunque, starò via per circa tre settimane per
prendere parte ai lavori del congresso mondiale organizzato dall’Onu per
l’Anno internazionale della Donna. So che durante queste tre settimane di
assenza pregherete per me. Da parte mia pregherò per voi, in modo che ci
aiuteremo reciprocamente. Nella preghiera continua ci aiuteremo reciprocamente e
faremo sempre ciò che Dio e la Chiesa si aspettano da noi”. Alle
consorelle, Madre Teresa anticipa anche, per sommi capi, il contenuto
dell’intervento che terrà a Città del Messico.
“È il congresso dedicato all’Anno della Donna, cioè
alla persona - sottolinea la religiosa - che da sempre svolge un
ruolo determinante per la costruzione della pace nel mondo, a tutti i livelli,
come madre, come sorella, compagna, amica, oppure come responsabile di
istituzioni, di comunità o di realtà socio-politiche. Al di sopra
di tutto, avverte Madre Teresa, non va mai dimenticato che “l’amore
comincia a casa”, per cui, “se una donna svolge il proprio ruolo
nella famiglia, se c’è pace intorno al suo nucleo, ci sarà
pace nel mondo”. E ancora: “Esiste un potere della donna che nessun
uomo può supplire, il potere di dare la vita, il potere
dell’amore...la grandezza delle donne sta nel loro amore verso gli altri,
non verso se stesse”. Come esempio pratico, Madre Teresa,
nell’anticipare alle consorelle il contenuto delle parole che
pronuncerà al congresso dell’Anno internazionale della Donna, parla
della esperienza maturata a Cuba accanto alle donne sconosciute che nessuno
voleva e che nessuno amava, “donne - ricorda con amarezza -
costrette a vivere sulla strada”. Quando davanti ai delegati del congresso
Onu solleverà questo problema, non mancherà di lanciare un
vibrante appello alla conferenza perché tutti si rendano conto di quanta
ingiustizia “ancora oggi grava sulle spalle di tante, troppe donne:
sfruttate, umiliate, maltrattate, costrette a subire le umiliazioni più
cocenti”. “È una ingiustizia - grida Madre Teresa,
- una ingiustizia che offende Dio, le donne e ogni persona di buon senso;
uno scandalo che va doverosamente denunziato e rimosso anche perché,
conclude la religiosa, “ciò che regge il mondo è
l’amore delle donne di cui nessuno sa niente”.
Madre Teresa
quando parla in pubblico usa sempre un linguaggio profondamente ispirato ai
valori evangelici, ma non per questo meno semplice, diretto, coinvolgente. Ha un
modo di esprimersi accessibile a tutti e - particolare che piace tanto ai
piani alti della gerarchia cattolica, Vaticano compreso - sempre in linea
con i più profondi principi della dottrina sociale della Chiesa. Forse
per questo, col passare del tempo, i vescovi e le comunità cattoliche
fanno a gara nell’averla come relatrice in simposi e
convegni.
Al bicentenario Usa
Madre Teresa, quando può, accetta
volentieri, perché sente che la parola di Dio si può diffondere
con le opere di carità, con l’esempio, ma anche con il dialogo.
Dopo la partecipazione al congresso Onu per l’Anno internazionale della
Donna, nel 1976 è tra i relatori impegnati negli Usa a celebrare il
bicentenario della fondazione degli Stati Uniti. Per questa importante
ricorrenza, la comunità cattolica statunitense organizza a Filadelfia un
congresso internazionale dedicato alla Eucarestia Oggi. All’apparenza,
è un tema esclusivamente religioso, forse adatto per essere discusso solo
in un consesso a carattere tipicamente ecclesiale da suore e preti. Madre
Teresa riesce, invece, con il suo intervento a trasformarlo in una analisi dei
mali più ricorrenti che gravano sulla società, seguendo un
ragionamento strettamente legato al messaggio evangelico così come ci
è stato tramandato nel sacrificio dell’Eucarestia,
dell’ultima cena di Gesù. Dalla tribuna del congresso di Filadelfia
parla, dunque, di Cristo, del Suo sacrificio sulla croce e del messaggio di
speranza culminato con la croce del Golgota; parla della grande attenzione
evangelica per gli ultimi, per gli abbandonati: spiega quanto sia attuale quel
“beati gli ultimi, i miti e gli afflitti” lanciato da Cristo dal
Monte delle Beatitudini, un messaggio - ricorda la suora - sempre
attualissimo e che impegna in primo luogo il cristiano di ogni epoca a farsi
carico dei bisogni dei più deboli.
Tesi portante
dell’intervento di Filadelfia è la ferma convinzione
dell’esistenza - in ogni epoca e in tutte le latitudini - di
un costante e stretto rapporto tra insegnamento evangelico e sofferenze del
mondo, tra messaggio di speranza cristiana e mali che affliggono i fratelli
più sfortunati, tra certezza della salvezza finale nelle braccia del
Padre celeste e momentanea apparente sconfitta (sociale, economica, personale)
dovuta a malattia, limiti caratteriali, sfortuna,
sfruttamento...
“Oggi - spiega al congresso del bicentenario
della fondazione degli Stati Uniti d’America - Gesù vive la
propria Passione nei giovani del mondo; in quei giovani che soffrono, che hanno
fame, che sono handicappati; nel bambino che mangia un pezzo di pane, briciola
dopo briciola, perché quando quel pezzo di pane sarà finito non ce
ne sarà un altro e la fame tornerà. Questa è una Stazione
della Croce”. Ma tutti i mali della società contemporanea, insegna
Madre Teresa, volendo, possono essere affrontati, vissuti e vinti con la stessa
determinazione con cui Cristo affrontò tutte le Stazioni della sua
Passione prima di ascendere, con la croce sulle spalle, il Calvario, subire
l’onta della morte e, infine, diventare il Signore della vita con la
resurrezione.
In attesa del Premio Nobel - come già abbiamo
visto - sono tanti i riconoscimenti ricevuti da Madre Teresa in molte
parti del mondo. Oltre a quelli di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti,
va ricordata la laurea honoris causa conferitale il 2 novembre 1975 dalla St.
Francis Xavier University di Antigonish, nella nuova Scozia. Nella motivazione,
letta nel corso di una solenne cerimonia al cospetto di un migliaio di invitati,
il preside della Facoltà, reverendo Malcom McDonnell, elogia con parole
profonde e semplici la sua opera accanto ai poveri in tutto il mondo. La indica
ad esempio per quanti hanno a cuore il bene degli altri, specialmente dei
più bisognosi e sfortunati; ma ne parla anche come donna pratica,
concreta, amante della giustizia e della semplicità, per niente
interessata alle apparenze e agli onori mondani. “E proprio perché
ci rendiamo conto di questo - specifica il reverendo nella sua prolusione
- che siamo così desiderosi di averla in visita da noi e di poterle
conferire questa laurea honoris causa in legge. Cara Madre, non solo noi abbiamo
bisogno della benedizione della sua presenza, ma i docenti e tutti noi siamo
poveri tanto quanto la gente a cui lei sta dedicando la sua vita, anche se i
nostri bisogni e la nostra povertà sono di tipo differente. In ogni passo
della vita c’è bisogno di ispirazione, e noi non facciamo
eccezione. Grazie, cara Madre, per essere qui tra noi e averci onorati
nell’accettare questa nostra laurea”.
In attesa del Nobel
Anche il 1976 è un anno intensissimo.
Oltre ai premi internazionali - tra i tanti è doveroso ricordare il
nuovo tributo che riceve dalla sua amata India per mano di Indira Gandhi, il
Deshikottama, una laurea ad honorem in letteratura - Madre Teresa ha modo
di toccare con mano quanto grande sia diventata la sua opera in tutto il mondo
sia per il numero delle vocazioni che dei volontari laici. Il nuovo
riconoscimento le arriva il 3 marzo 1976: Indira Gandhi, in qualità di
cancelliere della prestigiosa Viswa Bharati University, le consegna il
Deshikottama in segno di profonda riconoscenza - spiega nella motivazione
- per l’ importante contributo fornito per il riscatto
dell’umanità sofferente in tutto il mondo, al di là delle
differenze politiche, razziali, religiose e sociali. “A guardarla, cara
Madre, lei è minuta e piccolissima, ma in lei non vi è nulla di
piccolo”, confesserà la signora Gandhi al momento del conferimento
del nuovo prestigioso riconoscimento alla religiosa.
Dopo qualche mese da
quella cerimonia, Madre Teresa è chiamata a presenziare a Lippstadt,
nella Repubblica Federale Tedesca, un importante incontro internazionale di
collaboratori delle Missionarie della Carità. Il meeting si svolge il 15
e il 16 agosto del ’76. Vi prendono parte rappresentanti laici provenienti
da tutto il mondo che hanno modo di scambiarsi esperienze, ascoltare la Madre
fondatrice, fare progetti di solidarietà per il futuro. I collaboratori
torneranno a riunirsi sei anni dopo a Roma, il 15 e il 16 maggio del 1982, e
sempre alla presenza di Madre Teresa che, però, non gradisce
eccessivamente questi tipi di incontri, perché istintivamente contraria a
criteri organizzativi eccessivamente rigidi, come in genere fanno le altre
organizzazioni laiche o religiose. Alla Madre interessa che, sia le sue
consorelle sia i collaboratori laici, si facciano sempre guidare da una sorta di
istintiva “disorganizzazione” per non dover mai rinunciare alla
libertà.
È un concetto che può apparire difficile da
capire per chi conosce appena superficialmente il carisma delle Missionarie
della Carità. Madre Teresa lo sa e per questo non si lascia mai sfuggire
l’occasione giusta per spiegarlo ai suoi interlocutori. Come fa, ad
esempio, nell’incontro con i collaboratori che si svolgerà a Roma
nel maggio del 1982: “Confido che i collaboratori - dirà in
quella occasione - non diventino una organizzazione come tante altre.
Siamo solite dire che noi Missionarie della Carità costituiamo
l’organizzazione più disorganizzata. A volte penso che siamo
effettivamente molto disorganizzate, ma credo anche che proprio per questo
possiamo muoverci con maggior libertà, senza tutto il peso di regolamenti
che ce lo impediscano”.
In un successivo incontro con i collaboratori
che si terrà nel maggio del 1988 a Parigi, Madre Teresa - oltre a
tornare a ribadire i suoi antichi concetti di libertà ed efficienza anche
a discapito di una perfetta organizzazione - provvederà a designare
una nuova coordinatrice per il Sud Africa.
“Cari fratelli per la nostra opera noi non accettiamo danaro”
Ai meeting internazionali dei collaboratori
- che come abbiamo visto si svolgono in genere ogni sei anni - Madre
Teresa ama parlare a lungo per rinverdire le finalità della
congregazione, rilanciare idee, programmi e carismi. Ecco, ad esempio, cosa
ricorda all’incontro di Lippstadt: “Cari collaboratori e consorelle
noi dobbiamo riporre il massimo impegno nel fare del nostro lavoro
un’opera d’amore e, per mantenerlo tale, questo nostro lavoro deve
basarsi sempre sul sacrificio”. “Come ben sapete - continua
Madre Teresa - facciamo voto di donarci con tutto il cuore al servizio
generoso dei poveri più poveri, e grazie a questo voto, riponiamo tutta
la nostra fiducia nella Divina Provvidenza. Noi non accettiamo alcuna
retribuzione per il lavoro che svolgiamo, né, tantomeno, costituiamo
un’organizzazione che abbia come fine la raccolta di fondi. Dobbiamo
compiere l’opera di Dio con amore e con sacrificio, se occorre. Per
questo, dobbiamo precisare che tutti i soldi, i viveri, i medicinali o altre
cose che riceviamo, devono essere utilizzati esclusivamente a vantaggio dei
poveri affidati alle cure delle Missionarie della Carità. Questo
costituisce un atto di giustizia nei confronti dei poveri, nel cui nome
accettiamo le offerte. Preferirei che vi asteneste dal chiedere alla gente di
contribuire secondo quote fisse, settimanali o mensili: questo non lo consento
neppure in India. Dipendiamo dalla Divina Provvidenza e non mi piacerebbe che la
gente avesse l’impressione che quello che ci interessa sia il loro denaro.
Anche i collaboratori devono dipendere dalla Divina Provvidenza”.
Come appare evidente, a Madre Teresa sta molto a cuore il problema del
sostentamento della sua congregazione, ma anche delle tante realtà
- i collaboratori laici, appunto - sorte sulla scia del suo carisma.
Teme, però, qualsiasi forma di dipendenza o di gratuito sfruttamento. Per
cui non si stanca mai di raccomandare a consorelle, collaboratori e volontari la
massima trasparenza e la totale dedizione alla causa dei poveri, anche in
materia di donazioni e offerte, che, come è facilmente intuibile, col
passare degli anni aumentano parallelamente alla crescita delle opere attivate
dalle Missionarie della Carità. Ma non per questo, puntualizza Madre
Teresa nel suo discorso all’incontro del 1976 a Lippstadt, bisogna
rifiutare per partito preso gli aiuti che possano arrivare da amici e
simpatizzanti. “ Se la gente offre volontariamente del denaro, sia
benedetto Iddio - esorta la suora - ma per favore, evitate impegni a
scadenza fissa, che vi obbligherebbero a perdere tempo nel riscuotere i soldi e
nel tenere la contabilità. E, mi raccomando ancora, non fate annunci,
né scrivete lettere circolari per questue, né fate cose destinate
alla vendita: dobbiamo portare lo spirito di sacrificio nella vita delle
persone. Credo che sia così che ci vuole Gesù, e non mi
stancherò mai di ripeterlo. Offriamo tutti i nostri atti per la gloria di
Dio e preghiamo perché ci aiuti a divenire strumenti di pace, di amore e
di bontà. Desidero insistere su una cosa: dobbiamo trasformare il nostro
lavoro per i poveri in un’opera d’amore; ma per fare questo,
dobbiamo coltivare in noi lo spirito di sacrificio. Non accettiamo alcun
compenso materiale per il nostro lavoro, né vogliamo diventare
un’organizzazione per la raccolta dei fondi”. “Siamo e
continueremo ad essere - è il leitmotiv che Madre Teresa non si
stanca mai di ripetere - una organizzazione che raccoglie amore per
donarlo agli altri, offre misericordia fraterna, e vorrà sempre essere
uno strumento nelle mani di Dio per il bene dei poveri e degli
ultimi”.
Ma cosa sono, in realtà, i collaboratori di Madre
Teresa? Sono gruppi di persone - sia uomini che donne - che, anche
senza professare i voti solenni, accettano in tutto e per tutto la scelta
preferenziale dei poveri operata dalle Missionarie della Carità. Dal 29
marzo 1969, su decisione di papa Paolo VI, i collaboratori hanno anche uno
Statuto che regola la loro vita comunitaria. È una sorta di Costituzione
secondo la quale “il collaboratore sceglie una forma di vita che lo porta
a vedere Dio in ogni essere umano. Vedendo Dio in ogni persona, iniziando
ciascuno da coloro che gli sono più vicini, ci si sente pronti a
condividere le sorti di coloro che sono soli, degli ammalati, degli afflitti,
dei bisognosi e di coloro che nessuno ama né desidera”. Nello
Statuto è anche specificato che “l’Associazione
internazionale dei collaboratori consta di uomini, donne, giovani e bambini di
qualsiasi razza e religione, di tutto il mondo, che cercano di amare Dio
attraverso il prossimo, mediante un servizio generoso e gratuito nei confronti
dei poveri più poveri, di qualunque casta e religione, e che si sforzano
di unire sempre più le loro vite, con spirito di preghiera e di
sacrificio, all’opera delle Missionarie e dei Fratelli Missionari della
Carità”.
Lo statuto dei collaboratori
“I poveri più poveri che i
collaboratori - commenta Madre Teresa - al pari dei Fratelli e delle
Sorelle Missionarie della Carità, si impegnano a riconoscere, amare e
servire con servizio cordiale, libero e gratuito, nello statuto, vengono
definiti come coloro che ‘patiscono la fame, la sete, coloro che non hanno
di cui vestirsi, i senzatetto, gli ignoranti, i prigionieri, i mutilati, i
lebbrosi, gli alcolizzati, i tossicodipendenti, i moribondi abbandonati, gli
emarginati e tutti coloro che si sentono considerati come un peso per la
società, nonché coloro che hanno perduto ogni speranza e fede
nella vita”.
Come le Missionarie e i Missionari della Carità,
anche i collaboratori di Madre Teresa ben presto producono tanti ed abbondanti
frutti: anche loro come le consorelle Missionarie, danno vita ad opere di
carità, ad attività assistenziali e, soprattutto, ad un movimento
che ben presto diventa un nuovo insostituibile punto di aggregazione per un
numero sempre più consistente di vite votate ai poveri tra i più
poveri.
Jacqueline “sosia” di Teresa
Figura di punta di questo movimento -
a ragione considerata la più nuova creatura plasmata dal talento e dal
carisma della piccola suora macedone - è Jacqueline de Decker, una
giovanissima donna che riesce a trasformare i suoi tanti problemi di salute
causati da un incidente stradale in un inesauribile tesoro a favore di bisognosi
e abbandonati fatto di assistenza, cure, accettazione fraterna, insegnamento:
proprio come per anni ha predicato Madre Teresa in ogni angolo della terra. Non
a caso, la stessa fondatrice quando parla di Jacqueline la definisce
amorevolmente “una mia sosia che mi somiglia in tutto e per tutto, alla
quale mi unisce una stima profonda e un attaccamento fraterno”.
Ebbene, conosciamola un po’ più da vicino questa piccola
grande “sosia” della fondatrice delle Missionarie della
Carità, la cui avventura spirituale ed umana è collocabile ai
primissimi posti all’interno del movimento delle Missionarie della
Carità, essendo una religiosa che sarà capace di trasformare il
suo personale dolore fisico in una continua testimonianza di fede e di
attaccamento alla causa dei poveri.
Jacqueline e Madre Teresa si incontrano
per la prima volta a Patna, nei mesi in cui la religiosa futuro Premio Nobel per
la pace è chiamata a seguire un corso di addestramento ospedaliero. Le
due consorelle fin dai primi approcci capiscono subito di essere in sintonia in
materia di vocazione religiosa, ispirata all’aiuto incondizionato ai
poveri tra i più poveri. E per questo, fin dai giorni di Patna,
Jacqueline confessa subito alla Madre di voler entrare nella sua nuova
congregazione. Desiderio, però, messo subito a dura prova per i suoi
gravi problemi di salute, emersi fin dall’età di 15 anni in seguito
ad un grave incidente stradale. Malgrado i tanti ricoveri e i numerosi
interventi chirurgici, la ragazza, in un primo momento, riuscì a
recuperare parte del suo originario vigore fisico ma, con il passare del tempo,
l’impossibile clima dell’India minò ulteriormente la sua
salute. Da qui la decisione di far rientro ad Anversa per iniziare una nuova
serie di cure.
Trasferitasi in seguito in Belgio, i medici le scoprono una
grave malformazione alla colonna vertebrale, aggravata dal fatto che Jacqueline
ha un corpo facilmente attaccabile da gravi forme tumorali. Malattie e acciacchi
che ben presto incominciano a trasformarsi in pericolosissimi sintomi di
paralisi che partendo dalle braccia, tendono a bloccarle tutto il resto del
corpo. Per evitare il peggio, la ragazza viene sottoposta ancora ad una nuova
serie di interventi in ospedali e case di cura. Trascorre quasi un intero anno
completamente ingessata, con la nuca e buona parte del corpo bloccati dalle
protesi. Passano i mesi, e i medici decidono di applicarle altre dodici protesi
alle vertebre.
Jacqueline, malgrado le cure e gli interventi chirurgici,
si convince che non guarirà più e che - cosa ancora
più grave per la sua vocazione - non potrà fare più
ritorno in India per dedicarsi ai poveri tra i più poveri nelle
Missionarie della Carità. Per lei è un choc. Qualsiasi persona al
suo posto si sarebbe lasciata andare, vittima della disperazione e della rabbia.
Jacqueline, invece, non si arrabbia, non si scaglia contro nessuno: accetta
tutto con cristiana rassegnazione. Anzi, malgrado gli acciacchi, la cattiva
salute e un corpo che ormai non risponde quasi più agli stimoli del suo
cervello, decide ugualmente di servire Dio. Per capire la vera natura di questa
scelta, vale la pena ancora una volta ricorrere ai ricordi di Madre Teresa, la
quale non si è mai lasciata sfuggire l’occasione di rammentare alle
sue allieve la grande lezione di vita ricevuta dalla sfortunata Jacqueline de
Decker.
“Jacqueline - ricorda Madre Teresa nei suoi diari
- ha lavorato in India per alcuni anni. Ma, per motivi di salute, è
stata costretta a passare la sua vita in Belgio. Ha dovuto subire quasi una
trentina di operazioni chirurgiche. Una volta mi disse: ‘So che sto per
ricevere una grande grazia dal cielo, perché ultimamente i miei dolori
sono aumentati’. Quei dolori e quelle sofferenze, Jacqueline li ha sempre
offerti all’opera delle Missionarie della Carità. A sua volta si
è incaricata di coordinare diverse migliaia di persone che pure offrono
le loro sofferenze a vantaggio del successo spirituale dell’opera delle
sorelle. Incontrai la signorina Jacqueline de Decker per la prima volta
nell’ospedale della Sacra Famiglia di Patna, dove mi ero trasferita dopo
aver lasciato il convento della congregazione delle suore di Nostra Signora di
Loreto, nel 1948”.
“Le preghiere delle contemplative”
“Jacqueline avrebbe voluto lavorare
con noi - continua ancora Madre Teresa - entrando a far parte della
nostra congregazione religiosa, ma la sua salute non glielo permise e si vide
costretta a tornare in Belgio dopo due anni di permanenza in India. Poco dopo il
rientro in Belgio di Jacqueline, nel 1952, io le scrissi una lettera in cui
dicevo: ‘Ti sottopongo una proposta che sono certa ti farà molto
felice. Perché non unirti spiritualmente alla nostra congregazione?
Mentre noi compiamo il nostro lavoro nei suburbi, tu puoi condividere il merito,
le preghiere e il lavoro stesso, per mezzo delle tue sofferenze e preghiere. Il
lavoro è enorme. Io ho bisogno di collaboratori nel lavoro, è
vero, ma ho anche bisogno di anime che, come te, preghino e offrano le loro
sofferenze per il lavoro stesso. Non vorresti divenire mia sorella e Missionaria
della Carità, rimanendo con il corpo in Belgio, ma essendo con
l’anima in India e nel mondo intero, ovunque vi siano anime che anelano a
Nostro Signore, ma che non si sentono capaci di andarGli incontro in mancanza di
qualcuno che saldi i loro debiti? Tu sarai una vera Missionaria della
Carità, pagando i loro debiti, mentre le sorelle - le tue sorelle!
- li aiuteranno ad avvicinarsi a Dio con il corpo. Prega per questa
intenzione e fammi conoscere la tua decisione. Io ho bisogno di molte persone
come te che in questo modo si associno alla congregazione, giacché il mio
desiderio è di contare su: primo, una congregazione gloriosa in cielo;
secondo, una congregazione che soffre sulla terra anche con i suoi figli
spirituali; terzo, una congregazione militante, vale a dire con tutte le sorelle
che si trovano sul campo di battaglia. Sono convinta che ti sentirai felice
più di quanto non veda le sorelle che combattono contro il male nel campo
delle anime. Nostro Signore deve per forza amarti molto, se ti offre di
condividere una porzione così grande delle Sue sofferenze. Tu sei
fortunata, perché Dio ti ha eletto. Sii buona e generosa, e riservami un
posto nel tuo cuore, affinché possa condurre molte anime a Dio. Quando
entri in contatto con le anime, la sete aumenta di giorno in
giorno”.
La generosità di Jacqueline
Parole così profonde lasciano
inevitabilmente il segno, in particolare in una persona come Jacqueline che,
istintivamente vive lo stesso trasporto vocazionale di Madre Teresa.
Così, la piccola sfortunata de Decker diventa il punto di riferimento del
ramo contemplativo delle Missionarie della Carità aperto agli ammalati
gravi e senza speranza di guarigione. È una vera e proprio rivoluzione,
un autentico ribaltamento di una situazione di sconfitta iniziale dovuta a
motivi di salute, che porta Jacqueline a diventare il fulcro di una nuova
iniziativa di preghiera all’interno della congregazione che ben presto si
ramificherà in tutte le Case di accoglienza delle Missionarie della
Carità.
“Grazie alla generosità di Jacqueline -
continua il ricordo di Madre Teresa - si costituì il primo gruppo
di Collaboratori infermi e sofferenti. Allora io indirizzai a lei e agli altri
una nuova lettera: ‘Sono lieta, le scrissi, che siate desiderosi di unirvi
ai membri che soffrono all’interno delle Case e degli ospedali della
Missionarie della Carità. Voi, tu Jacqueline, e tutti gli altri infermi e
sofferenti, prenderete parte a tutte le nostre preghiere e a tutti i nostri
lavori e a tutto ciò che facciamo per le anime: voi stessi, mediante le
vostre preghiere e sofferenze, farete altrettanto. Come sapete,
l’obiettivo della Congregazione consiste nell’appagare la sete
d’amore che Gesù sulla croce prova per le anime, lavorando per la
salvezza e la santificazione dei poveri delle borgate. Chi potrebbe farlo meglio
di te, cara Jacqueline, e di tutti gli altri che, come te, soffrono? Le tue
sofferenze e le tue preghiere saranno come il calice in cui noi, membri attivi,
lasciamo stillare l’amore delle anime che andiamo riunendo. Perciò,
voi siete altrettanto importanti e necessari quanto noi in ordine alla
realizzazione del nostro obiettivo. Per appagare la sete di Gesù, noi
dobbiamo essere come un calice, e tu e gli altri, uomini, donne, bambini, vecchi
e giovani, poveri e ricchi, siete i benvenuti a formare questo calice. Figlioli
miei: amiamo Gesù con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Conduciamo a lui molte anime. Non mancate di sorridere. Sorridete a Gesù
nelle vostre sofferenze. Per essere autentici Missionari della Carità
dovete essere vittime d’amore. Come si rivela bella la vostra vocazione:
essere gli araldi degli amori di Dio nei suburbi.... Restiamo tutti in piedi,
sostenendo il medesimo calice, e in tal modo, insieme con gli angeli, in
atteggiamento di preghiera, appaghiamo la sete di anime che Cristo ha. Mi sento
felice di avere tutti quanti voi. Voi mi appartenete, siete prossimi al mio
cuore, così come lo è ognuna delle sorelle della mia
comunità. Spesso, quando il lavoro si fa più arduo, penso a ognuno
di voi e prego così Iddio: posa il tuo sguardo su questi miei figli che
soffrono, e per amore loro, benedici il mio lavoro. Ho l’impressione che
questa preghiera produca frutti immediati. Come vedete, voi siete lo scrigno dei
nostri tesori”.
Il ramo contemplativo degli infermi guidato da suor
Jacqueline rafforza la squadra delle religiose oranti di Madre Teresa andando ad
affiancare i Collaboratori di vita contemplativa coordinati da padre George
Gorrée e successivamente affidato a suor Nirmala. “In generale
- spiega Madre Teresa - si tratta di suore di clausura che offrono
sostegno spirituale all’opera delle Missionarie della Carità per
mezzo delle loro preghiere. Sono nostre amatissime sorelle che dedicano la loro
esistenza alla preghiera, al dialogo continuo con Dio per il bene di tutti
noi”. È un settore della congregazione che col passare degli anni
crescerà in maniera sorprendente. In tutto il mondo attualmente i
monasteri di clausura delle Missionarie della Carità sono centinaia.
Ognuno di essi vive una vita autonoma fatta in prevalenza di preghiere e di
meditazioni. Ogni monastero, però, è unito, tramite un gemellaggio
spirituale fatto di preghiere, con una comunità di Fratelli o di Sorelle
Missionarie della Carità. “Il nostro lavoro sarebbe inutile -
spiega la Madre fondatrice - se non fosse fecondato dalla preghiera e dal
sacrificio nostro e dei nostri Collaboratori”.
I grandi premi
“Tuttavia, l’aiuto maggiore lo
abbiamo ricevuto da quei poveri battezzati che sono morti nelle nostre Case e
sono andati direttamente in cielo. I nostri aiutanti più efficaci sono i
quarantamila residenti delle nostre Case del Moribondo che hanno affidato la
loro anima a Dio dopo aver compiuto un atto di perfetto amore nei confronti di
Lui, ponendosi totalmente nelle Sue mani. Tutti loro intercedono ora per noi e
per il nostro lavoro. Da qui derivano delle grazie nei confronti del nostro
apostolato”.
Arriva il 1977 e la lista dei riconoscimenti
internazionali di Madre Teresa continua a crescere. Questa volta è la
Facoltà di Teologia di Cambridge, in Inghilterra, a volerla insignire di
una nuova laurea honoris causa in teologia. La scelta, in un certo senso,
è rivoluzionaria. Per alcuni versi va controcorrente. C’è
persino qualcuno che, poco elegantemente, prima della cerimonia di consegna
della laurea, fa notare che in fondo la suora non ha prodotto nulla di
scientificamente valido in materia teologica ed accademica. Perché,
dunque, assegnare un titolo accademico così importante e specifico a una
religiosa che, pur con tutti i suoi meriti caritativi ed umanitari, non potrebbe
essere mai presa a modello come punto di riferimento didattico-culturale in
materia di teologia? L’appunto viene subito smontato -
inconsapevolmente - dalla diretta interessata quando al cospetto di
centinaia di invitati (docenti, ricercatori, studenti, uomini di cultura,
semplici curiosi, teologi) tiene una spontanea conferenza da far invidia al
più consumato studioso di teologia; come suo solito, con parole semplici
ed intense, Madre Teresa al momento di ricevere la laura ad honorem ringrazia
Dio parlando di amore e compassione, di sofferenze, privazioni, ingiustizie;
sostiene la necessità di farsi prossimo in qualsiasi momento, davanti a
qualsiasi persona, in ogni parte del mondo. Pronunzia parole forti ed
impegnative, Madre Teresa, parole che vanno diritte al cuore dei suoi
interlocutori, i quali al momento del conferimento della laurea si alzano tutti
in piedi e la sommergono di scroscianti applausi ai quali la suora risponde con
timidi cenni della testa e con le mani giunte con le quali arriva a sfiorare
leggermente la fronte, in perfetto stile indiano. In pochi minuti la religiosa
diventa un vero punto di riferimento teologico, vissuto non sulle fredde
cattedre universitarie, ma sul campo, accanto al prossimo e specialmente a
quello più sfortunato, per il quale Cristo si è immolato sulla
croce. Non vedere in una figura simile un costante insegnamento teologico
sarebbe da miopi. Come pure, non vedere in Madre Teresa la figura che è
riuscita ad incarnare in maniera totale gli insegnamenti del Vangelo, significa
non voler accettare la realtà. Va comunque detto che la prima persona che
non capisce il perché di quei premi e di quelle lauree è proprio
lei, Madre Teresa. È lei stessa che lo confessa pubblicamente alla fine
di ogni cerimonia, mentre ancora stringe tra le mani una pergamena sulla quale
è stampato il titolo accademico conseguito o ha appeso al collo una
medaglia ricevuta da qualche istituzione benefica.
“Ma perché mi premiano?”
“Chissà perché mi
premiano - è solita chiedersi quando le luci della ribalta di una
cerimonia o di una celebrazione svolta in suo onore sono ancora accese -
io sono solo una suora, un piccolo strumento nelle mani di Dio. Ma devo
doverosamente spiegare che io, in cuor mio, sento che questi riconoscimenti non
sono per me, ma per tutta la mia gente. Se non fosse così non li
accetterei mai. Io ancora non so perché le università, i collegi o
i governi mi conferiscono tutti questi titoli. Non so mai se faccio bene o male
ad accettare o no: per me non significano nulla. Ma mi danno
l’opportunità di parlare di Cristo a gente che altrimenti non
sentirebbe forse mai parlare di Lui. Mi danno, inoltre, la possibilità di
raggiungere persone che non avrebbero mai sentito parlare di emarginati, di
poveri, di bambini ammalati ed abbandonati”. Nei suoi interventi pubblici
- e quindi anche in occasione di conferimenti di lauree ad honorem o di
premi di alto prestigio - ama parlare della vita della congregazione,
additare ad esempio l’abnegazione delle sue consorelle o raccontare
piccoli aneddoti, storie di vita vissuta raccolte dalla viva voce dei loro tanti
assistiti. Lo fa perché è convinta che anche parlando della
quotidianità, dei piccoli e grandi impegni affrontati dalle sue
consorelle negli ospedali o nelle Case del Moribondo è possibile far
filtrare tra le maglie di un pubblico sempre più vasto il carisma della
sua congregazione, il vero volto delle Missionarie della Carità. Lo ha
fatto nel corso delle precedenti premiazioni in India o in America, in
Inghilterra o in Australia, e continuerà a farlo anche quando sarà
chiamata a ritirare premi di grandissimo prestigio come il Nobel per la pace nel
1979, ma anche nel corso di incontri più semplici come le conferenze nei
centri parrocchiali o negli ospedali. Per lei non fa differenza parlare ai
potenti della terra o ad anonimi interlocutori della strada, o ancora, nel corso
dei frequenti incontri, con consorelle, volontari e simpatizzanti. Ad esempio,
ricevendo il premio “Templeton Award”, al cospetto del duca di
Edimburgo, dedicherà il suo intervento ad un episodio capitatole nella
lontana Australia. “A Melbourne - racconta la suora - mi
accadde di far visita ad un vecchio della cui esistenza apparentemente nessuno
sapeva; vidi la stanza in cui viveva: era in uno stato veramente terribile;
volevo pulirgliela e lui continuava a ripetere: ‘Sto benissimo
così’. Ma io, dura, continuai ad insistere e lui alla fine, dopo
averlo quasi costretto con continue richieste, me lo permise. Mi misi subito al
lavoro. In quella stanza c’era - tra le altre cose - una bellissima
lampada, coperta dalla polvere di anni e anni che nessuno aveva mai tolto.
Allora gli chiesi: Perché non l’accende, questa bella lampada?
‘E per chi?, rispose lui, da me non viene mai nessuno. Non ne ho bisogno,
della lampada e di nient’altro. Io non ho bisogno di niente e di
nessuno’. Allora io gli dissi: l’accenderebbe se le sorelle
venissero a trovarla? Dopo un po’ di esitazione e di silenzio, rispose:
‘Sì, se fosse per sentire una voce umana,
l’accenderei’. Detto fatto: le mie consorelle andarono da lui e lui
fece come aveva promesso. E l’altro giorno mi ha mandato due righe:
‘Dite alla mia amica che la luce che ha acceso nella mia vita arde
ancora’. Queste sono le persone che dobbiamo conoscere. Questo è
Gesù ieri, oggi e domani, e voi ed io dobbiamo conoscere queste persone
per l’amore di Dio”.
Aneddoti e storie di vita che
rappresentano il nocciolo della esperienza missionaria di Madre Teresa e delle
sue consorelle. Vicende, piccole e grandi, autentiche lezioni di umanità
che la suora regala ai suoi interlocutori, come fa, ad esempio, al cospetto di
una figura nota in tutto il mondo come la principessa Diana quando nel 1989 le
conferirà il prestigioso premio “Donna dell’Anno” e che
da quella occasione diventerà una delle sue più affettuose e
sincere amiche. Anzi, l’amicizia che legherà, fino alla fine, Lady
D e Madre Teresa sarà addirittura proverbiale: le due donne, per uno
strano scherzo del destino, pur vivendo vite completamente diverse per impegni e
scelte personali, non mancheranno mai di cercarsi, di incontrarsi in India come
a New York, o in anonime Case di accoglienza dove la principessa - lontana
da occhi ed orecchie indiscreti - amava recarsi per stare qualche ora
accanto alla “sua” Madre Teresa.
Madre Teresa e Lady Diana davanti alla Casa delle Missionarie della Carità di New York
La prima volta di Lady D
Le due donne si capiscono al volo, anche con
i soli sguardi, non hanno bisogno di tante parole per manifestare la loro stima
reciproca. Anche se Lady D, fino alla sua tragica morte nell’agosto del
1997, continuerà ad essere - contro la sua stessa volontà
- una nobile star internazionale e la suora non cesserà mai di
essere il più alto punto di riferimento internazionale in materia di
carità umana e di riscatto degli ultimi. Due mondi, quindi,
apparentemente lontani e inconciliabili che, tuttavia, hanno in Madre Teresa e
nella principessa Diana un naturale e sincero punto di incontro. La suora non lo
ha mai detto pubblicamente, ma non è azzardato immaginare che durante i
loro tanti incontri la principessa Diana abbia trovato in lei anche un punto di
riferimento nei momenti di maggiore difficoltà personale a causa dei
problemi col marito, il principe Carlo d’Inghilterra. Ma questo è
uno dei pochi aspetti della vita di Madre Teresa che è rimasto sempre
gelosamente custodito nell’animo delle due dirette interessate, destinato
a rimanere tale anche dopo la loro scomparsa, che per entrambe, come un tragico
disegno del destino, avverrà alla fine dell’estate del
1997.
Va comunque ricordato che anche gli altri membri della famiglia reale
inglese hanno sempre avuto un debole per Madre Teresa. In particolare la regina
Elisabetta in persona - che nel Regno Unito è anche il capo della
Chiesa anglicana. Come segno tangibile della sua ammirazione, il 24 dicembre
1983 la regina decide di assegnare alla religiosa la più alta
onorificenza dell’Inghilterra, la medaglia dell’Ordine al Merito, un
prestigioso premio istituito nel lontano 1902. La cerimonia della consegna non
avverrà subito, ma solo dopo qualche mese a causa dei numerosi impegni
della suora. Dopo tanti rinvii, si decide di far incontrare le due donne -
la sovrana inglese e la fondatrice delle Missionarie della Carità -
in occasione della riunione dei rappresentanti dei paesi del Commonwealth del
1984, in India. La consegna della medaglia avviene nei giardini del palazzo del
Rashtrapati Bhavan, la residenza inglese in India. La cerimonia è
semplice e allo stesso tempo toccante, in linea con le altre precedenti
cerimonie che hanno avuto come massimo punto di riferimento la fondatrice delle
Missionarie della Carità.
Madre Teresa al momento di accettare
l’alto riconoscimento inglese dalle mani della regina Elisabetta, nel
ringraziare la sovrana spiega di aver accettato il premio a nome di tutti i suoi
poveri sparsi nel mondo. La regina dopo il di-scorso ufficiale si apparta con
lei col chiaro intento di conoscerla meglio e per esprimerle tutta la sua
ammirazione personale e quella della sua famiglia. In particolare, la regina
confessa alla suora che nella sua famiglia tutti la seguono con interesse, a
partire dal principe Carlo che negli anni precedenti ha anche visitato alcune
Case di accoglienza delle Missionarie della Carità. Madre Teresa ricorda,
a proposito dell’incontro col primogenito della regina Elisabetta, quando
il principe visitò il Nirmala Shishu Bhawan di Calcutta. Vi passò
un’intera giornata accanto alle suore e ai tanti ospiti della Casa. Il
principe quel giorno - ricorda Madre Teresa alla sovrana inglese -
“pregò a lungo con noi nella nostra cappella”. Un gesto di
grande valore ecumenico che la suora non manca occasione di ricordare, essendo i
reali inglesi - anche dal punto di vista istituzionale - di religione
anglicana. Ben presto anche in Lady D nasce un naturale feeling per Madre
Teresa, simile a quello provato dal principe Carlo. La coppia - prima
della separazione - tante volte visita i centri delle missionarie, sia in
India che altrove. Tra i tanti viaggi di Carlo e Diana sulle orme di Madre
Teresa, merita di essere ricordato quello del febbraio del 1992: i due principi
avrebbero voluto incontrarla in una missione indiana, ma non fu possibile
perché la suora fu costretta a fermarsi a Roma in seguito ad una serie di
improvvisi disturbi cardiaci accusati durante un viaggio in Messico. Lady D,
venuta a conoscenza dell’accaduto, si precipitò a Roma, nella Casa
di S. Gregorio al Celio, e trascorse diverse ore - al di fuori dei crismi
della ufficialità e dei protocolli - come una vecchia amica insieme
alla Madre e alle sue missionarie. Altri incontri simili tra le due donne si
terranno ancora negli anni successivi, anche quando la principessa non
sarà più accanto al principe Carlo, ulteriore prova della profonda
amicizia esistente tra loro. Va detto, però, che il primo membro della
famiglia reale inglese a incontrare Madre Teresa non è stato né
Carlo e né Lady D, ma il principe Filippo, marito della regina Elisabetta
e padre dello stesso Carlo. L’occasione fu la consegna alla suora del
premio Templeton per la “Promozione della Religione”, avvenuta il 25
aprile del 1973. Nel discorso ufficiale il principe Filippo elogia con forza
l’impegno umanitario della suora, la cui esistenza - asserisce il
consorte della regina - “è la prova concreta delle grandi
cose che l’uomo può fare quando è animato e spinto da una
fede veramente grande”. “Il suo operato, cara Madre, è degno
di ammirazione sotto ogni aspetto e il mondo moderno - ammette il principe
- ha un disperato bisogno di questo genere di bontà, di questa
compassione pratica”.
Va ricordato che il premio Templeton è
assegnato dai reali inglesi ogni anno a personalità che si distinguono
nella diffusione della conoscenza di Dio nell’umanità.
Nell’edizione del 1973 Madre Teresa prevale su circa duemila candidati: la
commissione esaminatrice, composta da 9 giudici, la sceglie
all’unanimità. Nella motivazione che accompagna
l’assegnazione del premio, è scritto che Madre Teresa è
stata, tra l’altro, “strumento della diffusione e
dell’approfondimento della conoscenza umana di Dio e del suo amore,
incentivando di conseguenza la qualità della vita che rispecchia il
divino”. Il principe Filippo, come abbiamo già visto nelle pagine
precedenti, avrà l’onore e il piacere di consegnare un altro
importante riconoscimento inglese a Madre Teresa, la laurea honoris causa in
Teologia conferitole dall’Università di Cambridge.
La regina
Elisabetta, il principe-consorte Filippo, il principe ereditario Carlo e sua
moglie Diana: tutta la famiglia reale inglese è affascinata dalla figura
di Madre Teresa.
Arriva il 1979 l’anno del Nobel
Con Lady D il fascino e l’ammirazione
si trasformano in amicizia sincera, che abbatte distanze, etichette protocollari
per diventare dialogo continuo, voglia di vedersi, parlarsi, scambiarsi consigli
e impressioni. Fino alla fine: fino al 1997, quando nel giro di pochi giorni il
mondo sarà privato della presenza di Diana e di Madre Teresa, la prima in
seguito ad un drammatico incidente automobilistico in una strada di Parigi, la
seconda, cinque giorni dopo, il 5 settembre 1997, dopo una lunga agonia
trascorsa lottando contro una malattia che la consumerà lentamente sotto
gli occhi - commossi e silenziosi - di tutto il mondo.
Ma prima
di arrivare a raccontare quella drammatica estate del ’97, resta da vedere
da vicino ancora una ventina d’anni di vita di Madre Teresa, anni di
intenso lavoro, di testimonianza, di lunghi viaggi e di grandi riconoscimenti
internazionali che culmineranno con il Premio Nobel per la pace, forse uno dei
momenti più significativi che contrassegnano l’avventura terrena
della piccola suora macedone-albanese e delle sue consorelle.
Parlare di
Nobel significa indicare il più alto riconoscimento riservato ad una
personalità distintasi nei vari campi della cultura, delle scienze e
delle attività umanitarie; quello per la pace è assegnato ogni
anno dall’Accademia delle Scienze della Norvegia, i cui giurati spesso e
volentieri scelgono autonomamente il vincitore sulla base di criteri politici,
umanitari, religiosi. Quasi sempre il vincitore è una personalità
benemerita che ha dedicato la sua vita alla promozione della pace anche
attraverso scelte rivoluzionarie, o attraverso difficili mediazioni, o, ancora,
testimoniando la carità, promuovendo l’aiuto per chi soffre,
difendendo i diritti dei deboli e degli oppressi.
Madre Teresa è
una di queste personalità. Nel 1979 è la prima personalità
cattolica, per di più donna, ad essere insignita col Nobel per gli alti
meriti conseguiti nella ostinata ricerca della pace attraverso le opere di
carità per i poveri di tutte le nazioni, di ogni colore politico, di
qualsiasi orientamento sociale e religioso. Un’autentica pietra miliare
nella storia della Chiesa di fine millennio, ma anche una personalità che
è riuscita a fare breccia nei cuori più disparati e lontani, negli
ambienti più difficili e, a volte, persino pericolosi. Il premio Nobel
del 1979 “certifica”, in un certo senso, il grande tributo della
comunità internazionale verso Madre Teresa, anche se lei - come ha
sempre fatto in occasione degli altri precedenti premi - tiene a
puntualizzare di accettarlo a nome dei suoi poveri e per la gloria di Cristo.
Come è suo costume il sì non lo pronuncia subito. La prima frase
che le scappa di bocca quando le comunicano, dall’Accademia di Norvegia,
di essere stata insignita del premio Nobel per la pace è un secco e
lapidario “non ne sono degna”. Istintivamente, vorrebbe dire di no.
“Non ne sono degna”, ripete ai suoi più stretti
collaboratori, la stessa frase detta negli anni precedenti quando il suo nome
era stato inserito nella stretta cerchia di personalità candidate -
su decisione degli accademici norvegesi - al Nobel. Il 1979 è, in
sostanza, la conclusione di un decennio di nomination alle quali la suora aveva
sempre guardato con distacco e sincera indifferenza. Non per snobismo o
perché in cuor suo abbia sottovalutato il prestigioso riconoscimento. Non
ci pensa - nemmeno quando le riferiscono di essere una potenziale
candidata al Nobel - per il semplice fatto che per sua consolidata
abitudine non è per niente interessata alle luci della ribalta e,
tantomeno, ai riconoscimenti. “Se in passato ho accettato qualche premio
- ricorda sempre ai suoi interlocutori - l’ho fatto solo a
nome dei poveri e nella speranza di poter diffondere ulteriormente la parola di
Dio nel mondo”.
All’inizio degli anni Settanta, la prima
nomination sulla spinta dell’enorme successo internazionale sorto intorno
ad una intervista rilasciata da Madre Teresa alla BBC, la prima concessa ad una
rete televisiva internazionale. Mai, negli anni precedenti, la suora si era
esposta così tanto con i mass media. Col giornalista inglese Malcolm
Muggeridge - inviato di punta della BBC - rompe idealmente un
silenzio pressoché totale, rispettato fin da quando incominciò a
guidare il piccolo gregge delle Missionarie della Carità, diventato via
via un vero e proprio esercito di pace dislocato nelle aree più a rischio
della terra. Grazie a quella intervista, Madre Teresa viene conosciuta nei
cinque continenti e, conseguentemente, nel 1972 un gruppo di personalità
la candida al Premio Nobel per la pace. Tra i suoi autorevoli sponsor spiccano i
nomi di Lester Pearson, Premio Nobel per la pace ed ex primo ministro canadese,
Lady Jackson, esponente della Pontificia commissione Giustizia e Pace, ed un
nutrito numero di membri della curia provinciale dell’Ordine degli
Ospedalieri di San Giovanni di Dio.
Come si sa, le prime nomination non
ebbero fortuna, anche se il nome della religiosa non passó mai del tutto
inosservato. A partire dal 1972 ad ogni edizione del Premio, il comitato
pro-Madre Teresa viene sollecitato dai membri dell’Accademia norvegese a
spiegare più dettagliatamente quali sono i meriti acquisiti nel campo
della pace dalla fondatrice della Missionarie della Carità: in concreto,
si chiedono i giurati del Nobel, questa religiosa cosa ha fatto? È stata
intermediaria tra due parti in conflitto? Ha lanciato appelli contro qualche
guerra? Ha preso parte a iniziative pacifiste? Le risposte a simili quesiti
ruotano quasi sempre intorno a questo concetto: “Madre Teresa -
spiegano agli accademici norvegesi membri del comitato promotore -
dedicando la sua vita totalmente a Cristo, vedendo in ogni anima sofferente il
suo Salvatore, e trattando quelle anime di conseguenza, costituendo, con le
Missionarie della Carità tutte, una sorta di cittadella dell’amore
nel mondo, Madre Teresa rappresentava un antidoto alla maniacale bramosia di
potere, alla cupidigia e all’egoismo dai quali la violenza, individuale e
collettiva, scaturisce in tutte le sue forme”. Gli sponsor, inoltre, fanno
sempre notare che Madre Teresa non si lascia mai sfuggire l’occasione
buona per parlare di pace e di fratellanza in convegni, durante la
partecipazione a simposi, o quando ha la possibilità di confrontarsi con
leader politici, rappresentanti delle istituzioni, monarchi, premier, esponenti
di altre religioni, senza mai guardare al colore politico dei suoi
interlocutori. Come, ad esempio, fa il 18 ottobre 1971, in Canada, a Toronto,
ospite in un convegno internazionale dove davanti a scienziati e a esponenti del
volontariato è chiamata a discutere sui temi legati
a
l’handicap.
Negli anni successivi il nome della suora compare
ancora nella lista dei candidati al Nobel per la pace sorretto da un comitato
promotore diventato nel frattempo ancora più numeroso ed autorevole: ai
precedenti sponsor, si aggiungono infatti nomi come Shirley Williams, segretario
di Stato britannico per la tutela dei consumatori, Maurice Strong, direttore
esecutivo del Programma per lo sviluppo dell’Onu, il senatore Robert
Kennedy - fratello di John Kennedy, il presidente assassinato a Dallas e a
sua volta vittima di un sicario durante la compagna presidenziale del 1968 -, il
direttore della World Bank, Robert Mc Namara. Niente da fare: malgrado intorno
al nome di Madre Teresa si fosse coagulato un comitato di sponsor così
importante, per far centrare alla fondatrice delle Missionarie della
Carità il traguardo del Nobel per la pace si dovrà attendere
ancora. La prima persona che non se ne preoccupa minimamente è proprio
lei, che getta acqua sul fuoco degli entusiasmi delusi con frasi del tipo :
“Accadrà soltanto quando il buon Gesù riterrà che sia
il momento: sarà Lui a deciderlo, non dobbiamo essere noi a preoccuparci
di queste cose: l’importante è servire sempre con amore fraterno i
poveri bisognosi, gli ammalati. Il resto conta poco, o non conta per niente. Il
resto lo decide Dio”.
Il 1979, l’anno buono: arriva il Nobel per la pace
Il 1979 invece è l’anno buono.
Anche se il comitato promotore, come al solito retto da Lady Jackson, non lo sa.
Come negli anni precedenti sul tavolo dei saggi dell’Accademia norvegese
viene depositata la petizione con la quale il nome di Madre Teresa ancora una
volta è inserito nella rosa degli aspiranti al Nobel per la pace. Dopo
qualche giorno di trepida attesa, quando tutti sono già pronti a sentire
il nome di qualche altro candidato, da Oslo un flash di agenzia annuncia al
mondo intero che il premio Nobel per la pace del 1979 è stato assegnato a
una suora minuscola, racchiusa in un sari bianco a strisce azzurre, Madre Teresa
di Calcutta, eletta a simbolo vivente per la carità agli ultimi tra gli
ultimi. Quel primo flash d’agenzia aggiunge, inoltre, che a quella piccola
suora, sarà assegnato un premio in danaro, 90.000 sterline: è un
dono che quell’anno viene dato alla donna dalle cui mani i più
sventurati di ogni angolo della terra hanno ricevuto aiuti fraterni, calore,
sorrisi sinceri, inviti alla speranza, un sereno accompagnamento verso la meta
finale per i più sfortunati.
La notizia fa ovviamente il giro del
mondo in pochi attimi, mentre la sede di Calcutta delle Missionarie della
Carità è letteralmente presa d’assalto da giornalisti,
fotoreporter e televisioni nella speranza di poter strappare dalla diretta
interessata le prime impressioni “a caldo”.
Ma l’esordio
della suora nelle vesti di Premio Nobel per la pace non è dei più
brillanti, specialmente agli occhi di chi vorrebbe raccogliere dichiarazioni
altisonanti, magari appelli alla pace e, magari, qualche velata frecciatina
polemica contro questo e quel signore della guerra. In fondo - ragionano
in molti - , come minimo un neo Premio Nobel per la pace non può non
pronunciare parole di condanna verso i conflitti armati o contro i potenti della
terra che non si battono adeguatamente per salvare le popolazioni afflitte da
fame e siccità. Da qui l’assalto alla Casa Madre delle Missionarie
della Carità a caccia della fondatrice. A tutti, Madre Teresa risponde
con un disarmante “non ne sono degna, perché proprio me? Ma
ringraziamo Dio per questo suo dono benedetto che va interamente destinato ai
poveri”.
Dopo le prime sintetiche dichiarazioni da vincitrice del
premio Nobel per la pace davanti ad una muraglia di giornalisti pronta a
registrare ogni sua piccolissima espressione, Madre Teresa mette fine agli
assalti alla Casa Madre annunciando di apprestarsi a fare quello che normalmente
ogni suora fa tutti i giorni, le orazioni quotidiane scandite dai ritmi del
convento. Senza dare il minimo ascolto a chi le chiede di restare ancora un
po’ per continuare a commentare la “fresca” vittoria del Nobel
per la pace, si ritira a pregare nella sua stanza, senza però
dimenticarsi di salutare tutti con un cordiale sorriso e un inchino con le mani
giunte, e dicendo: “Ed ora andrò a ritirarmi un po’ da
qualche parte. Scusatemi, vi ringrazio tutti per la vostra
comprensione”.
Madre Teresa racconta il Nobel
Prima di proseguire il racconto incentrato
sulle giornate norvegesi che faranno da sfondo alla cerimonia di consegna del
Premio Nobel, è doveroso fermarsi un attimo per ascoltare dalla voce
della diretta protagonista le sensazioni da lei provate al momento
all’arrivo della notizia da Oslo e come ancora Madre Teresa appunta nei
suoi diari i vari momenti della premiazione. “Una mattina - la suora
non lo specifica, ma evidentemente la mattina di cui parla è riferibile
a un giorno dell’autunno del 1979 - ricevemmo una telefonata dal
governo di Nuova Delhi con la quale ci dissero: ‘Congratulazioni! Le
è stato assegnato il Premio Nobel per la pace’. In un primo momento
restai senza parole, quasi interdetta. Dissi solo interiormente: ‘Che sia
per la gloria di Dio!’. Fu sorprendente: in pochi giorni ricevemmo una
montagna di telegrammi di capi di Stato, di primi ministri. Ne ricevemmo persino
da parte del presidente della Jugoslavia, Tito, e uno da parte del governo
comunista cinese. Voglio, comunque, che si sappia che io non merito premi,
né che vi ambisco personalmente. Tuttavia, attraverso di esso, il popolo
norvegese ha riconosciuto l’esistenza dei poveri. Il Nobel per la pace lo
accetto a nome loro”.
“Dando a me questo premio -
continua Madre Teresa - lo si è dato a tutti coloro che, in ogni
parte del mondo, condividono il compito di servire i poveri più poveri,
diffondendo tra gli uomini l’amore di Dio. Mi trovavo a Kakighat, nella
Casa del Moribondo, il giorno in cui giunse la notizia del Premio Nobel per la
pace. Tornando alla Casa, trovai l’uscio gremito di fotografi e di
giornalisti televisivi. Domandai loro cosa facessero. Mi dissero che erano
accorsi sull’eco della notizia giunta dalla Norvegia che mi era stato
assegnato il Premio Nobel per la pace. E si misero a farmi fotografie. Poi
incominciò ad arrivare gente. Persone di ogni genere, poveri e ricchi. E
telegrammi. E lettere. Ogni giorno di più. Una volta ottanta tutte
insieme. Altre volte, ancora di più...”.
Passata la prima
ondata di emozione e di assalti giornalistici, la suora, aiutata da altre due
consorelle, si prepara per recarsi ad Oslo, in Norvegia, dove il 10 dicembre
1979 si svolgerà la solenne cerimonia di consegna dei Nobel. Le stesse
consorelle, le sue prime due postulanti, suor Agnes e suor Gertrude,
l’accompagnano nella trasferta norvegese, ospiti anch’esse della
manifestazione. È la stessa Madre Teresa che le sceglie “come segno
di amore e di gratitudine - spiegherà al momento della partenza da
Calcutta - verso tutte le nostre sorelle del primo gruppo, per aver avuto
il coraggio di unirsi a noi quando ancora non c’era nulla e nessuno
avrebbe potuto immaginare quanta strada avremmo fatto in seguito con
l’aiuto di Dio accanto ai poveri, ai bisognosi di qualsiasi paese, agli
ammalati”.
Tre missionarie in Norvegia
Il piccolo gruppo arriva ad Oslo il 9
dicembre: è un giorno freddo, la temperatura è di dieci gradi
sotto zero. Su suggerimento degli organizzatori, le tre suore vengono
sollecitate ad indossare abiti più pesanti sul leggero sari con cui sono
arrivate dall’India. La risposta è - manco a dirlo - un
deciso anche se cortese no: “A che servono altri indumenti? Noi stiamo
bene così”, replicano con fermezza le religiose ai saggi consigli
dei loro ospiti. Solo dopo forti insistenze, accettano di indossare calze di
lana in modo da evitare di calzare i sandali con i piedi nudi come sono solite
fare in tutte le altre parti del mondo.
L’arrivo in Norvegia delle
tre suore è contrassegnato da una ventata di curiosità senza
precedenti, mista a manifestazioni di entusiasmo e apprezzamento. In attesa
della cerimonia ufficiale della consegna dei Nobel - programmata per il 10
dicembre 1979 - Madre Teresa e le sue consorelle vengono praticamente
contese da autorità locali e nazionali, stampa internazionale,
comunità ed esponenti di tutte le religioni presenti ad Oslo, a partire
da quella protestante che organizza persino un incontro ufficiale con la ormai
prossima neo Premio Nobel per la pace. I cattolici norvegesi celebrano invece
messe di ringraziamento alla presenza delle tre suore, che in verità
fanno tutto il possibile per essere presenti ai tanti inviti. Su un punto,
però, Madre Teresa è irremovibile: non vuole assolutamente che si
organizzino per lei banchetti e incontri conviviali. “Sarebbe uno spreco
inutile”, spiega la suora a chi le prospetta la possibilità di un
incontro ufficiale che potrebbe culminare con invitati seduti a tavola a gustare
menù particolari realizzati per l’occasione in onore della
festeggiata. “Se proprio volete spendere del denaro - avverte Madre
Teresa - fatelo per i miei poveri, non per un banchetto destinato a
invitati che in genere non hanno problemi di fame e di
sopravvivenza”.
Detto, fatto: i suoi ospiti alla fine della
permanenza in Norvegia, le consegnano una somma di circa 3.000 sterline
“risparmiate” grazie ai mancati pranzi ufficiali, che la suora
accetterà solo per destinarli ai poveri dei suoi centri di
accoglienza.
Una delle più frequenti domande che viene posta a Madre
Teresa riguarda il “vero” motivo della sua presenza a Oslo:
“Perché, Madre, ha deciso di accettare il Premio Nobel per la pace?
Lei, così schiva e così semplice, come mai ha accettato di salire
alla ribalta internazionale per ricevere un premio così ambito?”.
La risposta della suora è sempre cortese e puntuale e non si scosta mai
da quanto ha già detto al momento dell’arrivo a Calcutta della
notizia che le era stato assegnato l’alto riconoscimento: “Sono
grata del dono che mi è stato assegnato dagli accademici norvegesi, dono
che mi permetterà di costruire nuove Case per i senzatetto e per le
famiglie dei lebbrosi. Ma vi sono grata, in particolare modo - precisa la
suora - per il fatto che assegnandomi questo premio viene in un certo
senso riconosciuta l’esistenza dei più poveri tra i poveri del
mondo. Questo premio va a loro, non a me. Io personalmente non sono degna di
tanto onore, per questo non intendo riceverlo come se fosse rivolto a me in
particolare. Ma con questo premio la gente di Norvegia, gli accademici di questo
paese e, insieme a loro, tutti quelli che nel mondo seguono il Nobel, hanno
riconosciuto l’esistenza dei poveri e che in tante parti del mondo ci sono
migliaia e migliaia di persone che non hanno niente, che sono abbandonate,
umiliate, prive di qualsiasi forma di sostentamento: è a nome di questi
fratelli più sfortunati che ho accettato di ritirare un premio
così importante e significativo come il Premio Nobel per la
pace”.
Il giorno precedente la cerimonia della consegna del Nobel, ad
Oslo nella cattedrale cattolica di S. Olaf viene celebrata una Messa solenne
alla presenza di Madre Teresa; analoga funzione di ringraziamento al Signore si
svolge nella cappella dell’Istituto di S. Giuseppe. A conclusione della
giornata d’attesa, tutti i rappresentanti delle locali confessioni
religiose presenziano ad una funzione ecumenica nel duomo luterano di Oslo. Alla
fine delle preghiere, tutti i partecipanti danno vita ad una suggestiva
processione di ringraziamento lungo le strade del centro storico di Oslo con
fiaccole accese, canti e inni di giubilo in lode del Signore e in onore di Madre
Teresa: è un momento di altissimo significato unitario tra le componenti
cristiane norvegesi, forse la più grande manifestazione ecumenica
dall’avvio delle storiche ferite che nei secoli passati hanno
contrassegnato le divisioni all’interno del popolo cristiano. Ben presto
le processioni si moltiplicano per dar vita a lunghe teorie di luci che nel
cuore della notte vanno a confluire in un punto di raccolta prestabilito, la
sede della Società norvegese delle Missioni dove le donne luterane
organizzano un ultimo incontro in onore di Madre Teresa: è un momento di
grande festa cristiana, autenticamente unitaria, un momento salutato dai
più come il grande miracolo compiuto da quanti - cattolici,
luterani, anglicani - vivono l’amore in Cristo attraverso
l’aiuto ai poveri e la scelta preferenziale per gli ultimi. È forse
il momento più bello di tutta la trasferta norvegese di Madre Teresa, la
quale sempre accompagnata dalle sue due consorelle partecipa a tutti gli
incontri con entusiasmo e riconoscenza. Per la fondatrice delle Missionarie
della Carità vedere tanta unione e spontanea emozione sorta in tutte le
componenti cristiane - e quindi non solo tra i cattolici - intorno
alla sua premiazione equivale ad un vero e proprio miracolo divino per il quale
non smetterà mai di ringraziare il Signore: in sostanza, ogni singola
confessione cristiana, ogni componente ecumenica si sente misteriosamente
gratificata in prima persona nel vedere Madre Teresa insignita dal Nobel per la
pace ’79. È un po’ tutto l’universo cristiano che gode
nel vedere la piccola suora albanese sotto i riflettori del mondo onorata dai
potenti della terra per le sue opere di carità. Miracoli simili in
precedenza non si erano mai visti, a nessun livello.
Madre Teresa in attesa di ricevere il Premio Nobel per la pace all'Università di Oslo, in Norvegia
Il grande giorno del Nobel per la pace
Dopo i festeggiamenti della vigilia, arriva
il grande giorno del Nobel per la pace, il 10 dicembre 1979, una data storica
sotto tanti punti di vista: per Madre Teresa, per le sue consorelle e per tutte
le componenti missionarie (laiche, religiose, uomini di buona volontà)
per i volontari, per il personale medico, paramedico, gli inservienti, per tutti
quelli che cooperano nell’ambito della congregazione delle Missionarie
della Carità. Ma anche per la Chiesa, per i grandi della terra, i potenti
o il semplice uomo della strada, e principalmente per i poveri tra i più
poveri di ogni paese. La cerimonia si svolge nell’aula magna
dell’Università di Oslo alla presenza del re della Norvegia, Olaf
V, dell’erede al trono, il principe Harald, della principessa Sonja e
della casa reale al gran completo; partecipano, inoltre, i membri
dell’Accademia delle Scienze, diplomatici, esponenti del mondo della
cultura, dell’arte, delle scienze e delle istituzioni. E naturalmente
tanta, tanta stampa, giornalisti della carta stampata, fotoreporter, radio e
televisioni da tutto il mondo che, senza lasciarsi scappare un solo attimo della
cerimonia, registrano il più piccolo movimento, ogni minima espressione
della premiata, che si presenta in aula vestita con il suo tradizionale sari
bianco a strisce blu, con i soliti sandali ai piedi, con il solito rosario
avvolto nelle mani e, naturalmente, con quel sorriso così semplice,
vivace, spontaneo e disarmante, familiare ormai in ogni angolo della terra. Tra
gli invitati di riguardo trovano posto anche volti anonimi al grande pubblico,
ma familiarissimi alla diretta interessata e alle sue più strette
collaboratrici, il fratello Lazar e sua figlia Aggi, arrivati dalla Sicilia, il
vescovo Nicola Prela, vicario generale di Skopje in rappresentanza della terra
d’origine di Madre Teresa, e una nutrita rappresentanza di collaboratori
della suora, guidati dalle fide suor Ann Blaikie e Jacqueline de Decker,
arrivata dal Belgio. Prima dell’assegnazione del premio Nobel -
consistente in una pergamena, in una medaglia e in un assegno di 90.000 dollari
che Madre Teresa anche nel momento dell’accettazione specificherà
che saranno subito destinati ai suoi poveri - il cerimoniale ufficiale
prevede i discorsi del presidente del Comitato del Nobel, il professor John
Sannes, al quale spetta anche il compito di leggere le motivazioni che stanno
alla base del riconoscimento. Anche se il professor Sannes non è la prima
volta che presiede la cerimonia di consegna dei Nobel, quando invita al tavolo
della presidenza Madre Teresa la sua voce si incrina leggermente, non riesce a
trattenere la commozione, gli occhi gli si illuminano e un’onda di
emozione investe tutta l’aula magna fin a coinvolgere anche i membri della
famiglia reale.
Lacrime ed emozione per la suora del Nobel
Anche la lettura della motivazione tradisce
momenti di commozione, specialmente nelle parti in cui gli accademici norvegesi
sottolineano il grande valore umano, civile, sociale e religioso che da sempre
contraddistingue l’opera della fondatrice delle Missionarie della
Carità tra i più poveri della terra. “Il segno distintivo
della sua opera - spiega il professor Sannes - è stato il
rispetto per l’individuo, per il suo valore e la sua dignità. I
più soli e i più derelitti, i morenti, i lebbrosi abbandonati,
sono stati ricevuti da lei e dalle sue sorelle con una pietà scevra da
ogni condiscendenza, e fondata sulla venerazione per Cristo in ogni uomo... ai
suoi occhi, cara Madre, la persona che è, nell’accezione
comunemente accettata, il recipiente, è anche colui che dona di
più. Donare, donare qualche cosa di sé, ecco la vera gioia, e la
persona cui è consentito dare è quella che riceve il dono
più prezioso. Dove altri vedono fornitori, lei vede compagni di lavoro, a
cui la lega un rapporto basato non su un’unilaterale aspettativa di
gratitudine, bensì sulla comprensione e il rispetto reciproci, un
contatto umano arricchente e proficuo...questa è la vita di Madre Teresa
e delle sue sorelle, una vita di rigorosa povertà e di lunghi giorni e
lunghe notti di fatica, una vita che lascia ben poco spazio a gioie che non
siano le più alte...”.
Altrettanto sentita e toccante la
parte finale della motivazione del premio Nobel assegnato a Madre Teresa.
“Non ci sono modi migliori - è sempre il presidente del
comitato del Nobel, Sannes, che parla - per illustrare le intenzioni che
hanno motivato il comitato norvegese a conferirle il premio Nobel per la pace
delle parole del presidente della World Bank, Robert McNamara, che così
ha dichiarato: ‘Madre Teresa merita il Nobel per la pace perché
promuove la pace nel modo più fondamentale, non stancandosi mai di
ribadire l’inviolabilità della dignità umana’. Ecco,
Madre, perché noi oggi la premiamo. Grazie per tutto quello che ha fatto
e che continuerà a fare”.
Oslo, 10 dicembre 1979: Madre Teresa durante la cerimonia di consegna del Premio NobelIl
successivo discorso di accettazione del premio Nobel per la pace pronunziato a
braccio da Madre Teresa segnerà uno dei più alti momenti
celebrativi dell’intera cerimonia. L’aula magna
dell’università di Oslo, gremita di personalità, di
regnanti, scienziati, letterati e governanti, si chiude in un trepidante
silenzio quando lei si avvicina al tavolo della presidenza per parlare: mai
prima d’ora una suora aveva avuto l’opportunità di
intervenire a un consesso internazionale di tale levatura e Madre Teresa non si
lascia sfuggire l’occasione di ricordare a tutti che lei, prima di ogni
cosa, è sempre una suora. E infatti come primo atto di accettazione si fa
il segno della croce, china il capo in segno di deferente saluto alle
autorità, e poi invita tutti i presenti ad alzarsi per recitare una
preghiera. Consapevole che ad ascoltarla, oltre ai pochi cattolici presenti, ci
sono in gran parte luterani, anglicani, battisti, metodisti, ortodossi, sceglie
un brano accettato da tutte le componenti religiose, la preghiera della pace
composta da San Francesco d’Assisi. E così, grazie a Madre Teresa,
sulla spinta del premio Nobel per la pace nel giro di poche ore in Norvegia si
ritrovano a pregare tutte insieme le principali componenti cristiane nel nome
del Poverello di Assisi e come segno di unanime ringraziamento al Signore per il
Premio Nobel assegnato alla fondatrice delle Missionarie della Carità:
è un autentico miracolo ecumenico assolutamente impensabile senza il
“concorso” della piccola grande suora dei poveri.
La preghiera di San Francesco alla cerimonia del Nobel
Per la prima volta nell’austera aula
magna dell’Università norvegese si sente un improvvisato coro di
voci pronunciare con le mani giunte le famose frasi composte circa otto secoli
prima da un altro gigante della Chiesa, San Francesco, il santo a cui Madre
Teresa ha sempre guardato nel corso della sua vita di missionaria e di donna, il
Poverello per antonomasia: “Signore, fa’ di me uno strumento della
tua pace - si trovano quasi per incanto a pregare ad alta voce regnanti,
scienziati e missionarie presenti alla cerimonia - Signore, fa’ che
dove vi è odio io possa portare l’amore...”. E via, via tutti
gli altri versetti dell’orazione francescana scanditi dalla ferma voce di
Madre Teresa, seguita , come in un solo coro, da tutti gli altri presenti in
sala.
“Essendoci tutti riuniti per ringraziare Iddio del Premio
Nobel per la pace - ricorderà in seguito Madre Teresa -
pensai che sarebbe stato molto bello che tutti insieme invocassimo la pace. E
infatti andò proprio così: fu qualcosa di meraviglioso, pregavano
tutti, malgrado il fatto che, come tutti sanno, il numero dei cattolici in
Norvegia sia molto ridotto”. Finita la preghiera introduttiva, la suora
inizia a pronunziare il discorso di accettazione del Premio Nobel. Il tono di
voce è, come è suo solito, dimesso, affabile ma deciso. Precisa
subito che non è lei la vera destinataria di tanto onore, ma tutti i suoi
poveri, i bisognosi, i moribondi, gli ultimi, gli abbandonati raccolti lungo le
strade dei sobborghi delle grandi e piccole città. Parla degli ultimi tra
gli ultimi, ricorda che “tutti noi siamo figli di Dio, anche i poveri,
quelli che soffrono per malattia, per fame, per le guerre”. Ricorda ancora
che ogni creatura, “anche quella che apparentemente può sembrare
insignificante, inutile o inservibile, è parte del progetto divino e per
questo deve essere aiutata a rialzarsi e a camminare”. Per questo,
aggiunge con un tono di voce leggermente più forte, “a nessuno
è lecito girarsi dall’altra parte quando per strada incontra un
povero abbandonato, a nessuno è lecito sopprimere la vita di un altro,
per nessun motivo e in nessuna circostanza”. Altrettanto severa la
condanna dell’aborto, definito dalla suora uno dei più efferati
crimini dell’umanità: “A mio parere, il più grande
elemento di distruzione della pace oggi è l’aborto, perché
è una guerra diretta, un diretto assassinio, da parte della madre
stessa”. Nel dire queste cose, specialmente quando fa riferimento alla
piaga dei bambini soppressi nel ventre materno, la suora dimostra ancora una
volta di essere coerente fino in fondo, e che non si lascia condizionare da
nessuno, nemmeno dalla gentilezza degli ospiti o dagli usi ed i costumi degli
altri paesi. In Norvegia proprio nei giorni precedenti la cerimonia dei Premi
Nobel, il governo ha varato un ordinamento legislativo con cui introduce
l’aborto: ma non per questo Madre Teresa esita a far capire come la pensa
al cospetto di quegli stessi governanti norvegesi quando spezza una disperata
lancia a favore dei bimbi non nati. “Siamo nell’Anno Internazionale
del Fanciullo - ricorda ancora la suora - e io oggi vi parlo a nome
del fanciullo non nato. Abortire significa dare morte a un bambino, a un essere
umano: significa non volere che il bambino viva e per questo si decide di
ucciderlo. Oggigiorno, il mezzo più distruttivo che esiste contro la pace
è l’aborto. Molte persone sembrano interessarsi dei bambini
dell’India e dell’Africa, dove molti muoiono per denutrizione. Ma in
altri paesi, sono milioni i bambini che muoiono per espressa volontà dei
loro genitori. Se una madre può uccidere il proprio figlio, che
differenza c’è nel fatto che ci ammazziamo gli uni con gli
altri?”.
La sala dei Premi Nobel fa appena in tempo a tirare il
fiato davanti a un interrogativo così inquietante, che Madre Teresa tocca
un altro tema scomodo, i moribondi, i bambini che muoiono per malnutrizione, gli
affamati: autentiche spine nel fianco dei paesi ricchi, che spesso su queste
tematiche si mostrano disattenti, tentando di ovviare il problema girando la
testa altrove o facendo finta di nulla. Ma non la scomoda Madre Teresa di
Calcutta che, nella solennità del Nobel, pensa a loro, ai moribondi, e
ricorda ai potenti della terra la necessità di trattarli come persone
vive fino alla fine, persone alle quali bisogna avvicinarsi sempre con un
sorriso, anche in punto di morte.
Nella sala dell’Accademia
norvegese la suora racconta, come se fossero delle parabole evangeliche, alcuni
tra i più significativi aneddoti vissuti accanto ai poveri di Calcutta:
sono persone - sottolinea con forza - “degne e meravigliose,
che non hanno bisogno di pietà, ma di un amore pieno di
comprensione”. Per far capire meglio all’autorevole uditorio le
ragioni della sua svolta missionaria - vale a dire l’uscita dalla
congregazione delle suore di Nostra Signora di Loreto e la fondazione delle
Missionarie della Carità - racconta di quando, una trentina
d’anni prima, aveva raccolto in una strada di Calcutta una donna morente.
“Quella donna - sono le sue parole che l’aula del Premio Nobel
ascolta in religioso silenzio - la portai a Kalighat e chiesi alle mie
consorelle di volerla assistere personalmente. Feci tutto quello che il mio
amore poteva fare. La misi a letto, e sul suo viso come d’incanto apparve
un sorriso bellissimo. Mi prese la mano e pronunziò una sola parola,
‘Grazie’. Dopodiché, morì in pace”.
“Davanti a quella donna - confessa Madre Teresa - non
potei fare a meno di esaminare la mia coscienza e di chiedermi che cosa avrei
detto al suo posto. E la risposta era molto semplice. Avrei cercato di catturare
un po’ di attenzione; avrei detto: ‘Ho fame, sto morendo, ho freddo,
soffro’, o qualche cosa di simile, ma lei mi donò molto di
più. Mi donò il suo amore riconoscente, come in genere fanno
sempre i poveri ogni volta che c’è qualcuno che li avvicina e si
prende cura di loro. Loro, i poveri, alla fine danno tanto e noi ci rendiamo
sempre conto che la ricchezza che si può cogliere in un loro sorriso o in
una loro espressione di gratitudine è veramente
immensa”.
La mappa internazionale della povertà e della miseria
Oltre agli aneddoti, la religiosa traccia
anche una sorta di mappa internazionale della povertà, avvertendo che non
si muore di fame solo in India, in Africa o in qualche paese dell’America
Latina, ma anche in tanta parte del ricco Occidente. “Nel mondo, e non
solo nei Paesi poveri - spiega la religiosa agli accademici norvegesi
- ho trovato che la povertà dell’Occidente è la
più difficile da eliminare. Quando raccolgo per strada una persona
affamata e le do un piatto di riso o un pezzo di pane, ho soddisfatto i suoi
bisogni, ho eliminato la sua fame. Ma quando siamo al cospetto di chi si
è chiuso al mondo di chi non si sente amato, di chi ha paura ed è
stato allontanato dalla società...allora sì che siamo davanti alla
vera miseria. È questa la miseria che fa più male e che io trovo
tanto ardua da vincere. Anche tra queste persone operano le nostre sorelle in
Occidente”.
Insiste molto, Madre Teresa, sul problema della
povertà occidentale. E anche per questo aspetto ha in serbo i suoi
significativi aneddoti che - nella solennità della cerimonia di
assegnazione dei premi Nobel - non mancano di captare ancora di più
l’attenzione dei presenti. Racconta, ad esempio, cosa provò il
giorno in cui fu accompagnata a far visita ad una coppia di anziani in una
città europea. “Vidi che in quella casa - premette Madre
Teresa - quei due anziani avevano tutto, avevano cose di grande valore, ma
guardavano sempre in direzione della porta. Vidi, però, che nemmeno uno
in quella casa sorrideva. Allora mi volsi alla mia consorella che mi
accompagnava e le chiesi: ‘Com’è questa storia? Come mai
questa gente qui, a cui non manca nulla, non sorride mai? Com’è che
stanno sempre a guardare in direzione della porta?’. E la consorella mi
spiegò: ‘Fanno così praticamente tutti i giorni. Aspettano,
sperano che uno dei figli venga a trovarli. Sono tristi perché sono
dimenticati da tutti”. “Ecco i mali che gravano sui paesi
benestanti- insiste la suora-: la solitudine, l’abbandono,
l’indifferenza, la tristezza, malgrado il benessere generale, sono queste
le spine con le quali giorno dopo giorno siamo chiamati a misurarci e al
cospetto delle quali non c’è ricchezza che
tenga”.
“Gesù è con noi, lui ci ama sempre”
La parte finale del discorso di accettazione
del Premio Nobel è un appello ai norvegesi - e conseguentemente
anche a tutto il ricco Occidente - alla gioia, all’amore, alla
condivisione dei problemi degli ultimi, al sorriso. “Io penso -
conclude Madre Teresa - che il valore principale a cui dobbiamo guardare
è vivere meravigliosamente: abbiamo Gesù con noi e sappiamo che
Lui ci ama. Se solo riusciamo a ricordare che Dio ci ama, e che abbiamo
l’opportunità di amare gli altri come Lui ama noi, non in grandi
cose, ma in piccole cose con grande amore, la Norvegia potrà divenire un
nido d’amore. Grazie per questo premio Nobel per la pace, grazie a nome
dei poveri di tutto il mondo”.
Uno scrosciante applauso del numeroso
pubblico in sala accompagna le ultime parole della suora. Lei china il capo,
ringrazia commossa, ha gli occhi lucidi, per alcuni lunghi, interminabili tratti
non sa cosa fare, mentre tutta la sala si abbandona ad un irrefrenabile boato di
gioia in suo onore. Al momento della premiazione tutti si alzano in piedi e la
piccola missionaria sembra quasi soccombere davanti a tanta solennità,
benché mista ad affetto e riconoscenza. Per tutta la durata della
cerimonia è lei il personaggio-simbolo del Nobel edizione ‘79:
tutti la cercano, tutti l’avvicinano, le stringono la mano, le fanno i
complimenti. E lei, a sua volta, è sempre disponibile con tutti, risponde
con dolcezza, ricambia i saluti, stringe tante mani di persone note e meno note
con le sue piccole mani rugose, rilascia interviste a giornali e tv. I
responsabili della serata conclusiva del Premio, su sua richiesta, non
organizzano il tradizionale banchetto finale per devolvere l’equivalente
economico in opere di carità a favore dei poveri ospiti nei centri di
accoglienza delle Missionarie della Carità: è un gesto che la
suora apprezza moltissimo. Il giorno dopo, l’11 dicembre 1979, la stampa
del mondo intero è tutta per lei: le prime pagine dei giornali, i
reportage televisivi, i radiogiornali raccontano del nuovo Premio Nobel per la
pace assegnato per la prima volta ad una suora cattolica, Madre Teresa di
Calcutta, un’albanese nativa della Macedonia, ma da oltre una trentina
d’anni cittadina dell’India. E come tale, la seconda
personalità indiana ad essere stata insignita del Premio Nobel: prima di
lei l’ambito riconoscimento fu assegnato a Rabindranath Tagore, Premio
Nobel per la letteratura nella lontana edizione del 1913.
Citare tutti i
mass media che parlano del nuovo Premio Nobel per la pace sarebbe quasi
impossibile: basti solo ricordare che da parte di tutti i commentatori il
giudizio sulla scelta operata dall’Accademia norvegese è altamente
positivo. Ed anche questo sa di miracoloso: nelle edizioni precedenti la
designazione di altre personalità al Premio Nobel per la pace era stata
accolta anche con critiche, specialmente quando il nominativo premiato -
un esempio tra i tanti, il vescovo anglicano Desmond Tutu, leader antiapartheid
sudafricano - non era ben visto da determinate parti politiche. Per Madre
Teresa non succede nulla di simile. Nessuno avanza riserve sulla sua
designazione, nessun politico o leader religioso non cattolico ha da ridire
sulla sua storica vittoria. Al contrario, la suora viene presentata da tutti i
giornali e anche attraverso i commenti di editorialisti e intellettuali come
l’autentica paladina della pace del mondo moderno al di là delle
differenze sociali, religiose e umane. Tra i tanti giornali che, il giorno dopo
la cerimonia di Oslo, parlano della fondatrice delle Missionarie della
Carità, vale la pena citare l’editoriale del quotidiano norvegese
“Aftenposten”, di Oslo: “Che bello - si legge nella
prima pagina del foglio norvegese - vedere la stampa di tutto il mondo
incantata una volta tanto da una vera stella, una stella che brilla di una luce
vera, una ‘star’ senza parrucca, senza il viso coperto di cerone,
senza occhi bistrati, senza ciglia finte, senza visone e senza diamanti, senza
pose teatrali e senza arie da primadonna. Il suo unico pensiero è usare
il Premio Nobel nel modo migliore per i più poveri dei poveri nel
mondo”.
L’entusiasmo della Santa Sede
Non meno entusiastico il commento del
quotidiano della Santa Sede, L’Osservatore Romano, che nel dare la notizia
scrive che il Premio Nobel per la pace è stato assegnato (a Madre Teresa
di Calcutta) “per onorare la sua lunga e faticosa opera in favore dei
diseredati...”. Il commento, affidato alla penna del teologo ufficiale
dell’Osservatore, padre Gino Concetti, inizia con un ricordo sui
precedenti riconoscimenti assegnati alla suora prima del Nobel e con una
constatazione. “L’assegnazione di uno dei più prestigiosi, se
non il più prestigioso premio per la pace a Madre Teresa è stata
salutata - nota padre Concetti - da universale consenso. Neppure una
voce contraria o reticente. In realtà Madre Teresa di Calcutta si era
già imposta all’attenzione dei Governi, degli uomini di cultura,
dei responsabili delle organizzazioni assistenziali sin dai primi anni della sua
attività. Nel 1972 - ricorda il quotidiano pontificio - ebbe
il premio della Fondazione Kennedy e il Premio Giovanni XXIII. Più
recentemente, per l’esattezza nel 1978, il Premio Balzan che le fu
assegnato a Roma nel marzo scorso a Roma nella sede dell’Accademia dei
Lincei dal presidente della Repubblica Sandro Pertini”. Il giornale
vaticano accenna anche ad una possibile lettura sulle motivazioni che - al
di là dei già consistenti aspetti umanitari - stanno alla
base della scelta operata dagli accademici norvegesi: “Il premio Nobel per
la pace conferito ad una suora - è l’analisi
dell’Osservatore Romano - potrebbe non essere in armonia con la
tradizione politica. Ma non è così. Anche una suora - e che
suora Madre Teresa! - può essere artefice della pace. Come bene,
infatti, la pace non è solo opera dei politici, dei responsabili di
Governo. È di tutti, anche dei più umili e impotenti
finanziariamente e politicamente. La pace è un bene cui ha diritto tutta
l’umanità. È un bene totale, quasi assoluto... la pace che
Madre Teresa ha costruito è la pace del Vangelo, la pace di Cristo,
quella, per intenderci, che è prioritariamente dono dello Spirito, dono
di Dio a tutti coloro che non rifiutano il suo amore. Madre Teresa ha costruito
questa pace ai margini del vivere civile, nei ghetti della miseria e della
riprovazione. L’ha costruita con lo spirito del Vangelo, donandosi e
amando nel silenzio e senza nulla chiedere. L’ha costruita recuperando
alla dignità di persone migliaia di esseri umani ridotti a
‘spezzoni’, a ‘rifiuti’. Testimoni oculari sono rimasti
sorpresi e conquistati dal suo apostolato di amore e di oblazione. La sua opera
ha la benedizione di Dio.... La figura di Madre Teresa - continua il
giornale vaticano - è certamente emblematica. Tuttavia non è
né scissa dalla Chiesa né dalle istituzioni religiose fiorite
nella Chiesa in ogni epoca, sotto l’impulso dello Spirito Santo, per
iniziativa di tanti santi o persone di Dio... la sua operosità è
una testimonianza di come la Chiesa sia ancora oggi capace di generare apostoli.
Nel riconoscimento a Madre Teresa c’è l’esaltazione degli
istituti religiosi che si dedicano con ardore e passione evangelica alla
promozione umana e cristiana...nell’apostolato di Madre Teresa -
conclude l’Osservatore - c’è infine l’impegno per
la vita. Non si ha vera pace, lo ha ribadito con forza di recente Giovanni Paolo
II, là dove si vìola un solo diritto umano. Quello della vita
è un diritto primordiale su cui si confrontano gli uomini e le
civiltà. Le posizioni di Madre Teresa contro l’aborto sono
ratificate dal suo atteggiamento eroico, quasi epico. Dimenticare questo aspetto
significa togliere alla personalità e all’opera di Madre Teresa uno
dei connotati fondamentali. Nel significato del premio Nobel per la pace, anche
se non specificato, è incluso questo aspetto. La pace, infatti, ha inizio
proprio dal rispetto della persona umana e, in primo luogo, dal rispetto del
diritto alla vita”.
È nata una nuova stella, la star dei poveri
Anche sugli altri giornali si leggono
giudizi e commenti più o meno simili, specialmente sul piano della
promozione umana e dell’opera caritativa di Madre Teresa e delle sue
consorelle accanto agli ultimi: grazie al Nobel per la pace, secondo i mass
media internazionali il mondo ha scoperto una nuova stella, la
“star” dei poveri amata indistintamente da tutti, a partire dal suo
paese adottivo, l’India, che al suo rientro organizza in suo onore tributi
e festeggiamenti degni di un capo di Stato. E forse per non apparire meno
riconoscente dei norvegesi, nel febbraio del 1980, appena tre mesi dopo la
cerimonia di consegna del Nobel per la pace, il governo indiano premia
solennemente Madre Teresa nel bastione dello storico Forte Rosso di Delhi. Prima
di lei, un onore analogo era stato riservato solo a due altre grandi
personalità dell’India, il premier Nehru e Indira Gandhi.
Per
Madre Teresa, la cerimonia viene organizzata, significativamente, da una
istituzione indù alla presenza delle più alte autorità
dello Stato, del primo ministro, di esponenti del governo, rappresentanti
politici, ambasciatori, manager e intellettuali. Al momento dei discorsi
ufficiali, Madre Teresa, oltre a ringraziare i presenti “per il grande
onore ricevuto”, spiega con uno dei suoi celebri aneddoti di vita il
perché, secondo lei, l’opinione pubblica internazionale si sia
appassionata così ardentemente alla sua opera di carità in difesa
dei poveri tra i più poveri. La storia scelta riguarda un lebbroso che
nei giorni seguenti all’assegnazione del Nobel per la pace aveva bussato
alla porta della Casa Madre delle Missionarie della Carità di Calcutta
per cercare di conoscerla.
“Era un lebbroso tremante - racconta
la suora al cospetto dei leader indiani- gli domandai se aveva bisogno di
qualche cosa da me. Volevo offrirgli del cibo e una coperta per proteggersi
dalla rigida notte di Calcutta. Mi rispose di no. Mi mostrò il suo
piattino delle elemosine, e disse in bengalese: ‘Madre, ho sentito dire
dalla gente che lei ha ricevuto un premio, non so bene quale. Questa mattina ho
deciso che qualsiasi somma oggi avessi ricevuto chiedendo la carità,
stasera l’avrei data a lei. Ecco perché sono qui’. Trovai nel
suo piattino delle elemosine 75 paise, ovvero 2 pence. Il dono era piccolo.
È ancora oggi sulla mia scrivania, perché quel piccolo dono mi
rivela la grandezza del cuore umano. È meraviglioso”.
Quando
la suora conclude il suo discorso, molti volti sono rigati da lacrime, tanti
occhi luccicano un po’ più del solito, l’emozione si taglia
quasi a fette in ogni angolo della sala e nelle espressioni di tutti i presenti.
La parabola vera del povero lebbroso che regala la sua elemosina per i poveri di
Madre Teresa non può lasciare indifferente nessuno. Nemmeno la persona
apparentemente più dura e lontana. Alla fine sarà lei stessa a
sdrammatizzare l’intensità del momento con un sorriso spontaneo ed
accattivante, e un lieve inchino in segno di ringraziamento, al quale gli ospiti
rispondono con un grandissimo applauso.
Dopo l’India, anche altri
importanti paesi, come le superpotenze Usa e Urss, vorranno onorare la
missionaria Premio Nobel per la pace. Mosca le conferisce l’alta
onorificenza della “Medaglia d’oro del Comitato sovietico per la
pace”: l’occasione offre lo spunto a Madre Teresa di comunicare ai
dirigenti dell’Urss di voler, “quanto prima”, aprire anche una
Casa in Unione Sovietica e affidarla a un gruppo di Missionarie della
Carità. Non passa molto tempo e dall’altra parte
dell’Atlantico arriva la notizia che anche gli Stati Uniti d’America
vogliono onorare Madre Teresa con una propria onorificenza, la “Medaglia
Presidenziale della Libertà”. La cerimonia di consegna si
svolgerà in seguito, a Washington, nella Casa Bianca, alla presenza del
presidente americano Ronald Reagan. Il giorno della premiazione è il 20
giugno 1985. Reagan, nel suo indirizzo di saluto, definisce Madre Teresa
“una eroina dei nostri tempi” e precisa che la Medaglia
presidenziale della Libertà è un riconoscimento riservato fino ad
allora solo a quei cittadini americani che per i loro meriti siano considerati
“orgoglio del paese”. Con la fondatrice delle Missionarie della
Carità per la prima volta l’alta onorificenza statunitense è
assegnata ad una personalità non americana. È una eccezione alla
rigida regola del premio che il presidente Reagan spiega in questi termini:
“Madre Teresa, grazie alla sua opera accanto ai poveri di ogni paese,
dimostra che la bontà di alcuni cuori trascende tutti i confini e ogni
stretta considerazione nazionalistica. Ecco perché noi oggi abbiamo il
grande onore di premiarla”.
Grazie al Premio Nobel per la pace, la
piccola suora diventa una delle più conosciute personalità
internazionali. Giornalisti, fotoreporter e scrittori faranno a gara per
intervistarla, dedicarle biografie, fotografarla in mezzo ai suoi poveri, tra le
Case del Moribondo, ma anche al cospetto di star internazionali che fanno a gara
per incontrarla, starle per qualche minuto vicino. Dell’amicizia nata tra
lei e i regnanti inglesi - ed in particolar modo con la principessa Diana
- abbiamo già parlato nelle pagine precedenti. Tra i nomi del mondo
dello spettacolo, molti attori e cantanti - come ad esempio Gina
Lollobrigida, che la inviterà anche in una trasmissione televisiva, e la
pop star Bob Geldof - le faranno visita nelle sue Case di accoglienza a
Calcutta, come a Roma, o a New York.
L'attrice Gina Lollobrigida e Madre Teresa a Roma, in uno spettacolo di beneficenza trasmesso dalla RaiAltri la inviteranno a partecipare a programmi di beneficenza,
ai quali lei qualche volta in via del tutto eccezionale accetterà di
andare. Altri ancora, come la coppia di cantanti Albano e Romina Power scelgono
Madre Teresa come madrina per i loro figli. Anche questa è una richiesta
frequente alla quale la Madre dirà di sì solo in casi particolari.
Per Albano e Romina Power il sì arriva grazie ai buoni uffici di un
sacerdote, monsignor Sergio Mercanzin, direttore del Centro Russia Ecumenica di
Roma, cappellano pontificio per i profughi dei paesi dell’Est e amico
della scrittrice Irina Alberti e di un altro importante premio Nobel,
SolzŠenitzyn. “Quel giorno - racconterà in seguito don
Mercanzin - nella casa di San Gregorio al Celio, Albano e Romina erano
felicissimi di presentare la loro ultima creatura a Madre Teresa. La religiosa
la prese in braccio e volle tenerla così per tutta la durata
dell’incontro. I due cantanti le parlarono a lungo, le confessarono tutta
la loro ammirazione per la sua opera accanto ai poveri e per questo affidarono
la loro creatura sotto la sua simbolica protezione”. Altri, ancora, la
citeranno nei testi di canzoni di successo destinate al grande pubblico:
è quello che fa, ad esempio, uno dei più importanti rapper della
canzone italiana, Jovanotti (Lorenzo Cherubini), che parlerà della
fondatrice delle Missionarie della Carità in uno dei suoi più
grandi successi, “Penso positivo”, dove, tra l’altro, in un
verso canta le lodi di alcuni personaggi-simbolo e confessa da sognare un mondo
di pace fatto sotto forma di “una grande Chiesa che parta di San
Patrignano per arrivare a Madre Teresa, passando per Che Guevara, Malcom X e un
prete di periferia...”.
La stessa attrazione per la figura di Madre
Teresa sarà provata anche dai potenti della terra, che vedranno in lei
- specialmente dopo il conferimento del Premio Nobel per la pace -
un modello quasi unico di umanità, efficienza e coerenza evangelica.
Madre Teresa, quindi, suo malgrado, diventa una stella di prima grandezza. Pur
desiderando di essere considerata sempre e solo come una delle tante suore
missionarie sparse per il mondo a servire i poveri, è sempre più
inseguita dai giornalisti, ma anche dalle persone più anonime che sperano
di vederla soltanto passare, magari scambiare con lei un saluto, o sentirla
parlare dell’amore di Dio per i poveri, “per tutti i poveri della
terra”.
Stella di Raidue
È un personaggio che, senza volerlo,
fa presa sul pubblico, “buca” il teleschermo - come si dice in
gergo - quando appare in tv. Se ne accorgeranno, in particolare, i
dirigenti della Rai, l’ente radiotelevisivo italiano, che nel marzo del
1992 - 13 anni dopo il Nobel per la pace, un lasso di tempo vissuto dalla
suora sempre in prima linea sul fronte della pace e della carità -
le affideranno addirittura un programma di preghiere serali dopo il Tg2.
L’idea è esplosiva. Non solo per lo spessore del personaggio e per
la novità, ma perché Madre Teresa farà il suo esordio di
“conduttrice” in un programma di massimo ascolto su Raidue, la
cosiddetta rete laica, socialista per antonomasia. Con l’avvento della
fondatrice delle Missionarie della Carità il palinsesto della laicissima
Raidue viene rivoluzionato. La suora, a partire dal 23 marzo 1992, dopo
l’edizione serale del Tg2 - quella di massimo ascolto - va in
onda in una trasmissione di 20 minuti dal titolo semplice, semplice,
“Madre Teresa. Preghiera”. Ogni puntata è dedicata ad un tema
specifico individuato dalla religiosa nella quotidianità e presentato
sotto forma di preghiera-invocazione a Dio. Per venti serate, dunque, Madre
Teresa parla a milioni di italiani di: sorrisi, contadini, invalidi, future
madri, esclusi, animali, autistici, musica e canto, disperati, donarsi agli
altri, combattenti, non saper pregare, amore, orfani, ospitalità,
rapporti perduti, presenza di Dio, moribondi, prigionieri, pace. Un successo. La
performance televisiva di Madre Teresa resterà negli annali della Rai
come una delle trasmissioni più seguite ed originali, che sarà
ricordata anche per il coraggio dei dirigenti Rai e per la spontaneità
con cui la religiosa riesce a parlare al grande pubblico televisivo italiano di
tematiche tanto diverse e scomode in chiave di preghiera.
Allo stesso
modo, Madre Teresa non lascia mai indifferente il lettore quando viene
pubblicata una sua intervista, per la quale i pochi giornalisti che riescono a
parlarle in prima persona sono costretti ad inseguirla in ogni angolo della
terra, nelle tante Case delle Missionarie della Carità che lei come una
piccola amabile trottola non si stanca mai di visitare giorno per giorno volando
da un capo all’altro del mondo. Lei non si nega a nessuno, ma ad un patto:
gli incontri, le eventuali interviste non sono concordabili previo appuntamento,
chi vuole parlarle deve uniformarsi ai suoi orari impossibili, alle sue continue
traversate transoceaniche, ai suoi impegni di Madre fondatrice delle Missionarie
della Carità e di suora di Dio, che non rinunzia mai a rispettare gli
orari delle preghiere e delle meditazioni.
Anche la Chiesa cattolica,
naturalmente, la guarda sempre con crescente interesse. Paolo VI - come
abbiamo visto nelle pagine precedenti - nutrì per lei una sorta di
personale venerazione, tanto da essere stato il suo primo importante
“sponsor”. Non da meno saranno i suoi successori: Giovanni Paolo I
che, pur nutrendo grande rispetto per l’opera delle Missionarie della
Carità, in 33 giorni di pontificato non avrà modo e tempo di
incontrare la suora.
L’incontro con Wojtyla
Altrettanta venerazione arriva da parte di
Papa Giovanni Paolo II, che non a caso nel 1980, quando il suo pontificato
incomincia a muovere i primi importanti passi, la vuole come relatrice al Sinodo
mondiale dei vescovi sulla famiglia che si svolge in Vaticano. Madre Teresa vi
prende parte con convinto entusiasmo, anche se ancora una volta dovrà
sacrificare il suo desiderio di anonimato sull’altare della inevitabile
rinnovata notorietà che arriva quando prende la parola davanti ai
rappresentanti di tutti i vescovi del mondo. Nel suo intervento tocca,
ovviamente, tutti i più importanti temi che - a suo giudizio
- stanno minando le fondamenta dell’istituto familiare, a partire
dalla contraccezione, dall’aborto e dal crollo delle nascite, specialmente
nei paesi occidentali. La sua analisi, però, va al di là della
famiglia per andare ad investire anche alcune problematiche sacerdotali,
prendendo in contropiede un uditorio fatto in prevalenza di vescovi. Per nulla
impressionata da un’assemblea sinodale traboccante di ecclesiastici, Madre
Teresa ricorda che la Chiesa cattolica ha bisogno di “maggiore
santità da parte dei sacerdoti”, e che spetta agli stessi ministri
di Dio un ruolo più incisivo e dinamico “per la promozione dei
valori spirituali nella vita della famiglia”.
Parole, analisi e
richiami che hanno in Giovanni Paolo II un attento interlocutore, un Papa
- ma anche un uomo ed un sacerdote - che si accorge di essere con il
trascorrere del tempo sempre più in grande sintonia con la suora dei
poveri. Tra i due ben presto il rispetto reciproco si trasforma in amicizia
sincera, che diventa di dominio mondiale nel 1986, quando Papa Wojtyla visita
per la prima volta l’India. I momenti più toccanti del viaggio
pastorale sono, infatti, l’incontro con Madre Teresa e la visita alla sua
Casa del Moribondo di Calcutta, che il pontefice alla fine ricorderà come
“il giorno più bello della mia vita”.
La prima volta di Wojtyla
L’incontro tra Wojtyla e Madre Teresa
avviene nell’abitacolo della vettura che ha portato il pontefice -
appena arrivato all’aeroporto di Dum Dum - nella Casa Madre di
Calcutta. Madre Teresa gli va incontro, gli si inginocchia davanti e vorrebbe
addirittura prostrarsi fino a potergli toccare i piedi. Papa Wojtyla si sottrae
prontamente al gesto, la solleva quasi di peso, la bacia sulla fronte,
stringendola forte al petto come un padre con la propria figlioletta, e la
benedice. Tutto questo con sorrisi, commozione reciproca e tanta emozione. Il
primo importante gesto di Madre Teresa è quello di presentare il Papa al
capo spirituale del vicino tempio della dea Kalì, il sevayat. Dopo
l’abbraccio tra i due leader religiosi, Wojtyla - quasi condotto per
mano dalla suora - viene fatto accomodare in un palco eretto in suo onore
per essere salutato ufficialmente e insignito con una ghirlanda di fiori indiani
come segno di benvenuto secondo la tradizione del paese. Alla conclusione degli
indirizzi di saluto, Giovanni Paolo II abbraccia ancora la suora e, per
dimostrarle ancora una volta il suo paterno affetto, si toglie la ghirlanda e la
pone intorno al suo collo, tra gli applausi dei presenti. È un momento di
festa e di benvenuto che i due amici - il Papa venuto da Roma e la fondatrice
delle Missionarie della Carità - , vivono in perfetta e spontanea
letizia, senza essere condizionati da rigidi protocolli, coinvolgendo nella loro
felicità tutti i presenti.
Altrettanto toccante e spontanea la
visita del Papa alla Casa del Moribondo: vi trascorre quasi un’ora,
seguendo con grande interesse le spiegazioni di Madre Teresa durante le soste
davanti ai letti degli ammalati, soffermandosi a parlare con molti di essi, a
benedirli, a prenderli per mano come un vecchio amico. Per tutta la durata della
visita, più volte il pontefice elogia con forza l’opera delle
Missionarie della Carità, manifestando tutta la sua ammirazione di
pastore e di uomo: “Per quanti sono ricoverati qui, per i sofferenti ed i
derelitti - afferma Giovanni Paolo II - Nirmal Hriday è un
posto di speranza: questo luogo rappresenta una profonda testimonianza resa alla
dignità di ogni essere umano”. Altrettanto sentite le parole di
ringraziamento di Madre Teresa, che parla della presenza del pontefice come di
un grande dono del Signore per lei, per le sue consorelle e per tutti i poveri
assistiti dentro e fuori la Casa: “Lei, Santità - dice la suora
- oggi qui ha toccato nell’intimo la vita di tutti e di ciascuno. Ha
camminato in mezzo ai nostri malati, ha benedetto e toccato tutti, si è
soffermato a parlare, si è informato sul funzionamento della Casa, ha
abbracciato, accarezzato, sorriso. Siamo felicissimi che il Santo Padre tocchi i
nostri poveri, che si sia informato sulle loro condizioni, che abbia parlato e
si sia soffermato come un vecchio amico. Grazie per essere qui”. Il primo
pellegrinaggio di papa Wojtyla in India diventa, quindi, una sorprendente
occasione di conoscenza reciproca tra Madre Teresa e lo stesso pontefice, il
quale dopo quella visita guarderà alle Missionarie della Carità e
alla loro fondatrice sempre con paterna ammirazione.
Gli anni Ottanta
La prima visita di Papa Wojtyla in India
- ci ritornerà per la seconda volta 19 anni dopo,
nell’ottobre del 1999, in un pellegrinaggio segnato dalle contestazioni
degli estremisti indù e da un coraggioso appello alla libertà
religiosa lanciato da un pontefice, Giovanni Paolo II, visibilmente affaticato,
colmo di acciacchi, ma ancora deciso a proseguire il suo pontificato itinerante
nel nome di Cristo - segna definitivamente il lancio internazionale di
Madre Teresa di Calcutta.
Il primo incontro in India tra Wojtyla e Madre Teresa durante la prima visita pastorale compiuta da Giovanni Paolo II nel 1986 Grazie al Premio Nobel per la pace e alla grande
manifestazione di amicizia e di affetto espressa pubblicamente dal Papa nei suoi
confronti, la piccola suora macedone diventa il più importante
testimonial femminile della Chiesa cattolica. Ai suoi gravosi impegni legati
alla conduzione delle tante opere di carità attivate nei cinque
continenti, la suora ora è chiamata ad aggiungere un nuovo carnet di
scadenze legate ad inviti a partecipare a conferenze, premiazioni, simposi
internazionali - spesso su precisa delega papale -, incontri di
studi per laici e religiosi. Lei non si tira mai indietro, dice a tutti di
sì, convinta come è che ogni occasione è buona per
diffondere la parola di Dio e parlare a nome dei poveri di tutto il mondo.
È questa la Madre Teresa che si affaccia ai primi albori degli anni
Ottanta e che continuerà a camminare per le strade del mondo fino alla
fine dei suoi giorni, malgrado il peso degli anni che incominciano a farsi
sentire, gli acciacchi, la salute malferma e qualche lieve incidente che qualche
volta la costringe a segnare il passo.
Già le suore di Nostra
Signora di Loreto - la sua prima congregazione religiosa - le
raccomandavano di riposarsi, di fare attenzione a non stancarsi troppo a causa
della sua salute cagionevole. Le stesse raccomandazioni le fanno ora le sue
collaboratrici ogni volta che inizia una nuova missione, o intraprende un nuovo
viaggio per seguire il lavoro di una determinata Casa di accoglienza, oppure per
aprirne una nuova, o partecipare alla professione di fede delle sue novizie, una
celebrazione a cui la religiosa tiene molto.
“Il Signore mi ha fatto
un grande regalo: mi ha dato una salute di ferro e io non posso che ringraziarLo
operando sempre di più per alleviare le pene dei poveri e degli
abbandonati”, è la pronta risposta della Madre ogni volta che
qualcuno si “azzarda” a consigliarla di riposarsi un po’, o
magari di rinunziare a un viaggio troppo lungo.
E infatti, anche se
apparentemente Madre Teresa è l’immagine della fragilità
fatta persona, è come se la parola riposo fosse stata cancellata dal suo
vocabolario. Eppure, nel corso della sua lunga vita non sono mancati momenti di
crisi per motivi di salute. Nei primi anni di attività delle Missionarie
della Carità si era ammalata di malaria, per cui nei momenti di maggiore
stress accusava sempre tanta stanchezza e sensazioni di sfinimento.
A
Darjeeling nel 1964 si ferì alla testa in un pauroso incidente stradale:
nel 1969, alla vigilia di un importante viaggio in Australia cadde violentemente
dal letto ferendosi in modo abbastanza serio a un braccio. Malgrado
l’incidente e i consigli dei medici che la pregarono di stare a letto,
volle ugualmente partire anche con il braccio fasciato e dolorante. Nel 1974
accusò un colpo apoplettico, seguito agli inizi degli anni Ottanta da un
abbassamento della vista e da disturbi di spondilite, per la quale la schiena
incominciò a curvarsi in avanti.
Tra i tanti acciacchi accusati,
quello che incomincia a far preoccupare seriamente i suoi medici curanti
è una forte forma di affezione cardiaca scoperta nel corso di una viaggio
negli Stati Uniti nel 1981.
Dopo la visita, i sanitari le prospettano un
quadro clinico per niente roseo sperando di convincerla a tirare un po’ il
fiato e, magari, a delegare alle sue più strette collaboratrici parte dei
suoi impegni. “Ho una salute di ferro”, è la secca risposta
di Madre Teresa a chi la consiglia di riguardarsi di più, anche alla luce
dei nuovi problemi di salute riscontrati dai medici americani: “Non
crediate che mi fermi per queste cose, fino a quando avrò la forza di
camminare, andrò sempre avanti”.
Il cinquantenario della professione dei voti
Sorretta da tanta volontà e da una
forza d’animo difficilmente riscontrabile in altre persone, Madre Teresa
si presenta puntuale ad un altro importante appuntamento, il cinquantenario
della professione dei voti religiosi che tutta la congregazione festeggia il 24
maggio 1981 con Messe di ringraziamento nella Casa Madre di Calcutta e in tutte
le altre Case di accoglienza sparse nel mondo. È una giornata di grande
festa che tutte le Missionarie della Carità, unitamente ai volontari
laici, ai medici e ai tanti assistiti (malati, poveri, bambini ed adulti
recuperati dalla strada), vivono intensamente in un ideale fraterno abbraccio
con la loro Madre fondatrice. I festeggiamenti durano però un solo
giorno, perché Madre Teresa è costretta a riprendere il suo
peregrinare per il mondo chiamata dal Vaticano a partecipare a Roma, a nome
della Santa Sede, ad un convegno internazionale sull’aborto, seguito da
una nuova visita negli Usa - precisamente il 4 giugno 1981 - a
Washington, nella Casa Bianca per stare accanto al presidente Ronald Reagan, che
qualche giorno prima era stato ferito nel corso di un attentato per mano di uno
squilibrato. La suora è accolta con grande affetto da Nancy Reagan,
moglie del presidente, il quale nel vederla accanto al suo letto come una
vecchia amica si commuove.
4 giugno 1981: Madre Teresa con Nancy Reagan alla Casa Bianca Madre Teresa, o forse la sua
semplicità di donna e di religiosa, fa questo effetto: commuove, fino
alle lacrime, reca emozione in chi la guarda da vicino e in quanti possono
stringere le sue mani, ascoltare la sua voce dal timbro sempre costante,
leggermente basso, che si sprigiona dalla sua bocca come una piacevole
cantilena. È la stessa emozione che coglie l’animo del presidente
americano quando, dal letto d’ospedale, vede la bianca e minuta immagine
di Madre Teresa.
I due si salutano come due vecchi amici. Per niente
intimidita di essere al cospetto dell’uomo più potente della terra,
la religiosa gli si siede vicino, si informa sul suo stato di salute, lo
conforta con parole affettuose e, per rincuorarlo, gli ricorda il sacrificio di
Cristo sulla croce, assicurandogli che “la sofferenza che sta patendo in
seguito a questo attentato porterà il presidente ad essere più
vicino a Gesù ed ai poveri”. È un incontro, quindi, fuori
dai canoni dell’ufficialità e privo di vincoli diplomatici: la
suora e la coppia presidenziale si parlano a lungo come vecchi amici e alla fine
Reagan la ringrazierà commosso per il forte incoraggiamento ricevuto. In
seguito, il presidente americano a chi gli chiederà cosa si fossero detti
durante la visita di Madre Teresa, risponderà con una significativa
battuta: “Io non ho detto nulla, io ho solo ascoltato le parole della
Madre: è lei che mi ha parlato, incoraggiato e sostenuto con parole di
grande affetto”.
Dopo la visita al presidente americano, via, tra
gli emarginati di Harlem dove la suora inaugura una nuova Casa per il recupero
dei tossicodipendenti; seguita da altre nuove Case di accoglienza nella Germania
Est e in Brasile, dove ha anche l’opportunità di parlare alla
settantaduesima Assemblea del Rotary Club International. Dai poveri tra i
più poveri ai ricchi rotariani: come è nel suo stile, Madre Teresa
parla con tutti, non si scompone mai, anzi, anche di fronte alla platea
apparentemente più lontana dai problemi degli emarginati lancia appelli
per i poveri, dà lezione di misericordia e invita tutti a farsi carico
dei pesi degli ultimi. “Noi non abbiamo bisogno del vostro danaro -
spiega tra l’altro ai delegati del Rotary International - abbiamo
invece bisogno del vostro tempo libero: vogliamo che tutti voi doniate voi
stessi ai poveri...penso che tutti voi, e io per prima, dovremmo cominciare a
condividere ciò che abbiamo. Questo atteggiamento sarà certamente
occasione di una migliore comprensione tra le nazioni”.
Dal
Sudamerica all’Inghilterra, all’Irlanda del Nord dove nel giugno del
1981 tenta ancora una volta di contribuire alla pacificazione delle parti in
lotta lanciando un ennesimo appello alla concordia tra le fazioni cattoliche ed
anglicane.
Nel corso di un incontro presso una comunità ecumenica di
nome “Corrymeela”, un centro impegnato a gettare semi di pace in
Irlanda, legge un’importante poesia sull’amicizia e la concordia tra
i popoli: è un componimento di un poeta indiano, Satih Kumar,
contrassegnato da un fortissimo anelito di pace che Madre Teresa legge con
grande passione nella chiesa di St. James di Piccadilly, a Londra, davanti ad un
foltissimo pubblico formato da anglicani, cattolici, laici, giornalisti di
numerose testate internazionali. Il testo di quella poesia - che
riportiamo qui di seguito - sarà inserito dalla suora nella
raccolta delle sue preghiere preferite: è un inno alla vita, alla
verità e alla pace, e nello stesso tempo un appello a Dio guardato come
il vero e unico Signore della pace: “Conducimi dalla morte alla vita,
dalla falsità alla verità; conducimi dalla disperazione alla
speranza, dal timore alla fiducia; conducimi dall’odio all’amore,
dalla guerra alla pace. Fa’ che la pace colmi i nostri cuori, il nostro
mondo, il nostro universo”.
L’estate dell’81, come appare
evidente, vede Madre Teresa impegnata su tanti fronti e costretta ad affrontare
lunghi e frequenti viaggi che col passare degli anni, e con l’aumentare
degli acciacchi, diventeranno sempre più faticosi. L’avvento del
decennio Ottanta dà il via ad uno dei periodi più intensi della
sua attività missionaria. Tuttavia, il 3 luglio le arriva improvvisamente
una ferale notizia, la morte del fratello Lazar. Non si vedevano da anni, e la
suora avrebbe fatto l’impossibile pur di stargli vicino al momento del
trapasso. Ma non le riesce. Il fratello muore colpito da un cancro ai polmoni
nella sua casa di Palermo, in Italia. Madre Teresa sapeva da mesi che Lazar
soffriva di quel terribile male.
La morte del fratello Lazar
La morte del fratello la coglie in
contropiede, quasi impreparata anche se nei mesi precedenti lei stessa aveva
scritto una preoccupata lettera ad una amica chiedendole, tra l’altro, di
pregare per la salute del fratello. Eccone uno stralcio, dal quale emerge la
grande preoccupazione della suora per la sorte del suo congiunto e il forte
attaccamento alla vita di quest’ultimo: “Sono stata io -
rivela Madre Teresa - a dirgli che aveva un tumore e che presto forse
sarebbe andato a raggiungere la famiglia in cielo. E lui ha risposto
semplicemente: ‘Se tu vuoi andare a raggiungere la famiglia, va’
pure; ma io per adesso vorrei ancora rimanere qui, in questo mondo”. In
seguito sarà Madre Teresa stessa a far sapere - in un’altra
lettera ad una amica - con quanta cristiana rassegnazione il fratello era
morto, secondo quanto le era stato riferito dai familiari italiani di Lazar.
“È stato meraviglioso, alla fine, quando ha detto: ‘Sì
sono pronto ad andare’, dopo essersi confessato e aver pregato insieme.
Prega per lui. Non ha un figlio maschio, il nome di famiglia muore con
lui”.
Il tempo appena di asciugarsi qualche furtiva lacrima, di
recitare una preghiera di suffragio per l’anima del fratello e via, col
dolore nel cuore, di nuovo in viaggio. Dapprima a Calcutta per ricevere un
importante riconoscimento economico dalla locale Università e poi, il 10
dicembre di nuovo a Roma per essere insignita di una laurea honoris causa in
medicina all’Università cattolica del “Sacro Cuore”. Ed
anche in questa circostanza - come ha sempre fatto in analoghe precedenti
occasioni - non si lascia sfuggire l’opportunità di parlare
dei poveri del mondo e di lanciare un nuovo, pressante appello contro
l’aborto e in difesa della vita nascente, fin dall’attimo del primo
concepimento.
“L’aborto non è che paura del bambino
- argomenta Madre Teresa durante il discorso pronunziato alla cerimonia di
conferimento della laurea -. Chi interrompe volontariamente una gravidanza
ha paura di dover avere un’altra bocca da sfamare, di dover educare un
altro bambino, di dover amare un altro bambino. Per questo il bambino deve
morire: è un assassinio, un abominevole assassinio perpetrato, per di
più, contro un essere piccolo, indifeso e innocente. L’aborto
è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio e che va contro, in
tutto e per tutto, il comandamento con cui nostro Signore ci ha proibito di
uccidere”.
In viaggio nel mondo anche con gli acciacchi
Dal nuovo importante riconoscimento
accademico ricevuto dall’Università Cattolica di Roma, ad una
altrettanto nuova serie di inaugurazioni di Case di accoglienza e centri per
ammalati, ben 26 in tutto il 1982, fondati sia nei paesi più a rischio
del Terzo Mondo, sia in Occidente: nella prima parte del decennio Ottanta Madre
Teresa è sempre sulla cresta dell’onda. Pur con tutti gli acciacchi
che condizionano la sua malferma salute, riesce a far fronte ad una vasta gamma
di impegni che la portano ad affrontare un numero sempre più crescente di
viaggi da un continente all’altro. I suoi impegni - che come abbiamo
visto in precedenza spesso e volentieri è chiamata a svolgere anche su
richiesta del Vaticano - la portano ormai a trascorrere gran parte del suo
tempo lontano dalla Casa Madre di Calcutta. A lungo andare questo suo frenetico
peregrinare si trasforma in una sorta di handicap per la gestione diretta della
congregazione, per cui nell’82 decide che in sua assenza la
responsabilità della conduzione operativa delle attività
dell’ordine debba essere di competenza di una sua delegata, la suora
maltese Frederick, nominata per questo incarico Assistente generale delle
Missionarie della Carità. Nel presentarla alle altre consorelle, Madre
Teresa spiega che suor Frederick la rappresenta in tutto e per tutto durante i
periodi di assenza da Calcutta e pertanto chiede che sia fatta oggetto della sua
stessa filiale obbedienza. “Care sorelle - raccomanda la fondatrice
delle Missionarie della Carità in un documento scritto per annunciare
l’istituzione della figura dell’Assistente generale della
congregazione - abbiate fiducia in suor Frederick, siatele sempre vicino.
Aiutatela, specialmente nei momenti di maggiore difficoltà. Non abbiate
paura. Semplicemente abbiate fiducia ed obbedite, e tutto andrà per il
meglio”.
Potenziato il vertice della congregazione con
l’istituzione di una nuova figura in grado di sostituirla nei momenti di
assenza, eccola di nuovo in viaggio. Vola in Australia per fondare una nuova
Casa di accoglienza, si reca in fretta e furia nel Bangladesh dove i locali
governanti sono sul punto di cacciare le Missionarie della Carità
perché accusate di infrangere le leggi del paese. Senza pensarci su due
volte, appena arriva all’aeroporto, accompagnata dall’arcivescovo
locale, si reca subito dal presidente, col quale, dopo un cortese colloquio,
chiarisce ogni equivoco e convince le autorità della regione a rinnovare
il permesso di soggiorno alle sue consorelle impegnate ad assistere i poveri del
Bangladesh.
Con l’avvento del decennio Ottanta, evocare il nome di
Madre Teresa di Calcutta, Premio Nobel per la pace 1979, significa indicare un
personaggio internazionale universalmente riconosciuto come stabile punto di
riferimento per il riscatto dei poveri e, nello stesso tempo, parlare di una
religiosa diventata anche sinonimo di pace e fratellanza. È, in un certo
senso, la suora di tutti, la donna capace di parlare indistintamente ai cuori di
grandi e piccoli, di credenti e non credenti, di ricchi e poveri, ma anche di
sconfitti e vincitori. Pertanto, le gerarchie cattoliche e il Vaticano
incominciano a servirsi di lei anche come un testimonial universale da impegnare
a nome della Chiesa nella diffusione dell’amore tra i popoli, negli
interventi di condanna di ogni forma di violenza, a partire dalle guerre. Madre
Teresa oltre ad essere la paladina del riscatto dei poveri, diventa anche
l’immagine della pace nelle cui mani le alte sfere cattoliche amano
affidare anche la memoria di antiche ferite nella speranza di poter costruire un
futuro un po’ meno fosco. Eccola perciò nell’aprile del 1982
recarsi in Giappone, nella città-martire di Nagasaki vittima della bomba
atomica lanciata dagli aerei americani il 9 agosto 1945, tre giorni dopo la
distruzione atomica di Hiroshima. Due date drammatiche, due città-martiri
che le offrono lo spunto per ricordare al mondo intero che con la guerra tutto
è perduto, mentre con la pace tutto è possibile.
La condanna della bomba atomica
Non è la prima volta che Madre Teresa
mette piede in Giappone: in questo lontano paese c’è già
stata negli anni passati per fondarvi Case per i poveri e centri di accoglienza
per ammalati bisognosi. In questa occasione, però, lo scopo è
tutto diverso ed è intimamente legato al suo ruolo di testimonial della
fratellanza naturalmente “ereditato” dal Premio Nobel per la pace.
Questa volta, oltre a parlare del riscatto dei poveri, è chiamata a
parlare del riscatto della pace universale e a condannare tutte le guerre, sia
quelle di ieri sia quelle che ancora oggi insanguinano tanta parte del mondo.
Madre Teresa arriva a Nagasaki il 26 aprile 1982 e subito partecipa ad un
incontro di preghiera dedicato al ricordo delle vittime di tutte le guerre e, in
particolare, ai morti provocati dalle due bombe atomiche sganciate dagli aerei
americani e che sconvolsero il Giappone nel 1945, provocando migliaia e migliaia
di morti. “Nel ricordare i morti di Hiroshima e Nagasaki dobbiamo tutti
pregare - esorta la suora - affinché mai più nessuna
mano umana possa compiere un atto tremendo come quello che è stato
compiuto qui”. In un altro incontro dedicato sempre alla
“necessità” della pace e alla condanna della guerra -
“di tutte le guerre” - recita la seguente preghiera:
“Padre Eterno, in unione con le sofferenze e la Passione di Cristo che
viene rinnovata ad ogni Messa, noi Ti offriamo le sofferenze e il dolore
inflitti dalla bomba atomica in questo luogo a migliaia di persone, e Ti
imploriamo, Padre Eterno, di proteggere tutto il mondo dalle sofferenze e dal
dolore che una guerra nucleare infliggerebbe alla popolazione del Giappone e di
tutto il mondo, alle nazioni già afflitte dalla paura, dalla diffidenza,
dall’angoscia che tutte le pervade. Padre Eterno, abbi pietà di noi
tutti”.
Dal Giappone a Beirut, in Libano, teatro di un altro lungo e
sanguinoso conflitto “camuffato” da motivi religiosi, ma in
realtà patrocinato da signori della guerra che fanno fatica a parlare di
pace e di fratellanza. In questi mesi la capitale libanese è vittima di
scontri e bombardamenti che stanno mettendo a dura prova la popolazione. I primi
a soffrirne sono - manco a dirlo - i bambini, le prime vittime
sacrificali, gli esseri più deboli chiamati a fare i conti con i fantasmi
della morte generati da attentati, sparatorie, cecchinaggi, ma anche da mancanza
di cibo e di medicinali. Su precisa richiesta di Papa Giovanni Paolo II, Madre
Teresa viene incaricata di recarsi anche a Beirut per cercare di individuare
qualche cosa da fare - un progetto di pronto intervento, una Casa di
accoglienza - per portare in salvo almeno i più piccoli.
La
suora risponde con slancio all’invito del pontefice. Tentare
l’impossibile per cercare di portare in salvo bambini minacciati da guerre
e calamità naturali è il tipo di missione che sente di più.
Il Libano, poi, è diventato ormai un teatro bellico che non può
non coinvolgere quanti hanno a cuore la causa della pace. Prima della partenza,
il pontefice e la suora si incontrano nella residenza pontificia estiva di
Castel Gandolfo. Madre Teresa assiste alla Messa celebrata dal Papa, il quale
alla fine le raccomanda di andare a Beirut per cercare di portare sollievo alle
sofferenze dei più piccoli e, nello stesso tempo, di vivere
l’intera missione in terra libanese come “segno di
solidarietà” per tutte le vittime della guerra. Raccomandazione che
la fondatrice delle Missionarie della Carità accetta con entusiasmo.
Ricevuta la benedizione di Papa Wojtyla, senza perdere ulteriore tempo, parte
per il Libano portando con sé un’immagine della Madonna col Bambino
benedetta dal pontefice e un cero pasquale che avrebbe accesso al suo arrivo a
Beirut. Nella capitale libanese trascorre un’intera settimana, impegnata
quasi tutta a raccogliere per le strade feriti e bambini abbandonati. Incurante
delle raccomandazioni di chi le consiglia di non girare troppo e, specialmente,
di non attraversare le linee di confine dei gruppi belligeranti, Madre Teresa si
reca indifferentemente in tutti i quartieri cittadini per rendersi personalmente
conto della situazione. Prima del suo arrivo a Beirut nessuno si sarebbe
azzardato ad attraversare i confini delle varie zone in guerra: ben presto,
però, la situazione cambia. Sull’esempio di Madre Teresa -
che, senza apparente paura per la presenza di eventuali cecchini o per niente
preoccupata di essere colpita accidentalmente da qualche ordigno, non esita a
mettere piede nelle zone più pericolose della città per portare in
salvo i bisognosi - , in città incomincia a formarsi una spontanea
task force di volontari pronti a portare aiuto e conforto tra la popolazione
nelle aree più critiche. Grazie a questa opera, a Beirut in pieno
conflitto prende forma un’area di salvezza per bambini abbandonati e
feriti gravi di qualsiasi credo politico-religioso, gestita dalle Missionarie
della Carità. Appena si rende conto che le Missionarie della
Carità impegnate in Libano possono continuare ad andare avanti anche
senza la sua presenza, Madre Teresa lascia Beirut e riprende a viaggiare per il
mondo. Il 19 agosto 1982 la vediamo in Messico, dove è stata invitata a
parlare ad un simposio internazionale dedicato alla distribuzione del benessere
nel pianeta; successivamente si reca di nuovo a Roma per parlare a un congresso
di Collaboratori delle Missionarie della Carità; seguito subito da un
meeting di preghiera ad Assisi dedicato agli otto secoli dalla nascita di S.
Francesco d’Assisi. Dalla città del Poverello a St. Louis, negli
Stati Uniti d’America, a una congresso dedicato alla “Difesa della
vita”; e poi ancora a Dublino, in Irlanda, e a Glasgow, in Scozia, ad
altrettanti convegni dedicati al tema della condanna dell’aborto e della
difesa della vita dal primo concepimento fino alla sua conclusione
naturale.
L’incidente a San Gregorio al Celio
Sfidando ancora la resistenza del suo esile
fisico e delle malattie che col passare del tempo diventano sempre più
noiose, agli inizi dell’autunno del 1982, Madre Teresa inaugura una nuova
Casa di accoglienza nell’India nord-orientale - a Churhat - e
una Casa del povero a Caracas, in Venezuela. Stesso ritmo e analoga abnegazione
caratterizzeranno l’attività della suora Premio Nobel per la pace
nel corso dei mesi successivi e per tutta la prima parte del 1983, fino ai primi
giorni di giugno, quando Madre Teresa per motivi di forza maggiore è
costretta, suo malgrado, a fermarsi a causa di un incidente. Accade il 2 giugno
1983, quando la suora, mentre si trova nella sede romana della Missionarie della
Carità di S. Gregorio al Celio, cade improvvisamente dal letto e si
ferisce un piede. Non si è mai riusciti a capire il perché di
questo incidente, accaduto, per di più, in un luogo sicuro come
può essere il letto. Evidentemente, la caduta avviene durante il sonno,
forse in un attimo di agitazione causata da eccessivo stress o da qualche forma
di disturbo che ha reso precario il suo equilibrio. Resta il fatto che la caduta
le procura una ferita di una certa gravità per cui i sanitari decidono di
ricoverarla alla clinica “Salvator Mundi” di Roma. Durante la
degenza, i medici - oltre a curarle il piede - la sottopongono ad
una lunga serie di visite dalle quali emerge tutto il suo precario stato di
salute, a partire dal cuore. Anzi, qualche sanitario definisce
“provvidenziale” la precedente caduta dal letto, perché
- le spiegano - se non si fosse fermata in tempo quasi certamente
sarebbe stata colpita da un infarto dalle conseguenze imprevedibili.
Di
fronte a un quadro clinico così critico, i sanitari decidono di
trasferirla dalla clinica “Salvator Mundi” al policlinico “A.
Gemelli” dell’Università Cattolica di Roma, dove Madre Teresa
trascorre un altro periodo di ricovero, seguito da una lunga convalescenza
passata nella sede romana delle Missionarie della Carità. La suora
è costretta, dunque, ad ubbidire agli ordini dei medici e a sottoporsi a
un forzato riposo durante il quale i sanitari, pur rimettendola in sesto, si
rendono conto che d’ora in avanti la religiosa non sarà più
in grado di sopportare i ritmi lavorativi fin qui osservati. “Se si
riguarderà e seguirà attentamente i nostri consigli, cara Madre,
lei non avrà problemi per almeno una trentina d’anni”, le
ripetono più volte i medici curanti. Parole sagge, ma destinate ad essere
ascoltate solo in parte dalla diretta interessata, la quale - tanto per
non smentirsi - “approfitta” proprio del lungo periodo di
convalescenza per gettare le basi per la fondazione di un nuovo ramo delle
Missionarie della Carità, il settore aperto ai consacrati, ai sacerdoti e
ai religiosi.
Il ramo dei consacrati
È un progetto che covava nel cuore
della Madre da diversi anni, precisamente dal 1978, quando nel corso di un
incontro con un religioso americano, padre Joseph Langford, questi per la prima
volta le confessa che avrebbe in animo di dar vita ad un movimento sacerdotale
impegnato a diffondere gli ideali delle Missionarie della Carità.
Conclusa la convalescenza, Madre Teresa parla dell’antico progetto
alle autorità vaticane e, nel corso di diversi incontri, anche con il
Papa, il quale dà immediatamente la sua benedizione. Dopo poco meno di un
anno, e ottenuti tutti i placet da parte delle competenti istituzioni
pontificie, il nuovo ramo della congregazione vede ufficialmente la luce il 3
ottobre 1984 con il nome di “Padri Missionari della Carità”.
Altro aspetto significativo, la sede della nuova comunità è nel
Bronx, uno dei quartieri più a rischio di New York. I nuovi padri
avrebbero iniziato la loro attività missionaria proprio in una delle aree
più a rischio della metropoli americana, accanto ad alcolizzati e
tossicodipendenti, per poi espandersi negli anni successivi in altre
città americane e in Europa.
Ancora nel 1984 Madre Teresa mette in
pista un altro progetto maturato definitivamente durante la convalescenza: una
speciale sezione dell’Ordine aperta ai medici. Per questo, si rivolge a
sanitari, primari e chirurghi che già da tempo collaborano con le
Missionarie della Carità per invitarli a far parte del nuovo ramo di
Collaboratori. La nuova struttura - aperta a medici di qualsiasi fede
religiosa e di qualsiasi convinzione politica - in pochi anni
crescerà in maniera considerevole tanto da essere presente con proprio
personale medico e paramedico in quasi tutti i paesi dove operano le missionarie
di Madre Teresa, specialmente nelle zone tormentate dalle guerre e dalla
carestie.
Bob Geldof, l’Etiopia e... la Cina
Tra i tanti desideri che Madre Teresa non ha
voluto mai cancellare completamente dal suo cuore, ce n’è uno che
da anni non ha cessato mai di ardere e che a partire dal 1984 incomincia a
diventare realtà: aprire una Casa anche in Cina. Un’idea
rivoluzionaria e proibitiva a causa delle forti difficoltà che,
tradizionalmente, vanificano ogni tentativo di dialogo con i governanti cinesi.
Tra i primi ad essere informato dell’idea direttamente dalla suora fu
Paolo VI nel 1969. Pur con tutta la buona volontà di Papa Montini, il
progetto resta nel cassetto.
Dopo 15 anni ecco di nuovo Madre Teresa
tornare alla carica. Il 14 aprile 1984 ne parla per la prima volta col cardinale
segretario di Stato della Santa Sede, Agostino Casaroli, quasi a voler chiedere
un robusto conforto diplomatico col quale poter almeno attenuare le inevitabili
difficoltà legate all’idea di fondare una sede delle Missionarie
della Carità per aiutare i poveri della Cina. In precedenza, la suora si
era recata diverse volte a parlare del progetto con i rappresentanti
dell’ambasciata cinese di Nuova Delhi. Alla fine di ogni colloquio -
durante i quali Madre Teresa aveva illustrato nei minimi dettagli come aveva in
animo di organizzare una sede delle missionarie in Cina - aveva sempre
ricevuto risposte non proprio incoraggianti del tipo: “In Cina, cara
Madre, non ci sono poveri e quei pochi che sono in difficoltà possono
contare sugli aiuti statali”. Per niente scoraggiata, la Madre in seguito
torna alla carica e, nel complimentarsi con i governanti cinesi per il fatto di
non avere a che fare nel loro paese con eccessivi problemi di povertà,
prospetta loro la fondazione di una Casa di accoglienza specializzata per
persone depresse e sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Persone
quindi non necessariamente povere ed abbandonate, ma malati, affetti per di
più da uno dei disturbi psico-fisici tra i più pericolosi.
L’idea fa breccia e costituirà la base di una possibile intesa tra
governanti cinesi e Missionarie della Carità, grazie alla quale nel giro
di pochi mesi Madre Teresa avrà la possibilità di intraprendere un
viaggio in Cina in vista dell’apertura di una nuova Casa di accoglienza.
Ma prima di poter spiccare il volo verso la Cina, la religiosa sarà
chiamata a visitare la Polonia su invito del cardinal primate, Joseph Glemp e il
31 ottobre 1984 prenderà parte in India ai solenni funerali della sua
amica Indira Gandhi assassinata da un sicario. Durante la cerimonia di
cremazione delle spoglie della Gandhi, la suora - accanto alle delegazioni
guidate dalle più alte personalità politiche della terra -
prega per la sua anima (“Possa riposare in pace per sempre”), mentre
il corpo posto su una pira di legno lungo il fiume Jumna viene lentamente
bruciato dalle fiamme secondo il costume indiano.
L’incontro con Geldof
Dal dramma dell’India, ferita a morte
in una delle sue figure più rappresentative, al dramma dell’Etiopia
per la quale in questi mesi si prospetta nuovamente lo spettro della fame dovuto
a carestia e siccità. Motivo per cui Madre Teresa - malgrado i
problemi al cuore e alla spina dorsale - decide di trascorrere il Natale
1984 ad Addis Abeba, accanto alle consorelle che là stanno combattendo
una guerra impari contro la malnutrizione e le malattie che hanno colpito le
fasce più deboli della popolazione, a partire dai bambini. La situazione
in Etiopia in quei giorni è talmente drammatica che un gruppo di rock
star internazionali capitanate dal cantante Bob Geldof lancia un disco,
“Do they know it’s Christmas?”, i cui proventi - circa
sei milioni di sterline - vengono tutti destinati a combattere la carestia
che minaccia le popolazioni etiopiche.
Madre Teresa e il cantante Bob Geldof ad Addis Abeba, nel Natale del 1984Bob Geldof e Madre
Teresa hanno anche modo di incontrarsi in quei giorni di permanenza ad Addis
Abeba: il cantante le regala una copia del disco come segno di profonda
riconoscenza e di ammirazione per la sua incessante opera di promozione umana
sia in Etiopia che nel resto del mondo; la suora a sua volta si complimenta con
Bob Geldof per aver mobilitato tante rock star per la causa dei poveri etiopici.
“Ciò che lei fa - spiega Madre Teresa a Geldof - io non
lo posso fare, e ciò che posso fare io non può farlo lei. Ma se
questo è chiaro nel nostro cuore e nella nostra mente, il volere di Dio
è che noi ce la facciamo insieme per alleviare le sofferenze di questi
nostri fratelli”.
Altrettanto sentita la risposta del cantante, il
quale nel manifestarle tutta la sua felicità per averla incontrata, la
definisce “madre e speranza di tutti i poveri, incarnazione del bene
morale universale, punto di riferimento morale per quanti hanno a cuore i
problemi dei bisognosi”.
Bob Geldof e Madre Teresa: la strana coppia
recatasi in Etiopia per combattere con armi differenti e complementari -
la musica e l’amore per i poveri - carestia, fame e malattie di ogni
genere. Non si sa quanti frutti riuscirà in futuro a produrre una simile
inedita alleanza: certo è che i due grandi personaggi riusciranno a
trasformare quel Natale 1984 in una sorprendente stagione di attesa e di
speranza, coinvolgendo milioni di persone in tutto il mondo non solo sul dramma
in corso in Etiopia, ma su un tema tanto rivoluzionario quanto sconosciuto ai
più, come l’amore per i poveri e gli emarginati, l’aiuto
disinteressato per gli ultimi e gli abbandonati.
L’arrivo a Pechino
Madre Teresa, però, seguendo il suo
naturale istinto non si ferma a contemplare il lavoro fatto. A maggior ragione
non fa mai in modo di mettersi in mostra per cercare di ascoltare il suono degli
applausi dopo aver lanciato un progetto o fondato una nuova Casa di accoglienza.
Quando getta un seme e, dopo poco, vede che questo seme incomincia a dare i
primi segni di vita, va subito oltre, guarda altrove dove sente di poter trovare
altri poveri da aiutare. Come fa subito dopo il viaggio in Etiopia di quel
Natale 1984. Ed infatti, non passa nemmeno un mese ed ecco spuntare
all’orizzonte un altro viaggio atteso da anni, la Cina. In precedenza
- come abbiamo già visto - aveva parlato di questo sogno con
Paolo VI, poi con Giovanni Paolo II e con il suo segretario di Stato cardinale
Agostino Casaroli, ricevendo da tutti benedizioni ed incoraggiamenti ad andare
avanti, anche di fronte agli inevitabili ostacoli a cui una impresa del genere
sarebbe andata incontro.
Il sogno si avvera il 20 gennaio 1985, quando
Madre Teresa, su invito ufficiale dell’Associazione Cattolica Patriottica
Cinese - la Chiesa cinese riconosciuta dalle autorità statali e non dal
Vaticano - può finalmente sbarcare in Cina. Ci arriva dopo un lungo
viaggio che la porta a visitare le tante Case di accoglienza aperte dalle
Missionarie della Carità in altri paesi dell’Estremo Oriente, come
nelle Filippine e in Corea.
Al suo arrivo a Pechino, solerti funzionari le
chiedono se per caso avesse con sé qualche messaggio da parte del
Vaticano da consegnare alla Chiesa patriottica. È una classica
domanda-trabocchetto posta alla religiosa per metterla alla prova e, magari,
scoprire se avesse intenzione di aprire qualche canale segreto tra i cattolici
cinesi (clandestini fedeli al Papa, patriottici...) e Roma. Se per caso la Madre
avesse risposto affermativamente, c’è da scommettere che una simile
eventualità non sarebbe stata gradita ai governanti di Pechino, anzi
è certo che sarebbe stata giudicata come un vero e proprio tradimento.
Per questo, Madre Teresa, senza scomporsi troppo e con estrema naturalezza, alla
domanda del funzionario cinese risponde semplicemente: “No, io vengo da
Calcutta e non ho messaggi da parte di nessuno”. Superato questo primo
importante ostacolo diplomatico, la suora ha il via definitivo alla visita e
diventa, automaticamente, la seconda alta personalità cattolica ad essere
stata invitata ufficialmente in Cina. Prima di lei, lo stesso permesso era stato
concesso solo al cardinale filippino Jaime Sin.
La visita dura quattro
intensissimi giorni: Madre Teresa si reca presso comunità religiose, vede
centri di accoglienza per anziani, viene ospitata in una casa per anziani presso
una comune di Pechino. “Dio vi benedica tutti”, scrive nel registro
delle visite. Ha anche la possibilità di assistere ad una Messa celebrata
da un vecchio sacerdote della Chiesa patriottica. È uno dei momenti
più belli ed intensi della visita. Nel suo diario personale in seguito la
suora annoterà: “In chiesa c’erano pochi giovani, ma in
compenso era molto affollata di adulti. La santa Messa si celebra ancora in
latino, alla vecchia maniera. La gente recita ancora il rosario durante la santa
Messa, ma non ho mai visto altrove un simile atteggiamento di adorazione e di
umiltà nel ricevere la comunione”.
La breccia cinese
La breccia aperta in un paese lontano e
difficile come la Cina conferma una verità che il periodo a cavallo tra
il 1984 e il 1985 vede delinearsi anche a livello statistico, e cioè che
Madre Teresa - al di là del pur importante Premio Nobel per la pace
- è una vera e propria superpotenza della giustizia e della
carità capace di attraversare confini ritenuti invalicabili, di dialogare
con interlocutori all’apparenza difficili, di presentarsi sempre e
comunque con la sua immagine di suora cattolica votata al Cristo dei poveri.
È una specie di testa di ponte che la Chiesa cattolica - vale a
dire il Vaticano - usa per le missioni impossibili e per potenziare la
già consistente presenza missionaria cristiana in tutto il mondo.
C’è però una novità rivoluzionaria nel messaggio di
Madre Teresa che fa delle sue missionarie una congregazione unica ed originale:
le suore dal sari bianco e celeste non vanno solo tra i poveri del Terzo Mondo,
scelgono indifferentemente di servire i bisognosi dell’Africa,
dell’America Latina, ma anche dell’Europa o degli Usa. Grazie alla
loro opera, l’opinione pubblica internazionale si accorge che il tarlo
della povertà e dell’abbandono non attacca solo i cosiddetti Paesi
in via di sviluppo, ma anche le città del ricco Occidente. Ecco quindi
Madre Teresa operare - come abbiamo visto nei capitoli precedenti -
in Inghilterra, come in Irlanda, in Australia, a New York, a Roma, ma anche
- e lo vedremo più dettagliatamente nelle pagine seguenti -
all’interno della Città del Vaticano dove le Missionarie della
Carità su invito di Papa Giovanni Paolo II apriranno una casa per i
barboni romani denominata significativamente. “Casa dono di
Maria”.
Volendo, comunque, quantificare la presenza delle Missionarie
della Carità nel mondo a metà degli anni Ottanta, è utile
rifarsi alle cifre che di tanto in tanto la stessa fondatrice diffonde: nelle
oltre 400 Case aperte in varie parti del mondo vengono conservate razioni
settimanali di cibo necessarie a sfamare circa 107.000 persone; attraverso i
centri di assistenza le cucine distribuiscono cibi cotti per circa 52.000
ospiti; nelle Case del Moribondo sono ospitate circa 14.000 persone prive di
tutto e completamente indigenti, oltre la metà delle quali riescono a
salvarsi, bisognosi che senza l’aiuto delle Missionarie della
Carità sarebbero andati certamente incontro a una morte sicura. I bambini
ospiti nelle 103 Shishu Bavan ammontano a circa 6.000: sono in genere piccoli
raccolti dalla strada, abbandonati dai genitori o orfani di vittime di guerra.
Ma il miracolo dei miracoli compiuto da Madre Teresa riguarda la cura dei
lebbrosi, che, stando alle statistiche diffuse dalle Missionarie della
Carità fino a tutto il 1985, toccano i quattro milioni tra quanti sono
assistiti sia nelle Case di accoglienza sia attraverso le cliniche mobili
attivate dai volontari e dai collaboratori medici della
congregazione.
L’assistenza quotidiana ai lebbrosi occupa un posto
veramente importante nel cuore di Madre Teresa, forse perché in questi
malati le Missionarie della Carità vedono il Cristo dei Vangeli, quel
Cristo minato nella carne e nelle ossa proprio come si presentano ora i tanti
fratelli colpiti nella carne e nelle ossa dalla terribile lebbra. Spesso lo
confessa la stessa fondatrice, che con puntuale frequenza ama raccontare
aneddoti legati alle tante storie vissute accanto ai suoi amici lebbrosi. Si
tratta di storie belle e meno belle, vicende di vita vissuta tra stenti,
abbandoni e rare speranze, ma che dimostrano sempre con quanto amore la suora
guarda a questi fratelli colpiti da un male tanto crudele. Tra le tante, Madre
Teresa ama ricordare la vicenda di due genitori lebbrosi costretti a privarsi
del loro bimbo appena nato. È una storia struggente che non può
lasciare indifferente nessuno e che la suora racconta nei suoi diari con
espressioni semplici e penetranti che vanno diritte al cuore e lasciano il segno
in chi ascolta: “Un giorno - ecco il racconto così come
prende forma dalle sue parole - osservai un padre ed una madre malati di
lebbra coricati di fianco al loro figlio appena venuto alla luce. Tenevano la
loro creatura - ricorda Madre Teresa - in mezzo a loro ed entrambi
guardavano il piccino, avvicinando a lui le mani e ritraendole immediatamente
per avvicinarglisi di nuovo, come se lo volessero baciare, e facendosi subito
indietro per non toccarlo. Non mi scorderò mai la tenerezza
dell’amore di quella madre e di quel padre verso la loro creatura! Io
presi il bambino e potei osservare i due che seguivano il loro figlio con lo
sguardo pieno di tenerezza, finché non scomparimmo dalla loro vista. Che
strazio, che dolore provarono quei due genitori per quella separazione! Fu molto
penoso per loro rinunciare in quel modo al loro figlio appena nato, ma, dato che
lo amavano più di quanto amassero se stessi, trovarono la forza
necessaria per farlo”.
“Va comunque detto - continua la
suora - che ai genitori malati di lebbra è consentito vedere i
propri figli: ciò che a loro non è consentito è di toccarli
perché potrebbero infettarli e trasmettere loro il male. È
commovente vedere il grande sacrificio che devono compiere i nostri genitori
affetti da lebbra per il bene dei loro figli, affinché questi non vengano
contagiati dalla loro stessa malattia; è un sacrificio che, sono certa,
tocca anche Dio in modo particolare...”
La Madre, quando parla di
questi malati, diventa ancora più tenera, più dolce, si sente
ancora più materna del solito e chi le sta vicino lo sente, se ne
accorge, e ne riceve un beneficio che non ha prezzo. Il lebbroso si sente
nuovamente persona; il tossicodipendente o l’omosessuale - ma anche
l’eterosessuale - colpito dall’Aids si sente accolto, curato,
non più emarginato a causa di giudizi moralistici sommari o per
dichiarazioni di impotenza; la consorella, o il volontario laico, il medico,
vedono in lei la personificazione dell’amore verso una delle categorie di
ammalati tra le più isolate della storia. Tanta lezione di vita, alla
lunga non può che generare buoni frutti. Cosa che puntualmente si
verifica nei centri di accoglienza dei lebbrosi, retti dalle Missionarie della
Carità in India, dove questi malati hanno la possibilità di
riscattarsi facendo dei lavori di artigianato o aiutandosi
vicendevolmente.
I malati di Aids, la “nuova” carità
L’opera caritativa delle Missionarie
di Madre Teresa alla fine degli anni Settanta viaggia dunque a pieno regime e
con l’avvento della seconda metà del decennio successivo, gli anni
Ottanta, la congregazione si prepara a far fronte ad altre forme di
emarginazione che stanno prendendo piede in quasi tutti i paesi - sia
ricchi che poveri - a causa di un’altra terribile malattia,
sconosciuta fino a pochissimi anni prima, l’Aids. Dalla cura della lebbra
alla lotta alla nuova peste di fine secolo - come in genere viene definito
questo nuovo male che miete vittime in tutti i continenti - per una
realtà come le Missionarie della Carità il passo può
apparire breve e spontaneo. Lo è ancora di più per una figura come
Madre Teresa, abituata da anni ad affrontare qualsiasi tipo di sfida, anche
quelle che all’apparenza possono sembrare impossibili. E
l’assistenza ai malati di Aids è una di queste: specialmente in un
momento in cui quasi tutte le istituzioni tradiscono tutta la loro
impreparazione nei confronti di una malattia nuova, spietata, dai connotati
indecifrabili e che colpisce soggetti deboli come i tossicodipendenti, gli
omosessuali avvezzi ad avere rapporti sessuali a rischio, o quanti sono soliti
vivere una vita sessuale con partner occasionali e senza le dovute cautele.
Madre Teresa, di fronte ad una situazione così drammatica, senza
farsi condizionare da giudizi moralistici sulle cause che starebbero alla base
della diffusione dell’Aids decide di agire, e subito scende apertamente in
campo accanto a quanti sono stati colpiti dai sintomi del male, specialmente ai
malati terminali per i quali pensa istintivamente ad organizzare speciali Case
di accoglienza, nuclei abitativi ad hoc dove ospitarli, curarli, garantire loro
tutta l’assistenza necessaria, sia sanitaria che umana, grazie
all’opera delle Missionarie della Carità e, all’occorrenza,
di medici e volontari specializzati.
Negli Usa la prima casa per i malati di Aids
Il primo passo in questa direzione lo compie
nel 1985 rispondendo positivamente all’invito di un medico americano, il
professor Richard Di Gioia, uno dei primi specialisti impegnati
nell’assistenza ai malati di immunodeficienza acquisita. Madre Teresa e il
dottore si conoscono da anni. Spesso si sono incontrati negli Usa e hanno sempre
tenuto viva la loro amicizia tramite un fitto rapporto epistolare. In una
lettera del 1985, Di Gioia le chiede, tra l’altro, di far visita ad alcuni
malati di Aids che sono in cura da lui in un ospedale di Washington. Madre
Teresa, disattendendo ancora una volta le raccomandazioni dei suoi medici
curanti, sempre più preoccupati delle sue precarie condizioni di salute,
parte subito per la capitale americana. Sente che dietro quell’invito si
cela un nuovo scenario socio-caritativo a cui nessuno - e tantomeno le
Missionarie della Carità - deve mostrarsi insensibile. Nella
capitale americana entra immediatamente in contatto con i malati di Aids in cura
- ma forse si dovrebbe dire “parcheggiati” in attesa della
morte - presso l’ospedale dell’Università “George
Washington”. Constata in prima persona che il nuovo male non guarda in
faccia a nessuno e che i più esposti sono i giovani. Si rende conto,
inoltre, che tra i più esposti ed emarginati, i malati di Aids carcerati
sono quelli ancora più a rischio perché non sono in grado di
essere assistiti adeguatamente. Ecco quindi che Madre Teresa, con l’aiuto
del professor Di Gioia, decide di fondare una prima Casa per malati di Aids in
uno dei più sofisticati e variopinti quartieri di New York, Manhattan. I
primi ospiti della Casa saranno alcuni carcerati affetti dal male, ai quali le
autorità giudiziarie concederanno la possibilità di uscire
dall’istituto di pena grazie ad una petizione avanzata da Madre Teresa
direttamente al governatore di New York, Mario Cuomo, e al sindaco Koch.
“Vi prego - implora la suora durante i colloqui avuti con i
rappresentanti delle istituzioni americane - in nome di Dio lasciate che
queste persone muoiano in pace; fate in modo che questi fratelli abbiano la
possibilità di essere assistiti, curati fino all’ultimo e
accompagnati all’appuntamento col Signore con un sorriso. Sono solo
fratelli che soffrono, facciamoli almeno morire in pace”. Prima di Madre
Teresa le autorità americane non avevano mai concesso ai carcerati malati
di Aids di lasciare la prigione per potersi curare altrove. Di fronte alle
preghiere della suora - ed alla grande carica umana con cui Madre Teresa
perora la causa dei carcerati malati di Aids - il clima cambia, le porte
delle prigioni - anche di penitenziari tristemente famosi come Sing Sing
- si aprono e per i reclusi affetti dall’Aids prende forma la
concreta possibilità di essere assistiti in ambienti più protetti
e, particolare di non secondaria importanza, più umani.
La prima
Casa per malati di Aids - che Madre Teresa vuole significativamente
chiamare “Dono dell’amore” - viene fondata in alcuni
ambienti ricavati in una canonica, messi a disposizione da una parrocchia al
Greenwich Village che Madre Teresa e i suoi amici americani inaugurano nel
Natale del 1985.
All’apertura presenziano autorità civili,
religiose - capitanate dal primate cattolico statunitense, il cardinale
John O’Connor - e, naturalmente, i primi ospiti della Casa,
specialmente quelli che sono stati abbandonati dalle proprie famiglie dopo aver
contratto l’infezione. Nel breve discorso di saluto, Madre Teresa mette in
relazione le vicissitudini di “questi fratelli colpiti dal male respinti
da amici e familiari” e le difficoltà a cui andò incontro la
Madonna quando, in compagnia di Giuseppe, non trovò che una stalla dove
far nascere Gesù Cristo perché nessuno volle accoglierli in casa.
Attualità e ricordi evangelici in un mix di “felice
coincidenza” - ricorda la suora - resa ancora più
tenera dall’Avvento delle festività natalizie con le quali
“il nostro Signore ogni anno ci porta i doni dell’amore e della
festa”.
“Non vogliamo processare nessuno di questi fratelli”
“Questi sono i giorni in cui -
continua ancora Madre Teresa nella Casa per i malati di Aids del Greenwich
Village - Gesù è nato per portare gioia, pace e amore, e
desideravo che anche loro, i nostri fratelli ammalati, nascessero alla gioia,
alla pace e all’amore”. La grande ricorrenza natalizia per le
Missionarie della Carità - ricorda la suora - deve essere
sempre un momento in cui “i cuori si aprono per dare amore e
felicità a tutti, specialmente ai più bisognosi: senza questa
apertura il Natale sarebbe un’altra cosa”. E gli ammalati di Aids,
vale a dire i nuovi emarginati, gli esclusi della società del benessere,
gli abbandonati da tutti, devono essere tra i primi a ricevere tali amorevoli
attenzioni senza esclusioni preconcette o condanne moralistiche. “Non
siamo qui - avverte infatti Madre Teresa - per fare il processo a
questa gente, per decidere se sono colpevoli o innocenti. La nostra missione
è aiutarli, fare sì che i loro ultimi giorni siano più
tollerabili”. Con queste parole, la fondatrice delle Missionarie della
Carità indica, sostanzialmente, la strada da seguire di fronte alle nuove
forme di emarginazione provocate dalla diffusione dell’Aids: approcci,
modi di pensare e di agire che ogni persona di buon senso è chiamata a
mettere in pratica tutti i giorni, ma che per un cristiano diventa addirittura
un obbligo morale vincolante, non solo a Natale, ma in qualsiasi momento
dell’anno. Parlando infatti a un simposio dedicato alle nuove
problematiche legate alla immunodeficienza acquisita al “National Council
for International Health”, la fondatrice delle Missionarie della
Carità, forte delle prime esperienze maturate alla Casa “Dono
dell’amore” di New York, spiegherà che la maggiore sofferenza
di chi si accorge di essere stato infettato dall’Aids è “la
sofferenza del cuore e della solitudine, è il rendersi conto di essere
stati abbandonati, di non essere voluti, amati, è l’accorgersi che
all’improvviso si è stati scartati dalla famiglia, dalla
società, in ultima analisi, dalla vita”.
I primi ospiti della
Casa di New York sono 14 carcerati malati di Aids: sono curati e assistiti da 6
Missionarie della Carità che hanno seguito uno specifico corso di
preparazione. Nella Casa, oltre all’assistenza sanitaria, possono
studiare, svolgere attività, seguire volontariamente lezioni di
catechismo. Il tasso di mortalità dei primi tempi, però, è
molto elevato e le suore a volte hanno la sensazione di avere a che fare con gli
stessi problemi che si avvertono nelle tante Case del Moribondo che la
congregazione ha fondato in tante parti del mondo. Case dove la morte è
all’ordine del giorno. Ma non per questo si scoraggiano. Anzi, fin dai
primi giorni di attività della Casa, Madre Teresa si rende subito conto
che occorre fondare una seconda residenza per malati di Aids, magari non a New
York, ma a Washington. L’idea però non viene subito accettata
dall’opinione pubblica della capitale statunitense, condizionata da un
crescente numero di abitanti che teme che la presenza di ammalati di Aids in
determinati quartieri possa rappresentare un pericolo per i “cittadini
sani”. Di fronte a simili discutibili pregiudizi - nei quali non
è per niente difficile individuare venature di ignoranza, mista a
razzismo ed egoismo - Madre Teresa non si scompone minimamente: anzi si
convince ancora di più della necessità di fondare altre Case per
malati di Aids, non solo per dare rifugi sicuri ai pazienti, ma per educare
quella consistente parte della popolazione che vede nell’immunodeficienza
acquisita una sorta di castigo divino e nelle persone infette dal male
“esseri” da cancellare da ogni contesto civile, sociale e umano.
Forte di queste convinzioni, per vincere le resistenze incontrate tra i
quartieri di Washington, Madre Teresa il 13 giugno 1986 bussa alla porta della
Casa Bianca per andare a parlare del problema dei malati di Aids al presidente
degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan. L’incontro è
positivo: il presidente - che ama presentarsi, insieme alla moglie Nancy,
come grande amico ed estimatore di Madre Teresa - dà subito la sua
disponibilità affinché le Missionarie della Carità possano
aprire una seconda Casa per malati di Aids negli Usa. Reagan si trova subito in
perfetta sintonia con la richiesta della suora. Non potrebbe essere altrimenti,
anche perché non avrebbe argomenti sufficientemente convincenti per
contrastare una richiesta così bella e motivata.
“Signor presidente, è doveroso aiutare i malati di Aids”
“Signor presidente - è
l’esordio della suora appena arrivata al cospetto di Reagan - stiamo
cercando un posto piacevole dove le persone affette dall’Aids possano
essere accolte, ricevere dell’amore e combattere il proprio isolamento e
la propria solitudine. Queste persone sono nostri fratelli ed è doveroso
aiutarli. Lasciarli nell’abbandono, magari anche a causa di egoismi e
pregiudizi, sarebbe un peccato imperdonabile. Signor presidente,
aiutiamoli!”. E il “Signor presidente” aiuta: davanti ad una
simile convincente richiesta, Reagan non può che dire di sì e
spazzare via, di conseguenza, tutte quelle forme di resistenza che stavano
compromettendo la nascita di una nuova Casa per malati di Aids nella capitale
americana.
Ottenuto il placet della Casa Bianca, nel giro di qualche
settimana la suora può aprire una Casa per malati di Aids anche a
Washington: la sede viene individuata in un vecchio convento, il San Giuseppe,
ex orfanotrofio ed ex sede Caritas messo a disposizione dell’arcivescovo
James Hickey. Rispetto alla Casa “Dono dell’amore” di New
York, a questo secondo centro assistenziale - che Madre Teresa battezza
“Casa della pace” - , oltre ai malati di Aids, possono essere
accolti anche donne e bambini alle prese con altri problemi sanitari.
L’inaugurazione avviene l’8 novembre 1986: all’iniziativa si
associano anche alcuni ospedali, mettendo a disposizione le loro strutture
sanitarie e il personale medico e paramedico disposto a collaborare
volontariamente con le missionarie. L’iniziativa però
continuerà ad essere osteggiata da una parte degli abitanti del quartiere
contraria alla presenza di un presidio anti-Hiv nella zona. Qualcuno
organizzerà manifestazioni di protesta, altri inoltreranno denunce alle
autorità competenti accusando la nuova “Casa della pace” di
essere una struttura sanitaria non autorizzata. Niente da fare:
l’utilità della Casa non sarà minimamente intaccata dagli
avversari delle suore, per cui ben presto altre strutture analoghe saranno
aperte da Madre Teresa a San Francisco nel giugno del 1988 e nel marzo
successivo ad Addis Abeba, poi a Los Angeles e a Denver, nel Colorado.
Sono anni di attività frenetica che vedono le Missionarie della
Carità in prima linea nell’assistenza ai malati di Aids, un virus
ancora in gran parte sconosciuto, e per il quale la ricerca scientifica ancora
non ha approntato un vaccino utile almeno a frenarne la diffusione. Madre Teresa
e le sue consorelle non si scompongono. Come negli anni passati hanno preso di
petto i problemi assistenziali legati alla lebbra, alla fame,
all’abbandono totale dei poveri tra i più poveri, così ora
sentono che i fratelli colpiti dal terribile virus sono in sostanza i nuovi
samaritani che bisogna aiutare ad ogni costo. In attesa che la scienza
partorisca la medicina giusta capace di circoscrivere e debellare il nuovo morbo
di fine secolo, le Missionarie nelle “Case della pace” accolgono,
assistono, danno amore, curano, accompagnano con sollecitudine fraterna i
moribondi, distribuiscono speranze e si raccolgono in preghiera per implorare
Dio di aiutare “tutti i fratelli che soffrono a causa
dell’Aids”.
Il tributo dell’immunologo
Tanta abnegazione non può non
suscitare grande ammirazione e sentimenti di riconoscenza da parte
dell’opinione pubblica, anche da quei settori apparentemente più
distratti e lontani. Gli addetti ai lavori, specialmente quelli che sono in
prima linea nella lotta all’Aids, ne sono entusiasti, anche perché
- dicono - l’esempio di Madre Teresa e delle sue Missionarie
della Carità rappresenta una concreta risposta a quanti non sanno come
affrontare il drammatico problema dell’assistenza ai malati terminali,
anche in conseguenza della grande impreparazione che ancora esiste nei confronti
di questa malattia a vari livelli. Per tutti, vale il giudizio espresso nei
confronti della suora Premio Nobel per la pace da un immunologo di fama, il
professor Fernando Aiuti, presidente dell’Anlaids, un’associazione
all’avanguardia per la lotta all’Aids. “Ho conosciuto Madre
Teresa - scriverà Aiuti in un commento pubblicato sul quotidiano
‘Il Messaggero’ - qualche anno fa a Roma. Sono stati sempre
brevi incontri, ma molto intensi e costruttivi. Questi incontri erano
finalizzati a cercare una collaborazione tra l’Anlaids e le Missionarie
della Carità. Abbiamo realizzato una Casa alloggio a Roma e altre a
Napoli e a Bari. Sono stati per me incontri di una grande importanza e
straordinari sotto il profilo umano. Madre Teresa - scriverà ancora
il professor Aiuti - era una donna con uno sguardo al cielo e uno in
terra, una persona con un grande senso pratico della vita, con un’energia
incredibile nel portare avanti problemi anche a tarda sera dopo centinaia di
incontri con personaggi potenti, con umili e malati.... Lei non delegava ad
alcuno i suoi progetti, era sempre presente e controllava tutti i particolari.
Anche negli incontri ai fini della collaborazione con l’Anlaids è
stata sempre lei a decidere e a firmare di persona... ha voluto essere presente
il primo giorno in cui è arrivata una malata di Aids con il suo bambino,
ed ha voluto dare alla Casa il nome “Dono dell’Amore”, a Roma
in via dei Fratelli Maristi... la sua più grande preoccupazione era per i
bambini malati di Aids e il suo dramma era legato alle donne sieropositive che
possono infettare i loro figli, alle donne che erano e sono costrette a
prostituirsi per un pezzo di pane in India, in Thailandia o in qualsiasi altro
paese in via di sviluppo...ho sentito anche gridare al nostro congresso nel
dicembre 1995 a Roma con forza la sua vergogna nei confronti di un turismo
sessuale che avviene con la compiacenza anche di molti politici che decidono le
cose importanti nel mondo occidentale...”. Quanto alle varie forme di
lotta e prevenzione all’Aids, il professor Aiuti ricorda nel suo tributo
che Madre Teresa un giorno gli aveva riferito che “la via laica e la via
religiosa, pur avendo percorsi diversi possono avere obiettivi comuni in grado
di essere raggiunti insieme più facilmente”.
Nella seconda
metà degli anni Ottanta il mondo scientifico, e non, è chiamato a
misurarsi con il diffondersi del grande male di fine secolo e le Missionarie
della Carità, grazie alla spinta della loro fondatrice, sono in grado di
fornire anche il loro contributo in questo delicato settore. Ma sono anni in cui
Madre Teresa - tra la fondazione di una Casa anti-Aids e
l’inaugurazione di un nuovo centro di accoglienza - trova anche il
tempo di fare lunghi viaggi transoceanici per volare in Africa
(nell’ottobre del 1986 a Khartum, in Sudan), per pregare per le vittime di
tre anni di guerra civile e per aiutare le altre consorelle impegnate a curare
feriti e ammalati; va a Cuba per incontrarsi con Fidel Castro e gettare le basi
per potenziare la presenza delle Missionarie della Carità
nell’isola caraibica; vola ancora in Austria, in Polonia per partecipare
ad una cerimonia di professione di voti di un gruppo di consorelle; si reca in
Unione Sovietica - visita anche questa eccezionale e carica di significato
- dove va a portare la sua solidarietà alle vittime
dell’incidente nucleare di Chernobyl: per l’occasione viene anche
insignita di una medaglia d’oro da parte del “Comitato Sovietico per
la pace”. Come vedremo, è un viaggio dalla doppia lettura -
umanitaria e “politica” - destinato a generare nei mesi
successivi abbondanti frutti nel grande giardino della Chiesa cattolica
universale.
Ambasciatrice al Cremlino
Il viaggio a Mosca viene infatti caricato di
un altro aspetto, che va al di là del solo aspetto umanitario a favore
delle vittime di Chernobyl, ancora più delicato e assai caro alle alte
sfere della Santa Sede: la Madre - su riservato incarico della curia
pontificia - deve sondare discretamente gli umori del Cremlino alla luce
delle aperture politiche annunciate dal leader sovietico Mikhail Gorbaciov, il
padre della perestroika, che avrà il coraggio di avviare lo storico
rinnovamento del sistema socio-politico dell’Urss.
Incarico che la
suora svolge egregiamente in quanto, senza far trapelare nulla, durante la
visita, oltre a recarsi a rincuorare le vittime della tragedia di Chernobyl,
incontra anche rappresentanti del Cremlino ed emissari di Gorbaciov (la suora
non ammetterà mai ufficialmente di aver parlato anche con il
segretario-presidente sovietico, anche se sono in molti nel suo entourage a
sospettarlo e ad ammetterlo a mezza voce). Come risultati concreti, Madre Teresa
“incassa” dai dirigenti del Cremlino il via libera per
l’apertura di una nuova Casa di assistenza per poveri ed ammalati: una
concessione non da poco per un paese come l’Urss dove il potere comunista
non ha mai ammesso apertamente l’esistenza di alti tassi di povertà
tra la sua popolazione e che ha sempre avocato agli organismi statali
l’onere di provvedere al sostentamento delle fasce più deboli della
società.
Con l’arrivo di Madre Teresa in Urss prende forma
- nel suo piccolo, che poi tanto piccolo non è - un evento
rivoluzionario, il placet governativo alle Missionarie della Carità ad
operare per i poveri tra i più poveri a partire, in primo luogo, dalle
vittime di Chernobyl.
Di tutto questo, la suora - conclusa la visita
a Mosca e nei centri colpiti dalla tragedia termonucleare -
riferirà direttamente al Papa. Quasi come una diplomatica pontificia in
pectore rientra infatti subito in Vaticano, senza fare altre tappe, per essere
ricevuta immediatamente da Giovanni Paolo II. Dopo l’udienza papale
- sulla quale come è sempre accaduto in passato le fonti ufficiali
pontificie osserveranno un rigoroso silenzio -, in una intervista
esclusiva concessa al quotidiano “la Repubblica”, Madre Teresa
annuncia che le Missionarie della Carità “grazie
all’autorizzazione avuta dal presidente sovietico Gorbaciov presto
apriranno in Urss una nuova Casa di accoglienza per i poveri”; quanto ai
contenuti della sua visita a Mosca, la suora racconta di essere stata “a
contatto con le autorità sovietiche e religiose di quel grande paese,
nella cui popolazione ho notato che c’è sempre un grandissimo
desiderio di Dio, come ho avuto modo di illustrare al Santo Padre nel corso
dell’udienza che mi ha concesso al mio rientro a Roma”. “Le
mie consorelle - aggiunge ancora nell’intervista a ‘la
Repubblica’ - sono pronte a partire per l’Unione Sovietica:
come hanno fatto altrove, anche in questo paese daranno il loro aiuto ai poveri,
ai bisognosi e agli ammalati”. L’intervista all’inviato di
“la Repubblica” fa il giro del mondo: è, nel suo genere, un
documento storico, perché dalle parole di Madre Teresa, per la prima
volta, si ha la concreta sensazione che stia finalmente nascendo un dialogo
- sebbene indiretto ed ancora allo stato embrionale - tra il
Cremlino (la culla del comunismo mondiale) e il Vaticano. È un documento
giornalistico raccolto quasi per caso, in quanto l’incontro tra la suora e
il cronista - accompagnato da monsignor Sergio Mercanzin, il direttore del
Centro Russia Ecumenica, che in precedenza aveva fatto da tramite tra Madre
Teresa e la coppia Albano-Romina Power - avviene senza nessun preavviso,
in una stanzetta della sede delle Missionarie di San Gregorio al Celio, alla
fine della Messa di prima mattina (quella delle ore 6). Quando il giornalista di
“la Repubblica” e don Mercanzin arrivano nella sede del Celio, il
cielo è ancora scuro. Il sole sorgerà mentre Madre Teresa e le sue
consorelle sono raccolte in preghiera circondate da un silenzio quasi irreale
nella grande e spoglia stanza nella quale è stata ricavata la cappella.
Alla conclusione della Messa, la suora, prima di parlare del suo viaggio
in Urss, parlerà a lungo col giornalista, si informerà della sua
famiglia e dei suoi figli, e gli consegnerà delle immaginette della
Madonna di Lourdes raccomandandosi di donarle ai suoi familiari: “Mi
raccomando, dai la Madonnina ai tuoi figli, è importante parlare della
Madonna e di Gesù ai bambini...”. Solo dopo queste raccomandazioni,
racconterà del suo viaggio in Urss e del calore riscontrato sia nei nuovi
dirigenti del Cremlino che nella popolazione, “dove, malgrado gli anni
passati, c’è sempre fame di Dio”.
Non è per
niente azzardato affermare che, se nei mesi successivi tra la Santa Sede e il
Cremlino si avvierà un dialogo profondo che porterà nel giugno del
1989 alla prima storica visita in S. Pietro di un presidente sovietico e
segretario del Pcus - Gorbaciov - e alla apertura delle relazioni
diplomatiche tra il Vaticano e l’Urss, un po’ di merito debba essere
riconosciuto anche alla discreta opera mediatrice portata avanti con le
autorità sovietiche dalla fondatrice delle Missionarie della
Carità, la suora delle missioni impossibili e della concretezza che
continua a piacere sempre di più a Papa Wojtyla.
Gli anni Ottanta si
avviano verso l’epilogo con una Madre Teresa itinerante più che
mai: malgrado gli acciacchi e il peso dell’età, la suora va, non
sta mai ferma, viaggia senza sosta per portare pace e solidarietà dove
c’è bisogno, dove i poveri chiedono di essere aiutati e la presenza
delle Missionarie della Carità è salutata come un dono del Signore
dai credenti o come un insperato gesto di umana solidarietà da non
credenti, fedeli di altre religioni, indifferenti. La suora con le spalle sempre
più curve, con gli occhi sempre più stanchi anche a causa di una
serie di disturbi che le bloccano parzialmente la vista e con un cuore che
spesso e volentieri fa le bizze, si trascina da una parte all’altra del
mondo, abbatte mura, scavalca steccati, sradica pregiudizi, dialoga
indifferentemente con timorati di Dio e agnostici, atei e anticlericali, senza,
tuttavia, rinunziare alla sua identità cristiana.
Una “casa dono di Maria” anche in Vaticano
Ma c’è un posto a Roma dove mai
Madre Teresa avrebbe immaginato di poter fondare una Casa per i poveri, il
Vaticano. Un sogno - anche questo quasi impossibile - a lungo
accarezzato segretamente e qualche volta lanciato, quasi per scherzo, ad alcuni
alti esponenti della gerarchia vaticana con frasi del tipo “mi piacerebbe
poter portare un giorno i miei poveri qui, in Vaticano, a pregare sulla tomba di
S. Pietro, vicino alla casa del Papa”. Oppure: “come sarebbe bello
poter accudire gli ultimi tra gli ultimi che gravitano intorno al Vaticano e
magari poter pregare insieme a loro all’ombra della basilica
vaticana”. Frasi e desideri di una suora un po’ sognatrice e un
po’ utopista, ma che ha saputo fare proprio dei sogni e delle utopie le
sue armi vincenti nella battaglia di tutti i giorni ingaggiata contro la
povertà e l’emarginazione. Frasi e desideri che - come semi
caduti per caso in campi abbandonati germogliano e danno frutti insperati
- piano piano incominciano a fare breccia nei piani alti della Curia
vaticana fino a penetrare con discrezione nell’appartamento papale, dove
c’è un “padrone” di casa che come ben sappiamo nutre
per Madre Teresa un affetto ed una fiducia smisurati. Fatto sta che un bel
giorno del maggio 1987 la suora riceve dal Vaticano una graditissima notizia:
“Il Santo Padre - le viene riferito da un prelato - desidera
che lei apra una Casa dentro le mura vaticane per ospitarvi i poveri della
zona”. La prima reazione della suora è un mix di sorpresa e
meraviglia: “Come? Abbiamo capito bene? Il Santo Padre vuole che le
Missionarie della Carità aprano una Casa in Vaticano? È un onore
troppo grande: mai avremmo immaginato di poter essere fatte oggetto di una
attenzione così grande da parte del Santo Padre. Servire i poveri tra i
più poveri in Vaticano è un onore ed una grazia troppo
grande”. “Certo, Madre - le viene fatto garbatamente notare
dal rappresentante della Curia pontificia - è proprio così:
il Santo Padre desidera che lei e le sue Missionarie della Carità vi
occupiate dei poveri e dei barboni che gravitano intorno al Vaticano in una Casa
di accoglienza che sarà costruita dentro le mura
pontificie”.
Tutto vero: Giovanni Paolo II, che come vescovo di Roma
ben conosce i disagi dei poveri tra i più poveri che vivono nella
capitale (barboni, immigrati privi di lavoro, ammalati, giovani
tossicodipendenti, anziani soli...), vuole che anche il Vaticano dia un segnale
concreto sul fronte della solidarietà cittadina. Naturale, quindi, che
abbia pensato a una figura come Madre Teresa di Calcutta per allestire una Casa
di accoglienza in Vaticano dove ospitare gratuitamente un certo numero di
bisognosi. Grazie alla spinta papale e alla entusiastica disponibilità
delle Missionarie della Carità, l’edificio - battezzato Casa
“Dono di Maria” - viene costruito in un’area confinante
con il palazzo dell’ex Sant’ Uffizio. Vi possono essere ospitati
permanentemente un’ottantina di senza fissa dimora e distribuiti circa un
migliaio di pasti caldi al giorno. L’accesso è libero. “Tutti
i barboni ed i vagabondi sono benvenuti, indipendentemente dalla loro religione
di appartenenza - spiegano i delegati pontifici incaricati dal Papa di
realizzare la Casa in collaborazione con Madre Teresa -; non vogliamo che
la gente dorma sotto i ponti del Tevere o nella stazione. I poveri ed i
bisognosi d’ogni fede, e quelli che non ne hanno alcuna, saranno
benvenuti”.
Di nuovo in viaggio e di nuovo malata
La costruzione della nuova Casa delle
Missionarie della Carità in Vaticano decolla nel giro di qualche
settimana dopo una toccante cerimonia della posa della prima pietra alla
presenza delle più alte cariche pontificie, a partire dal segretario di
Stato cardinale Agostino Casaroli. Giovanni Paolo II, in precedenza, aveva dato
la sua benedizione apostolica al progetto della nuova struttura di accoglienza
che la stessa Madre Teresa si era preoccupata di illustrargli nel corso di una
udienza.
La Casa “Dono di Maria” sarà costruita in
circa un anno di lavoro. Sarà infatti inaugurata nel 1988. Nel frattempo
Madre Teresa riprende a viaggiare per il mondo, anche se per le sue condizioni
di salute sarebbe meglio per lei restare a riposo. Vola ancora una volta a New
York per recare conforto al sindaco Edward Koch colpito da un ictus; approfitta
della sosta newyorkese per sottoporsi ad un lieve intervento chirurgico agli
occhi. Senza completare la convalescenza, eccola di nuovo in cammino alla volta
del Nepal, sconvolto il 21 agosto 1988 da un terribile terremoto: per aiutare le
popolazioni colpite appronta un piano di intervento con le consorelle del posto
ed inaugura una nuova Casa per il ricovero dei feriti. A novembre decide di
abbattere un altro storico (e inquietante) muro, il Sudafrica, il paese da anni
chiuso al mondo a causa delle leggi razziali che hanno dato vita ad un sistema
sociale rigidamente suddiviso in bianchi e neri, e dove le ricchezze sono tutte
in mano alla minoranza bianca mentre la povertà grava sulla stragrande
maggioranza nera. Incurante dell’embargo a cui il Sudafrica è
sottoposto da quasi tutte le democrazie occidentali, Madre Teresa sbarca a
Pretoria su invito dell’arcivescovo cattolico George Daniel e getta le
basi per la fondazione di una serie di Case di accoglienza per i poveri
sudafricani. Sarà forse anche per queste iniziative che nei mesi
successivi il regime razzista sudafricano crollerà ai piedi del campione
della lotta all’apartheid Nelson Mandela tornato in libertà dopo
oltre 20 anni di prigione e che, in seguito, svolgerà un ruolo di primo
piano per la causa della pacificazione nazionale nelle vesti di presidente della
Repubblica.
In Sudafrica con solidarietà e contro l’apartheid
La presenza di Madre Teresa in Sudafrica fa
discutere molto. Alle tante parole di approvazione si uniscono anche quelle di
chi critica la religiosa per non aver apertamente gridato la sua condanna dei
governanti sudafricani e per non essersi pronunciata subito contro il regime
razzista di quel paese. Senza scomporsi - alle critiche in fondo Madre
Teresa è abituata da sempre - la suora risponde che la sua presenza
in Sudafrica non ha nessun valore politico: “Le Missionarie della
Carità sono venute qui per stare vicino ai poveri, nelle baraccopoli, tra
i bisognosi delle periferie. Non sapevo che esistesse l’apartheid -
ammette con estrema sincerità la Madre - non mi interesso mai di
politica perché non ne ho la competenza. Ma quel che so è che
siamo una congregazione religiosa, che ci è stato fatto un invito a cui
abbiamo risposto perché vogliamo esercitare anche qui il nostro amore
attivo a fianco dei poveri tra i più poveri per l’amore di Cristo
ed in stretta osservanza del nostro carisma, facendo né più
né meno quello che abbiamo già fatto per i fratelli bisognosi
degli altri paesi”. Quanto alle accuse circa una sua presunta
“tiepidezza” nel condannare il razzismo, spiega che la sua
contrarietà a qualsiasi forma di esclusione - e il razzismo
è certamente una delle peggiori, se non la peggiore - è
totale: “L’ho sempre detto e continuerò a dirlo. Bianchi,
neri, gialli, verdi o di qualsiasi altro colore, noi siamo tutti figli di Dio,
siamo stati tutti creati per fare grandi cose, per amare ed essere amati”.
Per essere ancora più chiara su questo delicato argomento, in un incontro
nella città di Durban, per essere capita da tutti, racconta un episodio
realmente accadutole e che dimostra come le Missionarie della Carità,
grazie alle loro opere di carità tra i poveri, siano in grado di
debellare qualsiasi forma di esclusione e divisione tra la popolazione, al di
là del colore della pelle, della religione professata e delle convinzioni
politiche. Protagonista dell’aneddoto è una donna indù che
decide di aiutare una famiglia di musulmani. “Un giorno ero in una casa di
indù, a Calcutta, per portare del riso ad una famiglia in
difficoltà. C’era una mamma che appena ci vide ci ringraziò
molto: finalmente poteva dar da mangiare ai figli. Ad un certo momento la donna
scomparve improvvisamente e, dopo un po’ di tempo, tornò con solo
la metà del riso che le avevamo portato. Le chiesi: ‘Cosa avete
fatto del riso?’. Mi rispose: ‘Ho diviso quel che mi avevate dato
con una famiglia musulmana, sono nostri vicini’. Quella donna conosceva i
bisogni dei suoi vicini. Non le importava che fossero musulmani, o che la sua
stessa famiglia fosse tanto affamata: questo è amare fino a soffrirne. Ed
è quello che noi Missionarie della Carità, insieme ai nostri
fratelli poveri, facciamo in tutti i luoghi del mondo dove la Divina Provvidenza
ci spinge ad andare. E naturalmente anche in Sudafrica”.
Fatta
decollare la presenza delle Missionarie nell’estremo sud del continente
africano, via in Armenia per portare conforto ed aiuto alla locale popolazione
colpita da un tremendo terremoto che il 7 dicembre 1988 causa la morte di circa
500 mila persone. Anche qui Madre Teresa fonda una nuova Casa di accoglienza
dove fa ricoverare i feriti più gravi per sottoporli alle cure delle sue
consorelle che l’hanno seguita nel viaggio. Dialoga con tutti, poveri ed
autorità, va in udienza dal patriarca armeno, riceve una medaglia per le
sue attività umanitarie dal “Comitato Armeno per la Pace”. Il
19 dicembre, dopo circa due settimane di duro lavoro accanto ai terremotati,
Madre Teresa ha l’opportunità di incontrarsi anche con Nikolai
Ryzkhov, il primo ministro sovietico in visita alle zone colpite dal sisma.
Ryzkhov dialoga a lungo con la suora insieme ad altri due importanti dirigenti
politici armeni, il ministro degli Esteri e il segretario del partito comunista.
L’incontro è cordiale e sembra che tutti - ministri, Madre
Teresa, Missionarie della Carità arrivate in Armenia - si conoscano
da anni. Madre Teresa illustra con estrema semplicità ai suoi
interlocutori il motivo della sua presenza in Armenia, anche perché quasi
tutti non le nascondono la meraviglia di averla incontrata in un’area
martirizzata che, più che di suore, avrebbe bisogno di servizi tecnici,
squadre di specialisti, ospedali attrezzati per il pronto intervento. Per non
parlare poi della ricostruzione delle città danneggiate dal sisma, per le
quali la presenza di urbanisti e architetti sarebbe salutata come manna dal
cielo. “Come mai è arrivata qui, Madre?” Si sente chiedere la
suora durante i suoi colloqui. E lei, senza scomporsi: “Sono venuta qui,
insieme alle mie consorelle, per aiutare i poveri. Non ho portato né oro,
né argento, ma spero di offrire l’aiuto dei miei volontari nel
processo di assistenza e di riabilitazione che è stato messo in moto per
alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite dal terremoto”.
Dopo il colloquio con gli alti dirigenti sovietici ed armeni, a Madre
Teresa viene concesso il permesso di aprire una Casa di accoglienza dove
avrebbero operato quattro Missionarie della Carità e un sacerdote
cattolico: una novità storica per l’Armenia, un paese che da oltre
una settantina d’anni non aveva visto in attività nessuna
istituzione ecclesiale e religiosa cattolica. Anche questo può essere
additato come uno dei tanti “sogni impossibili” diventati
improvvisamente realtà grazie alla forza profetica di Madre Teresa di
Calcutta.
Malgrado la frenetica attività, i continui viaggi che la
portano a stare sempre in prima linea sul fronte della solidarietà, la
suora non può ignorare che il tempo passa e che per tutti - e
quindi anche per lei - il momento degli addii non si farà attendere
molto. A parte l’età e la stanchezza fisica, la suora sa che i
crescenti problemi di salute non le permetteranno a lungo di governare
adeguatamente una congregazione religiosa come la sua, diventata ormai una
realtà viva e attiva in tantissime parti del mondo.
Il tempo degli addii
Ad ottant’anni compiuti - questa
è l’età di Madre Teresa all’inizio degli anni Novanta
- la fondatrice delle Missionarie della Carità incomincia quindi a
pensare a come uscire di scena. In verità, anche in precedenza ci aveva
pensato più volte, specialmente quando gli acciacchi ed i problemi di
salute l’avevano costretta a stare forzatamente a letto. Ma sostituire una
personalità forte ed unica come Madre Teresa non è impresa da
poco, anche se va ricordato che lei non ha fatto mai nulla per apparire la
“padrona assoluta” della sua congregazione. Ma, avendola fondata ed
essendo diventata uno dei più importanti personaggi internazionali
- come del resto ha “certificato” l’Accademia di
Norvegia assegnandole il Premio Nobel per la pace - , per le sue
consorelle è un’impresa proibitiva individuare tra di loro chi
potrà sostituirla alla guida delle Missionarie della Carità. Il
problema si è posto, tecnicamente, ad ogni Capitolo generale della
congregazione convocato, a partire dagli anni Ottanta, per scegliere
democraticamente la nuova Madre Superiora secondo le regole sancite dalle
Costituzioni che prevedono al massimo un doppio mandato per una stessa
consorella al vertice dell’Ordine. Madre Teresa, fin dalla fondazione
della congregazione, è sempre rimasta lì, saldamente al suo posto
di guida, appoggiata entusiasticamente da tutte le missionarie e con la
benedizione vaticana. In via del tutto eccezionale è stata sempre eletta
per acclamazione anche dopo il secondo mandato.
Ma ad ottant’anni
compiuti e con una salute malferma, per la suora macedone il tempo di tirare i
classici remi in barca è ormai maturo. Madre Teresa, come ha fatto negli
ultimi anni in vista dei Capitoli generali dell’Ordine, anche
all’inizio del 1990 presenta le dimissioni alle autorità vaticane
chiedendo di essere sostituita. In passato tale richiesta era stata sempre
respinta dalla Curia pontificia: questa volta no.
Colpo di scena: Madre Teresa si dimette
Il colpo di scena arriva l’11 aprile
1990 quando la Santa Sede e il vertice della congregazione annunciano in un
comunicato congiunto che le dimissioni di Madre Teresa sono state accolte.
È uno choc per tutti: in primo luogo per la diretta interessata che
- pur essendo consapevole di non essere più in grado fisicamente di
sopportare il peso della gestione diretta dell’Ordine - non sa
immaginarsi in un ruolo diverso da quello fino ad allora svolto. Lo choc,
però, dura poco, perché, come vedremo, non sarà facile
individuare la suora che sarà chiamata ad assumere una pesante
eredità e che per forza di cose dovrà sempre misurarsi con la
storia di Madre Teresa di Calcutta.
Il nome della nuova Madre Superiora
dell’Ordine arriverà infatti solo dopo qualche anno. Anche se il
fisico di Madre Teresa non sarà più quello di prima e le malattie
la condizioneranno sempre di più. Uno dei momenti più drammatici
che tiene col fiato sospeso tutto il mondo si ha il 3 settembre 1989 -
pochi mesi prima l’accettazione da parte della Santa Sede della dimissioni
della suora - quando la Madre accusa forti dolori al cuore e allo stomaco,
ed è costretta ad un delicato ricovero nella clinica Woodlands di
Calcutta, dove lei stessa, convinta di essere ormai prossima alla morte,
chiederà l’unzione degli infermi. Tra i tanti messaggi che arrivano
alle Missionarie della Carità, particolarmente gradito è quello
inviato da Papa Giovanni Paolo II, sempre sollecito e attento a tutto
ciò che riguarda Madre Teresa. “Informato della sua improvvisa
malattia - scrive tra l’altro il pontefice nel suo messaggio -
le scrivo sollecitamente per assicurarle le mie preghiere e le sono
spiritualmente vicino. Affidandola all’intercessione della nostra
amatissima Madre, Maria, Aiuto dei malati, le impartisco la mia speciale
benedizione apostolica come segno di forza e di conforto nel Nostro Signore e
Salvatore Gesù Cristo”. Appena letto il messaggio, Madre Teresa
- pur essendo alle prese con i suoi dolori al petto e allo stomaco -
prende carta e penna e risponde con un altro messaggio altrettanto sentito e
pieno di calore verso il Santo Padre. “Santità - scrive tra
l’altro la suora - grazie per le sue parole e per la sua sollecita
benedizione; le offro, Santo Padre, tutti i miei sacrifici”. Tra gli altri
messaggi che arrivano al capezzale di Madre Teresa, quelli del presidente
dell’India R. Venkataraman e del primo ministro Rajiv Gandhi, che si
recherà anche a farle visita in ospedale. La suora sarà dimessa
dalla clinica dopo un intervento per il posizionamento di un pace-maker. Un
altro intervento simile sarà effettuato nel novembre 1989 in un secondo
ricovero ospedaliero. Dopo una lunga convalescenza, Madre Teresa sarà
dimessa finalmente a Natale e potrà far ritorno alla Casa Madre tra le
sue consorelle che festeggeranno le festività natalizie e di fine
d’anno con inni e lodi al Signore per aver permesso alla loro fondatrice
di lasciare l’ospedale sana e salva.
I due interventi al cuore
lasciano comunque il segno. Madre Teresa è la prima a rendersi conto di
non essere più in grado di continuare a guidare la navicella delle
Missionarie lungo le strade del mondo. Forte di questa convinzione e col cuore
gonfio di tristezza, in prossimità del Capitolo generale
dell’aprile del 1990 scrive una lettera-appello a tutte le sue consorelle
per invitarle a scegliere una nuova Superiora. La lettera è indirizzata a
tutte le componenti della congregazione, Missionarie della Carità,
Fratelli Missionari, Padri e Collaboratori. Come una autentica madre, la suora
Premio Nobel per la pace nel momento in cui annuncia il distacco pensa
principalmente a tutti i suoi figli. “Con questa mia - scrive Madre
Teresa - giungano ad ognuno di voi la mia preghiera e la mia benedizione,
nonché il mio amore e la mia gratitudine per tutto quello che siete stati
ed avete fatto in tutti questi quarant’anni, per condividere la gioia di
amarvi l’un l’altro e di amare i più poveri dei poveri. La
vostra presenza e l’opera che avete svolto in tutto il mondo per la gloria
di Dio e il bene dei poveri è stato un miracolo vivente ed operante
dell’amore di Dio e vostro. Dio ha mostrato la Propria grandezza usando la
nullità, e dunque restiamo sempre tali, una nullità, per dare a
Dio mano libera nell’usarci senza consultarci. Accettiamo qualsiasi cosa
che Egli ci dia, diamo qualsiasi cosa che Egli ci dia e qualsiasi cosa ci prenda
con un gran sorriso.
All’approssimarsi del Capitolo generale, il mio
cuore è pieno di gioia e di attesa delle cose meravigliose che Dio
farà tramite ognuno di voi se accettate con gioia la persona che il
Signore ha scelto perché sia vostra Superiora generale. Meravigliose sono
le vie del Signore se Gli permettiamo di usarci come Lui
vuole”.
La lettera spirituale alle consorelle
La lettera-appello - che da molti
sarà considerata come una sorta di lettera-testamento spirituale -
fa il giro di tutto il mondo tra le tante Case di accoglienza fondate dalle
Missionarie della Carità che all’inizio del decennio Novanta
ammontano a circa 3.100 sorelle professe, 454 sorelle novizie e 140 sorelle
candidate. Vista la grande domanda di ragazze disposte a prendere i voti,
noviziati nel frattempo sono sorti in Polonia, a Calcutta, Manila, Roma, S.
Francisco, Tabora (Tanzania) e New York, sede di un noviziato per contemplativi.
Complessivamente le missionarie di Madre Teresa al gennaio del 1990 reggono
circa 400 Case in 90 paesi. Non è da meno il ramo maschile della
congregazione, i Missionari della Carità, per i quali sono in funzione
noviziati a Calcutta, a Vaijayawada, nell’India meridionale, a Manila, a
Seul, Los Angeles e Manchester. I Fratelli della Carità hanno 380
religiosi professi presenti in 82 comunità distribuite in 26 paesi.
Quanto ai Collaboratori, agli inizi del 1990 ammontano a circa 3 milioni i
volontari che in vario modo danno una mano direttamente e indirettamente alle
Missionarie di Madre Teresa.
La prima a meravigliarsi di una simile
presenza intorno alla sua congregazione è proprio lei, la fondatrice
dell’Ordine, che proprio in vista del definitivo addio e nel momento di
lasciare finalmente le redini della responsabilità alla nuova Superiora
generale che prenderà il suo posto, lascerà scritto nel suo
supposto “testamento” spirituale un commento carico di
ringraziamento a Dio e di speranza per il futuro cammino delle missionarie tra i
poveri del mondo. Eccone un ampio stralcio: “Non credevo - confessa
la suora - che la nostra opera sarebbe cresciuta così in fretta o
che avrebbe raggiunto le dimensioni che ha raggiunto. Non ho mai avuto dubbi che
sarebbe vissuta, ma non pensavo in questa forma. Dubbi non ne ho mai avuti,
perché avevo in me questa convinzione che se Dio la benediceva sarebbe
prosperata. Umanamente parlando, sarebbe stato impossibile, questo è
fuori discussione, perché nessuno di noi aveva, né ha,
l’esperienza per farla prosperare. Nessuno di noi ha i requisiti che il
mondo richiede e ricerca. Questo è il miracolo di tutte le nostre piccole
Sorelle, e di tutta la gente che ci sostiene e cammina con noi in tutto il
mondo. Dio li usa, essi non sono che degli strumenti, semplici, nelle sue mani.
Ma sono convinti, anche loro. Sino a che ognuno di noi sarà convinto in
cuor suo, ce la faremo, tutti. E l’opera continuerà a
prosperare”.
Tutto pronto, quindi, per la definitiva uscita di scena
di Madre Teresa? Macché! Malgrado l’accorato appello della suora e
anche di fronte al placet del Vaticano emesso in merito alle dimissioni, il
Capitolo generale del settembre del 1990 non riesce ad esprimere il nome della
nuova Superiora generale. La situazione al vertice della congregazione resta
quindi forzatamente congelata, anche perché sono le stesse suore a non
voler accelerare più di tanto l’avvento del definitivo
pensionamento della Madre che continua, così, ad esercitare con grande
piacere il suo ruolo di guida dell’Ordine. E lo fa nel vero senso del
termine con la stessa energia e l’intatta originaria determinazione.
Passata la convalescenza e superata la crisi cardiaca, tra il 1990 e il 1991,
Madre Teresa riprende perciò a viaggiare e a fondare nuove Case per
poveri ed ammalati, nell’ex Unione Sovietica (due Case a Mosca, due in
Armenia ed una in Georgia), a Cuba (dove la presenza delle suore viene
raddoppiata col beneplacito di Fidel Castro), in Cecoslovacchia (due Case), in
Romania, dove vengono organizzate Case per curare bambini affetti
dall’Aids, e persino in Albania, a Tirana, dove apre due Case e una a
Shkodra attrezzata per accogliere bambini abbandonati perché affetti da
problemi mentali e handicap fisici. L’arrivo in Albania, la sua terra
d’origine, per Madre Teresa è particolarmente significativo. In
precedenza non le era stato mai concesso di aprire Case di accoglienza nelle
città albanesi a causa del duro veto imposto dalle leggi comuniste.
Grazie al crollo del regime, la situazione cambia e nei primi mesi del 1990
Madre Teresa può finalmente varcare i sospirati confini della patria e
ritornare nei suoi luoghi natii. Il primo colloquio avuto col presidente Ramiw
Alia è cordiale e, tutto sommato, molto formale. Alla richiesta della
Madre di voler aprire Case per i poveri albanesi, il presidente risponde che non
gli è permesso concedere placet in questo senso “perché
- le spiega - Madre, io non posso infrangere la legge”.
Evidentemente, anche se il vecchio regime comunista è stato abbattuto,
l’ordinamento legislativo in vigore nel paese è ancora quello
vecchio e non prevede che i privati - come sono suore, missionari e
sacerdoti - si interessino dell’assistenza dei poveri. Senza farsi
scoraggiare dalle parole del presidente, la suora gli risponde con un deciso
“allora, io per aiutare poveri, bisognosi e bambini ammalati sono pronta
ad infrangere la legge”. Di fronte a tanta ostinata abnegazione e sincera
volontà di dare effettivamente una mano ai problemi di povertà ed
abbandono in cui versa l’Albania, le autorizzazioni arrivano nel giro di
qualche giorno e la prima Casa delle Missionarie della Carità attivata
nella sua terra natia può essere inaugurata nel marzo del 1991.
Quell’appello a Bush e a Saddam
Durante gli ultimi giorni del 1990 il mondo
intero è col fiato sospeso per l’ormai imminente avvio della guerra
del Golfo tra le forze dell’Occidente - Usa in testa - e
l’Iraq di Saddam Hussein, in seguito alla forzata annessione del Kuwait da
parte del regime iracheno. Madre Teresa, come il Papa e come tanti altri
personaggi noti e meno noti, è in prima linea per scongiurare il
conflitto. Pur essendo alle prese con problemi di salute - proprio in questi
giorni la suora è colpita, tra l’altro, da una noiosissima tosse
che la debilita molto - e di successione al vertice della congregazione, nel
gennaio del 1991 per cercare di bloccare i venti di guerra provenienti dal Golfo
lancia - tramite lettera - un appassionato appello al presidente americano
George Bush e al leader iracheno Saddam Hussein, senza però ottenere
granché. È una lettera colma di carità e di passione
cristiana che Madre Teresa scrive di getto e che fa recapitare ai due presidenti
il 2 gennaio. Anche se il conflitto nel Golfo - come vedremo -
farà il suo corso, è doveroso ricordare lo sforzo fatto dalla
suora la cui lettera resta - al di là del risultato - un
autorevole manifesto contro tutte le forme di violenza, contro tutte le guerre,
contro ogni sentimento di sopraffazione e di annullamento di un uomo da parte di
un altro uomo. La suora la scrive per scongiurare il conflitto nel Golfo, ma
vale la pena leggerla, perché quelle parole non cesseranno mai di suonare
come monito ed esortazione per qualsiasi uomo di buona volontà che voglia
combattere con la sola forza delle parole gli istinti bellici di grandi e
piccoli signori della guerra.
La lettera viene scritta nell’ultimo
scorcio del 1990 e datata 2 gennaio 1991, quando tutto il mondo segue con il
fiato sospeso l’evolversi della critica situazione sorta tra l’Iraq
e quasi tutte le forze occidentali in seguito all’invasione del Kuwait da
parte dell’esercito iracheno. “Cari presidente Bush e presidente
Saddam Hussein - fin dall’esordio, il tono dello scritto è
quasi confidenziale, ed entrambi i leader politici sono posti sullo stesso piano
e trattati con analoga fraterna sollecitudine - mi rivolgo a voi con le
lacrime agli occhi e l’amore di Dio nel cuore per supplicarvi a nome dei
poveri e di coloro che diventeranno tali se scoppierà la guerra a cui
tutti guardiamo con paura e orrore. Vi supplico con tutto il cuore di prodigarvi
per la pace di Dio e per la vostra riconciliazione. Tutti e due avete le vostre
ragioni da far valere e il vostro popolo a cui badare, ma vi prego, prima, di
prestare ascolto a Colui che venne al mondo per insegnarci la pace. Voi avete il
potere e la forza di distruggere la presenza di Dio e la sua immagine. I Suoi
uomini, le Sue donne, i Suoi bambini. Vi prego, ascoltate la volontà di
Dio. Ci ha creati perché ci amassimo attraverso di Lui e non
perché ci distruggessimo con l’odio. È probabile che a breve
termine ci saranno vincitori e vinti in questa guerra a cui tutti guardiamo con
timore, ma nulla può, né potrà mai, giustificare le
sofferenze, il dolore e le perdite causate dalle vostre armi. Mi rivolgo a voi
nel nome di Dio, quel Dio che tutti amiamo e che è Uno solo, per
supplicarvi di risparmiare gli innocenti, i nostri poveri e quelli che
diventeranno tali a causa della guerra. Molti soffriranno in particolar modo
perché privi di vie di scampo. Vi prego in ginocchio per loro.
Soffriranno, e quando questo avverrà, sarà nostra la colpa per non
avere fatto tutto ciò che era in nostro potere per proteggerli e amarli.
Vi supplico per coloro che resteranno orfani, vedovi e soli perché i loro
genitori, i loro sposi, i loro fratelli e bambini saranno uccisi. Vi prego:
salvateli! Vi supplico per coloro che resteranno invalidi e sfigurati: sono
figli di Dio. Vi supplico per coloro che rimarranno senza casa, senza cibo e
senza amore. Vi prego, pensate a loro come ai vostri figli. In ultimo, vi
supplico per coloro a cui verrà tolto il dono più prezioso di Dio,
la vita. Vi imploro di salvare i nostri fratelli e le nostre sorelle, che ci
sono stati dati da Dio perché li amassimo e ne avessimo cura. Non
è per distruggerli che ci sono stati dati. Vi imploro, vi imploro, fate
che la vostra mente e la vostra volontà divengano la mente e la
volontà del Signore. Voi avete il potere di portare nel mondo la guerra o
di costruire la pace”.
Vi prego di scegliere la via della pace
“Io, le mie sorelle e i nostri poveri
preghiamo per voi. Il mondo intero prega perché apriate i vostri cuori
all’amore di Dio. Potete vincere la guerra, ma quale ne sarebbe il costo
in termini di vite umane, devastate, mutilate e annientate? Faccio appello a
voi, al vostro amore, al vostro amore per Dio e per il prossimo. Nel nome di Dio
e nel nome di coloro che renderete poveri, non distruggete la vita e la pace.
Fate invece che l’amore e la pace trionfino e che i vostri nomi vengano
ricordati per il bene che avrete fatto, per la gioia che avrete donato e
l’amore che avrete condiviso.
Pregate per me e per le mie sorelle
perché possiamo servire e amare i poveri che appartengono a Dio e da Lui
sono amati, così come noi e i nostri poveri preghiamo per voi. Preghiamo
affinché amiate e proteggiate ciò che Dio vi ha affidato con tanta
fiducia. Possa Dio benedirvi ora e sempre. Madre Teresa”.
Parole
profonde, dettate dal cuore e dall’animo che non producono i frutti
sperati, ma che lasciano ugualmente un segno. Come dimostra il fatto che dopo
qualche mese dall’invio della lettera, a Madre Teresa arriverà un
invito ufficiale da parte di Saddam Hussein ad aprire Case di accoglienza per
poveri e ammalati a Baghdad e in altre città irachene.
È un
invito che arriva al quartier generale delle Missionarie della Carità di
Calcutta insieme ad altri inviti assolutamente impensabili solo pochi mesi
prima: alle tre nuove Case aperte in Romania e in altri paesi dell’ex
Unione Sovietica, si uniscono le richieste avanzate per i poveri
dell’estremo Oriente. È la stessa Madre Teresa che lo fa sapere
alle sue più strette collaboratrici: “Proprio in questi giorni
è stata aperta una Casa in Cambogia e ci vogliono anche nel Vietnam,
oltre alle nuove richieste che arrivano dalla Romania e da Washington...e siamo
state invitate anche in Cina! È il Signore che ci sta aiutando, è
il Signore che ci chiama per recare aiuto e conforto in paesi così
lontani e dove gran parte della popolazione, oltre a soffrire i mali della
povertà più estrema, è costretta a patire le conseguenze di
anni di conflitti”.
La prima casa a Baghdad
Come succede con l’Iraq, dove è
molto probabile che la presenza delle Missionarie della Carità sia stata
caldeggiata dalle stesse autorità locali nella speranza che con la
presenza delle consorelle di Madre Teresa l’opera di risanamento delle
ferite della guerra del Golfo possa avere una più spedita accelerazione.
A Baghdad - dove le Missionarie organizzano subito Case di accoglienza e
unità mobili per curare i feriti sparsi nelle campagne - Madre
Teresa e il primo nucleo di suore scelte per restare in Iraq sono accolte con
calore ed entusiasmo dalle autorità civili e religiose. I ministri della
Sanità e degli Affari sociali le danno il benvenuto a nome del governo e
delle più alte autorità nazionali.
A Baghdad, il ministro
della Sanità, Mohammed Sai, le fa presente le critiche situazioni mediche
in cui versa gran parte della popolazione. Per cui chiede a Madre Teresa di
pensare principalmente ai bambini feriti, agli orfani e agli abbandonati. In un
primo momento le autorità mettono a disposizione della suora un elegante
edificio abbandonato nel centro della città. Ma Madre Teresa lo rifiuta:
come è suo costume lo giudica troppo di lusso. Alla fine accetta di
accasarsi in un vecchio convento domenicano abbandonato da anni. Con
l’aiuto di volontari e di alcune persone di buona volontà, lo
stabile viene subito ripulito e reso accogliente: e diventa così la prima
Casa delle Missionarie a Baghdad aperta per dare rifugio a orfani, bambini
mutilati e piccoli abbandonati.
Dimenticandosi completamente dei suoi
problemi di salute, specialmente di un cuore sempre più affaticato, Madre
Teresa in questi giorni iracheni vive come una seconda giovinezza: è
sempre in prima linea ad assistere, a dare indicazioni, a distribuire cibo,
medicinali, sorrisi e speranze. Cammina, instancabilmente, da mattina a sera,
tra i suoi assistiti, visita i poveri nelle loro case segnate dalla guerra,
dà agli altri tutte le sue energie. E per questo, durante una visita alla
città di Babilonia forse anche per il troppo caldo, avverte dei disturbi
ed è costretta a fermarsi per qualche giorno, tra la preoccupazione delle
sue consorelle.
Ma lei non si impressiona. Durante la sosta, decide di
passare il tempo scrivendo delle lettere nelle quali racconta alle altre
consorelle del gran lavoro assistenziale che stanno facendo tra i poveri
dell’Iraq. In una lettera si chiede, tra l’altro, “chi avrebbe
mai pensato che le Missionarie della Carità sarebbero venute in questi
luoghi a proclamare la Parola di Dio attraverso opere d’amore?”.
“Mai avrei pensato - aggiunge la suora in un’altra lettera
- che la nostra presenza in Iraq avrebbe dato così tanta gioia a
migliaia di persone colpite dal conflitto. C’è così tanta
sofferenza ovunque. Tra le nostre sorelle alcune conoscono l’arabo, per
cui non è poi molto difficile lavorare qui”.
Nei suoi scritti
da Baghdad non mancano riflessioni sulla guerra e sulle tante sofferenze che la
parte più debole della popolazione - i poveri tra i più
poveri - devono subire in conseguenza dei conflitti fratricidi.
“Guardavo le terribili sofferenze ed i frutti della guerra -
commenta ancora Madre Teresa in un’altra riflessione - e pensavo che
la stessa cosa può accadere a causa di parole e azioni dettate dalla
carità e che noi non distruggiamo edifici, ma il fulcro stesso
dell’amore, della pace e dell’unità, e in tal modo
distruggiamo il meraviglioso edificio della nostra società, costruita con
così tanto amore da nostro Signore. So che tutti amate la Madre e che
fareste qualsiasi cosa per mostrare il vostro amore e la vostra gratitudine. Non
vi chiedo che una cosa: siate dei veri Missionari della Carità, e saziate
in tal modo la sete di Gesù per l’amore delle anime, lavorando per
la salvezza e la santificazione della vostra comunità, della vostra
famiglia, dei poveri che servite. Preghiamo”.
In Iraq per alleviare le ferite della guerra
Anche le ferite della guerra diventano,
dunque, agli occhi della suora, motivo di analisi e di approfondimento per
l’opera missionaria della sua congregazione. Ieri i conflitti
mediorientali, oggi le piaghe causate dai bombardamenti sul Golfo. Domani,
chissà.... Pur sperando sempre di poter arrivare al giorno in cui la
parola guerra sia definitivamente bandita dalla faccia della terra, Madre Teresa
dall’eremo iracheno, dove è costretta a fermarsi per rimettersi
dalle troppe fatiche affrontate in quei giorni, non si stanca mai di incitare le
sue Missionarie della Carità a farsi carico delle vittime, dei feriti,
dei bambini ammalati o abbandonati.
Tutto questo, mentre le sue condizioni
fisiche diventano ogni giorno sempre più precarie. Il 26 dicembre 1991,
durante una permanenza a Los Angeles dove inaugura un’altra Casa, ha una
nuova crisi e durante il ricovero i sanitari le diagnosticano una forte
polmonite da batteri in conseguenza della quale accusa anche un nuovo infarto.
In seguito viene ricoverata in un ospedale di San Diego, in California, per
essere sottoposta ad un intervento di angioplastica alle coronarie ostruite dopo
l’infarto. Resta in clinica circa 3 settimane, durante le quali, mentre
è sotto la tenda dell’ossigeno, riceve tantissimi messaggi di
auguri da personaggi noti e meno noti. Il Papa le telefona per farle gli auguri
e per impartirle la sua benedizione apostolica per una pronta guarigione.
Passano una ventina di giorni e la suora viene dimessa
dall’ospedale.
Apparentemente sembra essere in ripresa, ma è
debole e non è più in grado di affrontare lunghi viaggi. Prima di
far ritorno a Calcutta trascorre, infatti, un periodo di convalescenza a Roma a
partire dal febbraio 1992. Ma è una convalescenza apparente: durante la
permanenza a Roma collabora attivamente con le sue consorelle per far decollare
la nuova Casa “Dono di Maria” in Vaticano. I romani, con il suo
primo cittadino, il sindaco Francesco Rutelli, ne sono commossi e per questo
incominciano ad accarezzare l’idea di nominarla cittadina onoraria di
Roma. L’idea si concretizzerà - e a furor di popolo, vale a
dire con il sì di tutte le forze politiche presenti in Campidoglio
- quattro anni dopo, il 21 maggio 1996, nella storica cornice
dell’aula Giulio Cesare.
La visita di Lady D
Verso la fine di febbraio 1992, Madre Teresa
dovrebbe far ritorno a Calcutta dove ha, tra l’altro, un appuntamento con
la sua amica Diana di Inghilterra, la quale - allarmata per le notizie
rimbalzate nel Regno Unito sui suoi recenti ricoveri-- vuole vederla di
persona per sincerarsi delle sue condizioni di salute. Ma è troppo stanca
e debilitata e deve rinunciare al viaggio. La principessa vola ugualmente a
Calcutta dove è accolta nella Casa Madre con grande gioia dalle altre
consorelle. Nel viaggio di ritorno in Inghilterra Lady D, il 19 febbraio, fa una
breve sosta a Roma, nell’Istituto della Missionarie della Carità
sulla Casilina, dove ha finalmente modo di trascorrere un po’ di tempo
accanto a Madre Teresa. L’incontro è strettamente riservato: la
suora e Lady D si intrattengono prima nella Casa, lontane da occhi ed orecchie
indiscreti. Quasi certamente la principessa ha modo di sapere dalla diretta
interessata del suo stato di salute. Dopo la chiacchierata a quattr’occhi,
la principessa viene festeggiata nel giardino dalle 40 missionarie della Casa,
che le appendono al collo una ghirlanda di garza rosa e le mostrano uno
striscione con la scritta “Benvenuta, carissima principessa”.
L’incontro termina con un momento di preghiera che la principessa Diana e
Madre Teresa condividono nella cappella dell’istituto: cinque intensissimi
minuti trascorsi con le mani giunte, in ginocchio e senza scarpe davanti alla
statua della Madonna. Alla fine i saluti, baci e abbracci e la promessa
reciproca di rivedersi “presto”. E infatti, la principessa e la
suora si incontreranno di nuovo il 9 settembre 1992, nella Casa delle
Missionarie della Carità di Kilburn, a Londra. Sembra che l’invito
questa volta sia stato fatto dalla suora, preoccupata, a sua volta, del
difficile momento che la principessa Diana sta vivendo a livello familiare.
L’esito dell’incontro non sarà reso
pubblico.
Una nuova caduta
La suora non riferirà mai a nessuno
la natura dei colloqui avuti con Lady D, anche se non sono pochi i giornali che
sostengono che la frequenza degli incontri tra la principessa e la suora Premio
Nobel per la pace sia da mettere in relazione alla crisi coniugale esplosa tra
Diana e il principe Carlo. Ma si tratterà solo di supposizioni. Per
mettere fine a queste illazioni, dalla Casa Madre di Calcutta, Madre Teresa
farà emettere un comunicato di smentita destinato alla stampa
internazionale sulla quale erano apparse notizie circa una presunta critica
della suora nei confronti del principe Carlo di Inghilterra.
Alla vigilia
di una nuova serie di viaggi in Nord Europa, altra caduta, questa volta durante
una sosta a Roma, dove Madre Teresa scivola in bagno e si frattura tre costole.
Breve ricovero ospedaliero, breve convalescenza e, a sorpresa, di nuovo in
Inghilterra a fondare una nuova Casa di accoglienza e in Irlanda a parlare a un
convegno internazionale sull’aborto, organizzato dal Movimento per la
vita. Malgrado gli acciacchi, traditi anche da un tono di voce affaticato e a
tratti lento, nel suo intervento ancora una volta scende apertamente in campo in
difesa della vita nascente fin dal primo concepimento, richiamando
all’ordine credenti, non credenti e le stesse autorità irlandesi.
“La vita è il più grande dono che Dio ha fatto
all’uomo e per nessuna ragione al mondo deve essere soppressa.
Impegniamoci seriamente - raccomanda la suora - per fare in modo che
in questo splendido paese che è l’Irlanda non ci siano bambini non
desiderati, promettiamo alla nostra Signora, che tanto ama l’Irlanda, che
non ci sarà più un solo aborto in questo paese. Promettiamo che
non ci saranno più divorzi”.
Dopo Dublino, fa altre tappe a
Belfast e a Edimburgo, in Scozia; a giugno apre a Londra una nuova Casa di 35
stanze destinate ai poveri senza fissa dimora a St. George Road, a Southwark. In
occasione dell’inaugurazione, Madre Teresa trova anche il tempo di fare
una nuova visita alla principessa Diana nella residenza di quest’ultima, a
Kensington Palace. Conclude la sosta nel Regno Unito con un incontro con gli
studenti di Oxford dove - benché visibilmente affaticata -
parla per quasi tre quarti d’ora e risponde anche ad una serie di domande.
Al termine della conferenza, lascia a piedi l’Università e durante
il percorso viene quasi travolta da centinaia di persone che vogliono toccarla,
chiederle come sta, farle festa. Lei risponde a tutti, ringrazia, distribuisce
sorrisi e strette di mano, senza riuscire a nascondere il suo cattivo stato di
salute. Tutti notano che soffre e che cammina a fatica, e per questo vogliono
vederla da vicino, forse spinti da un’inconscia forma di timore che non ci
potrà essere un’altra volta.
Conclusa la visita in
Inghilterra, ritorna in India e nell’agosto del 1993, mentre si trova a
Delhi, invitata dalle autorità locali che le vogliono conferire un altro
importante riconoscimento, viene nuovamente ricoverata per congestione polmonare
e dispnea in seguito ad un attacco di malaria. Durante il ricovero, i medici la
strappano ancora una volta dalla morte intervenendo sull’aorta ostruita.
Altra lunga convalescenza ed altra miracolosa ripresa, anche se ormai appare fin
troppo evidente che Madre Teresa non è più in grado di guidare
come Superiora generale una grande famiglia come le Missionarie della
Carità.
Madre Teresa non vuole gettare la spugna
Lei naturalmente non vuole gettare la
spugna. Ad ogni ricaduta, ad ogni ricovero risponde sempre con una immediata
sorprendente ripresa, pur rendendosi conto che ormai non può più
fare affidamento sulle energie di un tempo.
Forse, temendo anche lei
qualche brutta sorpresa dal suo malconcio organismo, il 30 settembre 1993 scrive
una lunga lettera a tutti i Collaboratori dell’Ordine, quasi a voler
lasciare loro dotazione le sue ultime volontà. Il passo è dettato
anche dalle preoccupate notizie che, negli ultimi tempi, le arrivano in merito a
un certo clima di crisi che è andato via via maturando tra i vari rami
della congregazione, specialmente nelle sedi fondate nella lontana periferia. In
altri tempi, Madre Teresa sarebbe intervenuta in prima persona, si sarebbe
recata lei stessa a parlare con gli interessati con visite improvvise: avrebbe,
in sostanza, affrontato a viso aperto qualsiasi problema e, certamente, lo
avrebbe risolto con la sua tradizionale determinazione. Ma ora non può
più farlo, a 83 anni compiuti in ospedale e con un fisico che spesso e
volentieri è chiamato a fare i conti con ricadute, interventi chirurgici,
acciacchi vari, giramenti di testa, memoria sempre più precaria, Madre
Teresa deve “accontentarsi” di scrivere una lettera-appello, nella
quale riesce tuttavia a delineare, punto per punto, la strada futura lungo la
quale i Collaboratori dovranno incamminarsi per restare fedeli al carisma delle
Missionarie della Carità. Anche questa è una lettera che merita
essere ricordata per il suo alto significato morale e per la concretezza
operativa che, ancora una volta, è possibile cogliere dalle parole di
Madre Teresa: è il documento di un leader che, invece di pensare ai
propri malanni, tenta disperatamente di far sentire la sua materna voce ai tanti
figli disseminati nel mondo, in particolar modo a quelli che magari vivono
momenti di incertezza e hanno quindi bisogno di sentire il richiamo della
vecchia madre. “Volevo raccogliere tutti voi a Calcutta - è
l’inizio della lettera - per dire ciò che ho nel cuore in
merito ai miei Collaboratori. Adesso non è possibile. Che la benedizione
del Signore sia con tutti voi e vi aiuti ad accettare questa mia decisione presa
dopo molte preghiere, pene, sofferenze. Sono molto grata per lo splendido lavoro
fatto da ciascuno di voi. Questi 25 anni sono stati meravigliosi per Dio. Voglio
ringraziare in particolare tra voi quelli che erano con me fin
dall’inizio, in particolare la signora Ann Blaikie. Gesù disse
‘l’hai fatto a me’, la tua ricompensa sarà grande nei
cieli”.
“Cari Collaboratori - continua Madre Teresa
- per mantenere il vostro spirito di Collaboratori, dovrete soltanto
rimanere in stretto contatto con le Missionarie della Carità e tra di
voi, ovunque voi siate. Voglio che lavoriate con le Sorelle, Fratelli e Padri,
direttamente, facendo quel lavoro umile che comincia nelle vostre case,
quartieri, parrocchie, città; e ove non ci sono Missionarie della
Carità voglio che lavoriate nello stesso spirito ovunque voi vi
troviate.
È questo ciò che trasformerà il mondo. Se
pregate, Dio vi darà un cuore puro, il cuore puro può vedere il
volto di Dio nel povero che servite. Adesso che i tempi sono cambiati e le
Sorelle sono in 105 paesi nel mondo non abbiamo bisogno dei Collaboratori come
una organizzazione con consiglio di amministrazione, funzionari, collegamenti e
conti bancari. Non voglio che si spenda denaro per bollettini o viaggi di
Collaboratori. Se vedete qualcuno raccogliere danaro a mio nome, impediteglielo:
in ogni caso tutto il danaro datovi per Madre Teresa o per le Missionarie della
Carità deve immediatamente ed interamente essere dato alle Missionarie
della Carità.
Rispettando queste tre regole apparterrete alla
famiglia delle Missionarie della Carità e sarete Collaboratori di Madre
Teresa. Ma io non voglio che i Collaboratori continuino ad esistere in quanto
organizzazione. Ho scritto a tutti i vescovi del mondo che io ho preso questa
decisione. Rimaniamo uniti nel cuore di Gesù attraverso Maria come
famiglia spirituale. Il mio dono è quello di permettervi di condividere
con noi il lavoro di Dio, di portare l’amore di Dio nello spirito della
preghiera e del sacrificio. Mi appello a voi ancora una volta. Siate ciò
che la Madre vi chiede di essere in ogni paese e città: semplici
Collaboratori che aiutano le Sorelle a portare Gesù ai poveri. Avrete la
mia benedizione e la mia più profonda gratitudine se farete ciò
che chiedo. Cerchiamo di essere tutti un cuore pieno di amore nel cuore di
Gesù, pieno di amore per Maria e attraverso il cuore immacolato di Maria,
fonte della nostra gioia. Ripetiamo: Maria Madre di Gesù, che tu sia
anche Madre nostra. Ognuno di voi è nelle mie preghiere quotidiane. Che
siamo tutti un cuore pieno di amore, preghiamo”.
Di nuovo operata
Leggendo queste parole appare fin troppo
evidente la grande forza d’animo di Madre Teresa, una donna che anche di
fronte al male riesce a combattere fino in fondo, non si perde d’animo
mai, e anche se avverte che le forze ormai incominciano a farle difetto sente
nel più profondo della sua anima la responsabilità di far giungere
la sua voce a tutti i Collaboratori.
È quasi una lotta contro il
tempo: da una parte gli incalzanti problemi di gestione di un ramo
dell’ordine i cui membri mal sopporterebbero di diventare dall’oggi
al domani orfani della loro fondatrice; dall’altra l’opera
destabilizzante degli acciacchi che tornano a farsi sentire il 17 settembre 1993
con un nuovo intervento chirurgico. Questa volta i chirurghi devono intervenire
per inserirle nell’aorta un catetere. Ancora una volta tutto il mondo si
ferma alla notizia della nuova operazione. Tra i tanti messaggi che arrivano al
suo capezzale, il più sollecito e tempestivo, come sempre, è
quello di Giovanni Paolo II che la benedice e le fa gli auguri di una
“pronta ripresa perché, cara Madre, il mondo intero ha bisogno di
Lei”.
Parole profetiche quelle di papa Wojtyla: nel giro di qualche
settimana, Madre Teresa è di nuovo in piedi e qualcuno incomincia a
parlare di lei come di un autentico miracolo vivente. Lascia l’ospedale e,
per di più, senza dare il minimo ascolto ai medici curanti, riprende a
viaggiare verso mete nemmeno tanto vicine. Alla fine di ottobre 1993 sbarca
infatti in Cina per tentare di aprire, a Shanghai, una Casa per i poveri. Il
mese dopo è di nuovo a Roma per prendere parte ad una celebrazione di
professione di fede di un gruppo di consorelle; poi va in Polonia e dal 3
febbraio 1994 eccola di nuovo negli Usa, a Washington, per prendere parte alla
“Colazione nazionale di preghiera”, il tradizionale incontro annuale
che si svolge all’Hotel Hilton alla presenza delle personalità
più rappresentative degli Usa e del presidente Bill Clinton accompagnato
dalla moglie Hillary. Nel suo intervento, a sorpresa, Madre Teresa affronta il
delicato tema dell’aborto, una materia che da tempo tiene vivo il
dibattito politico americano, spaccato tra chi si batte per mettere
definitivamente fuori legge chi interrompe volontariamente la gravidanza e chi
- come la coppia Clinton - non respinge aprioristicamente una
legislazione che regolamenti la materia. Incurante di equilibri politici e
sensibilità diplomatiche, Madre Teresa apre la delicata parentesi
sull’aborto e va direttamente al cuore del problema: “Vorrei che
partisse da qui - esorta la suora - un segno di aiuto al più
debole dei deboli, il bambino non nato. L’aborto oggi è il grande
nemico della pace, perché è una guerra contro il bambino, la
diretta uccisione di un bambino innocente, assassinato dalla stessa madre. Se
accettiamo che una madre possa uccidere il proprio figlio - sostiene la
suora, ripetendo uno dei suoi concetti-denuncia a lei più cari -
come possiamo dire agli altri di non uccidersi l’un l’altro? In
India ho salvato dall’aborto più di 3.000 bambini”. Infine,
rivolgendosi simbolicamente a tutte le mamme in procinto di abortire, lancia un
appassionato appello: “Non uccidete quel bambino, datelo a me, lo voglio
io, sono pronta a prendere qualsiasi bambino e a darlo a una coppia
sposata”. Un grande applauso segna la conclusione del discorso di Madre
Teresa, al quale la coppia Clinton si unisce solo con un sorriso di circostanza.
Malgrado le differenze di vedute, Hillary Clinton stringe subito amicizia con la
suora, con la quale - pur non essendo completamente in sintonia in materia
di interruzione volontaria della gravidanza - pianifica un progetto di
adozioni a distanza per bambini poveri. L’amicizia tra le due donne si
consolida ulteriormente l’anno successivo, quando Hillary Clinton e la
figlia visiteranno per alcuni giorni le Case di accoglienza delle Missionarie
della Carità di Nuova Delhi.
Il sogno impossibile di aprire una
nuova Casa in Cina si riaffaccia nel marzo del 1994 quando - sempre
disattendendo i consigli dei medici curanti che vorrebbero che non si
affaticasse più come ai vecchi tempi - vola a Shanghai su invito
del vescovo locale e a Beijing dove si incontra con i responsabili
dell’assistenza ai bambini portatori di handicap: l’idea è di
aprire quanto prima un centro di accoglienza per questi piccoli. Ma, malgrado la
buona volontà dell’anziana suora, malgrado la sua forte
determinazione nel voler dare quanto prima una risposta di carità alla
parte della popolazione cinese più debole e indifesa, e malgrado ancora
le tante promesse fatte dai dirigenti locali, il progetto non si
concretizzerà.
“Teresa, angelo dell’inferno”
La prima metà degli anni Novanta non
è contrassegnata solo da viaggi o da problemi di salute. In particolare
dal 1992 al 1994, Madre Teresa torna ad essere fatta oggetto di numerose
premiazioni e riconoscimenti di altissimo prestigio. Più o meno nello
stesso periodo in cui sulla stampa inglese vengono pubblicati una serie di
reportages e qualche libro dai quali traspare una certa critica al suo modo di
fare assistenza. C’è persino qualcuno che la definisce piuttosto
sbrigativamente “Angelo dell’inferno”, accusandola, tra
l’altro, di essere una sorta di braccio armato del Vaticano e della Chiesa
cattolica in generale sul fronte delle povertà più estreme, dove
andrebbe a caccia di conversioni forzate. Accuse velenose e risibili alle quali
Madre Teresa reagisce mediante l’unico modo possibile con cui può
reagire una autentica figlia della Chiesa, perdonando i suoi denigratori.
“Possa Dio perdonarlo - dice infatti un giorno la suora commentando
le accuse formulate nei suoi confronti da un giornalista della tv inglese
- perché non sa quello che sta facendo. Pregate affinché
quest’uomo capisca ciò che ha fatto, perché Gesù ha
detto che qualsiasi cosa facciate alla persona meno importante, la farete a
Lui”.
In compenso, in questi anni le critiche vengono
sistematicamente sommerse da una lunga serie di riconoscimenti internazionali:
nell’agosto del 1992 le viene assegnato a New York il “Knights of
St. Columbus Gaudium et Spes”, accompagnato da un altro premio in danaro
(52 mila sterline) conferitole dal cardinale John O’Connor. Non è
da meno l’altro riconoscimento, ricevuto nello stesso mese di agosto,
quando il Royal College of Surgeons islandese la nomina proprio membro onorario.
Nel successivo mese di dicembre 1992, riceve dall’agenzia culturale Unesco
delle Nazioni Unite il premio per l’educazione alla pace con la seguente
motivazione: “Per aver coronato una vita consacrata al servizio dei
poveri, alla promozione della pace, alla lotta contro le ingiustizie
ricevute”. Il premio consiste in un assegno di 50 mila dollari che Madre
Teresa destina immediatamente alla costruzione di una nuova Casa per portatori
di handicap in una località alla periferia di Calcutta.
Ancora premi e riconoscimenti
Passa appena una manciata di giorni e nel
gennaio del 1993 arriva per Madre Teresa un altro riconoscimento pontificio, il
premio “Ecclesia et Pontefice” per la sua attività accanto ai
poveri tra i più poveri e per la sua appassionata opera a favore della
pace, secondo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù
Cristo.
Premi, professioni di voti solenni da parte delle sua consorelle,
apertura di nuove Case di accoglienza: non passa giorno che sul tavolo di Madre
Teresa non arrivi un invito, non le sia segnalato un caso, un problema. Lei
risponde a tutti, ha per ogni domanda, anche la più piccola e
apparentemente insignificante, una risposta, un suggerimento. Quando può,
raccoglie le sue residue forze e va, anche se deve sfidare un equilibrio che
diventa ogni giorno più precario e che la porta sovente incontro a cadute
accidentali perfino durante le ore di riposo. Come succede, ad esempio, in India
nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile 1996 quando cade improvvisamente
dal letto e si frattura una clavicola. Altra corsa in ospedale attraverso il
traffico caotico di Calcutta, altro ricovero e altra convalescenza forzata.
Madre Teresa ricoverata nell'ospedale di Calcutta alla fine del 1996Ma la sosta dura poco. Appena si riprende, vola a Roma, negli Usa
e in Irlanda, dove si sloga una caviglia cadendo da uno scalino che non aveva
visto. Per qualche giorno è costretta a muoversi servendosi di una sedia
a rotelle. Ritorna di nuovo a Calcutta, dopo aver fatto tappa, ancora una volta,
a Roma e in Gran Bretagna. A Calcutta, nuova ricaduta: il 23 agosto viene
ricoverata di nuovo e per diversi giorni è tenuta in vita attraverso un
respiratore artificiale nella clinica Woodlands Nursing Home. Ancora una volta
il mondo trema. Potenti della terra, capi di Stato e anonimi uomini della strada
le si stringono idealmente intorno. Ancora una volta la Casa Madre di Calcutta
è presa d’assalto da fotoreporter, giornalisti e da un mare di
messaggi augurali, tra i quali spiccano quelli del Papa e della principessa
Diana. Giovanni Paolo II telefona personalmente al vescovo di Calcutta per
esprimere i suoi auguri di pronta guarigione. Anche Lady D, non potendo recarsi
in India, invia un suo appassionato messaggio. “Calcutta prega mentre
Madre Teresa lotta per la vita”, titola a tutta pagina il quotidiano
indiano “The Telegraph”. Dello stesso tenore i servizi di tutti gli
altri mass media nazionali ed internazionali. Il dottor S.K. Sen, direttore
della clinica Woodlands Nursing Home e membro dell’équipe medica
che segue da anni la Madre, afferma che la missionaria “ha dimostrato una
grande forza per la sua età, 86 anni”, che la suora compirà
martedì prossimo. “Abbiamo sospeso i preparativi per i
festeggiamenti - fanno sapere le Missionarie della Carità - e
ci siamo dedicate alla preghiera per una pronta guarigione della
Madre”.
Dopo tre giorni di crisi, con febbre alta, respirazione
forzata e bollettini medici allarmanti, ecco l’ennesimo miracolo: la suora
si riprende e subito chiede di poter far ritorno a casa. Dopo una serie di
analisi e di cure forzatamente imposte dai medici - tra cui una tac con la
quale verrà individuata una macchia al cervello - il 25 settembre
1996 Madre Teresa esce dall’ospedale.
Il rientro a casa è
come al solito festoso. Il fatto che la suora non possa camminare più
come un tempo, per le sue consorelle conta, apparentemente, poco.
L’importante è averla di nuovo in mezzo a loro. E c’è
da dire che il calore delle consorelle diventa per lei un efficace toccasana. Si
riprende ancora una volta, giusto il tempo di concedere qualche intervista,
dedicata al suo stato di salute, e di assistere ai preparativi del nuovo
Capitolo generale della congregazione in programma per il 7 ottobre e dal quale
dovrà essere eletta la religiosa che prenderà il suo posto come
nuova Superiora delle Missionarie della Carità. Questa volta dal Capitolo
dovrà uscire necessariamente un nome, contrariamente a quanto avvenne sei
anni prima quando un analogo Capitolo non fu in grado di indicare chi doveva
sostituire Madre Teresa al vertice della congregazione. Questa volta non ci
potranno essere tentennamenti, anche perché le condizioni di salute della
fondatrice non promettono nulla di buono. Ed infatti il 22 novembre successivo,
dovrà essere ricoverata di nuovo in seguito ad una serie di fortissimi
dolori al petto provocati da un arresto cardiaco. Appena pochi giorni prima del
nuovo ricovero, i più importanti giornali del mondo avevano fatto a gara
per intervistarla. In una intervista, rilasciata a Tiziano Terzani per il
Corriere della Sera - forse una delle ultime volte che la Madre fondatrice
delle Missionarie della Carità affida lucidamente il suo pensiero ad un
giornalista - fa un po’ il punto della sua vita di missionaria e
dichiara di sentirsi “pronta” a una eventuale nuova chiamata del
Signore. Al giornalista che, con fare bonariamente provocatorio, le chiede se
dopo tanti anni di attività missionaria per caso avesse qualche dubbio
sulle cose fatte, risponde decisa: “Come si possono avere dubbi su quel
che si fa? Il lavoro fin qui fatto è tutta opera Sua...”: è
dunque tutta opera di Dio. Ad un’altra domanda scomoda circa la pretesa
delle Missionarie della Carità di dare più peso alle preghiere che
alle medicine per alleviare i dolori e le malattie, risponde con altrettanta
decisione: “Sì, non siamo delle infermiere, non siamo delle
assistenti sociali, siamo delle suore. E i nostri centri non sono degli ospedali
in cui la gente viene curata, sono Case in cui la gente che nessuno vuole viene
amata”.
Altra domanda “impertinente” imperniata, questa
volta, su un’affermazione fatta un giorno dalla stessa Madre Teresa in
merito a Galileo: “Lei, Madre - le ricorda Terzani -, un
giorno ha affermato che se ci fosse ancora da scegliere tra la Chiesa e lo
scienziato pisano, sceglierebbe la Chiesa: non è questo un rifiuto della
scienza che è oggi la grande fede dell’Occidente?”. Per
niente intimidita, la suora risponde così: “Allora, perché
l’Occidente lascia morire la gente per le strade? Perché?
Perché tocca a noi a Washington, a New York, in tutte queste grandi
città aprire dei posti per dar da mangiare ai poveri. Diamo cibo,
vestiti, rifugio, ma soprattutto diamo amore, perché sentirsi rifiutati
da tutti, sentirsi non amati è ancora peggio che aver fame e freddo.
Questa è oggi la grande malattia del mondo. Anche di quello
occidentale”.
“Se una madre uccide il figlio...”
Nella stessa intervista, torna a condannare
severamente ancora una volta l’aborto, definito drasticamente “il
male”. “Se una madre - lamenta la suora Premio Nobel per la
pace - è capace di uccidere il proprio figlio, che cosa impedisce a
noi di scannarci l’uno con l’altro? Niente!”. Quanto alle
cause della povertà, Madre Teresa spiega che è tutta colpa
dell’uomo: “Dio - è il suo ragionamento - ha
creato noi e noi abbiamo creato la povertà. Il problema si
risolverà solo quando noi avremo rinunziato alla nostra
ingordigia”. Nell’intervista si parla anche del futuro delle
Missionarie della Carità: “È tutto nelle mani di Dio”,
spiega la Madre, “e per questo non mi preoccupo: Lui provvederà,
Lui ha scelto me e allo stesso modo sceglierà qualcuno che
continuerà il lavoro”. Infine, la morte: “Non ho paura di
morire, perché dovrei ? - confessa candidamente la suora - Ho
visto tantissima gente morire e nessuno attorno a me è morto male”.
Queste parole fanno un po’ da sfondo all’ennesimo ricovero
ospedaliero di Madre Teresa, che resta confinata in una stanza al primo piano
del centro di ricerca Birla di Calcutta, specializzato in malattie cardiache. La
nuova degenza dura fino al 19 dicembre 1996, giorno in cui fa nuovamente ritorno
a casa giusto in tempo per partecipare alle festività natalizie, le
ultime della sua vita terrena. Ma non ci saranno per lei grandi festeggiamenti
perché sarà costretta a stare a letto a causa di una serie di
forti dolori alla schiena. Durante le settimane trascorse in ospedale, dove
è stata sottoposta ad un intervento di angioplastica, ha comunque
ugualmente potuto “dialogare” col mondo esterno rilasciando, in via
del tutto eccezionale, una intervista ad un altro giornalista italiano, Gabriele
Romagnoli del quotidiano “La Stampa”. La Madre, con sorprendente
lucidità, risponde a tutte le domande del cronista manifestando un forte
desiderio di ritornare subito al lavoro (“Voglio ritornare tra i miei
poveri”) e un attaccamento alla vita difficilmente riscontrabile in
ammalati reduci da una lunga serie di interventi chirurgici come lei.
“Madre, come sta?” Le chiede in apertura di intervista il
giornalista della “Stampa”. “Meglio - risponde la suora
- sono pronta a lasciare l’ospedale, ma i medici non sono pronti a
lasciarmi andare. Li ho ringraziati per quello che hanno fatto, Dio
renderà loro merito per aver curato un loro simile, ma è tempo che
io riprenda il mio posto e il mio servizio”. “I medici mi hanno
convinto - continua la suora spiegando perché abbia accettato di
sottoporsi alle cure - che solo così avrei potuto tornare alla mia
opera. Se mi trovo qui, ora, è perché la Provvidenza mi ci ha
condotto. Ogni cristiano segue il suo calvario. Non sono io l’artefice del
mio destino. Quello che adesso chiedo nelle mie preghiere è che possa
tornare al più presto dove mi trovavo prima, tra i poveri e gli
agonizzanti”. Nel parlare, poi, della vita e della morte, di quanti hanno
perso la vita tra le sue braccia ed il “privilegio” di continuare a
vivere, la suora risponde: “La vita è, deve essere, sacrificio,
perché la mia vita è sacrificio, perché chiunque abbia
incontrato la sofferenza può continuare serenamente il cammino solo se si
dedica ad alleviarla. Non c’è altra regola per dare un senso
all’esistenza che questa: sacrificio, sacrificio, sacrificio. È
questa la capacità che il mondo moderno ha perduto, è questa la
via per trovare in se stessi il conforto, per non smarrirsi. Solo una esistenza
dedicata agli altri, al Dio che si incarna in ognuno di loro, può dare la
pace. A quelli che pregano per me io dico grazie, ma dico di ricordarsi, prima
ancora, di rivolgere le loro suppliche in favore dei più poveri tra i
poveri. Ringrazio i medici che mi stanno curando, ma vorrei potessero farlo per
ciascuno dei miei assistiti, che ognuno di loro potesse uscire di qui e andare a
visitare almeno uno dei bisognosi di Calcutta prima di venire da me”.
Come nella precedente intervista al “Corriere”, in questa
nuova intervista non si mostra per niente impressionata dall’idea della
morte. “Essa, la morte, verrà - conclude Madre Teresa -
quando il mio compito sarà terminato, quando l’esempio sarà
dato. So che sarà così, che la Provvidenza saprà valutare e
allora non posso che attendere serenamente”.
Il definitivo addio
Il desiderio di ritornare dalle sue
consorelle espresso nell’intervista alla “Stampa”, come
abbiamo visto, viene pienamente esaudito: Madre Teresa ritorna a casa e
può trascorrere, pur afflitta da dolori alla schiena e con un cuore che
perde sempre più colpi, insieme alle sue consorelle il suo ultimo Natale.
Subito dopo le festività, di fronte a una ripresa fisica che tarda ad
arrivare, il suo diretto superiore, l’arcivescovo di Calcutta, monsignor
Henry D’Souza, annuncia che la Madre non potrà essere più la
Superiora delle Missionarie della Carità. È un annuncio storico,
doloroso, che nessuno avrebbe mai voluto né dare, né ascoltare.
Continuare a far finta di niente, ragiona l’arcivescovo, sarebbe stato
pericoloso per la diretta interessata e per la stessa sopravvivenza della
congregazione. L’arcivescovo si rivolge direttamente alle suore elettrici
per ricordare che questa volta non si dovrà ripetere la storia del 1990,
quando di fronte alle dimissioni annunciate da Madre Teresa, il Capitolo non fu
in grado di esprimere il nome della sua sostituta e la situazione al vertice
dell’Ordine fu come congelata. Malgrado i problemi di salute ed i
frequenti ricoveri, l’anziana fondatrice fu quasi costretta a riprendere
in mano le redini dell’Ordine. E va pure detto che lei lo fece con
entusiasmo e senza risparmio. Questa volta non sarà più possibile
ripetere un fatto del genere: Madre Teresa - ricorda l’arcivescovo
- ha dedicato tutta la sua vita ai poveri ed ora merita un giusto riposo.
Il suo fisico non è più in grado di reggere l’enorme peso
legato alla carica di Superiora generale dell’Ordine. Oltre
all’esortazione dell’arcivescovo di Calcutta, alle suore capitolari
arriva anche un messaggio di Papa Giovanni Paolo II che invita le religiose
“a lasciarsi guidare dalla volontà di Dio nelle loro
decisioni”. È forse il segnale definitivo che Madre Teresa deve
necessariamente essere sostituita da una consorella più giovane. La
scelta, come si vedrà, non sarà delle più semplici. In
primo luogo, le delegate (123 religiose elettrici in rappresentanza di circa
4.000 Missionarie della Carità presenti in 600 Case distribuite in 122
paesi) fanno fatica ad immaginare la loro congregazione priva della guida della
loro fondatrice. Per molte di esse Madre Teresa significa automaticamente
Missionarie della Carità, ma significa anche Madre, amica, consigliera,
confidente, persona in grado di coniugare azione e preghiera, teoria e pratica,
il tutto regolato da un amore infinito verso i poveri tra i più poveri;
la congregazione senza Madre Teresa - temono in molti - sarà
destinata a diventare un’altra cosa. A questa realtà va aggiunto,
poi, il grande carisma che da sempre circonda il nome della suora Premio Nobel
per la pace: chiunque sarà chiamata a prendere il suo posto dovrà,
inevitabilmente, misurarsi con una personalità tanto forte, autorevole e
complessa come è Madre Teresa. Altre ragioni che impediscono alle
delegate capitolari di esprimersi con scioltezza vanno ricercate nel cuore di
ciascuna di loro, dove da sempre alberga un sentimento immenso e indistruttibile
per la loro Madre fondatrice: per molte delegate è sufficiente averla
ancora al vertice della congregazione anche senza l’energia di un tempo;
altre si contentano di vederla così com’è, a letto, su una
sedia a rotelle, ma rifiutano istintivamente di immaginarla lontana dalla
congregazione. Ragioni del cuore e dell’istinto che, però, devono
arrendersi di fronte alla legge del tempo: a 87 anni e con un fisico ferito da
acciacchi e interventi chirurgici, Madre Teresa deve per forza maggiore essere
sostituita.
L’avvento di suor Nirmala
Dopo mesi e mesi di indecisione, il gran
giorno arriva. Il nome della suora chiamata a sostituire al vertice della
congregazione l’antica fondatrice viene reso noto il 13 marzo 1997, un
giovedì: il voto espresso all’unanimità dalle 123 delegate
sancisce che la nuova Superiora generale delle Missionarie della Carità
chiamata a succedere a Madre Teresa è suor Mary Nirmala Joshi, una
sessantatreenne nepalese a lungo responsabile del ramo contemplativo della
congregazione. L’elezione a guida delle Missionarie la raggiunge mentre
è a letto alle prese con una noiosa febbre di origine malarica. Solo un
piccolo contrattempo che non scalfisce minimamente la gioia - sua e di
tutte le altre consorelle - scaturita dall’avvenuta nomina. Nessuno
saprà con esattezza cosa in cuor suo suor Nirmala pensi al momento di
accettare l’importante incarico. Stando ai racconti delle sue consorelle,
che in quei giorni di forzata degenza l’accudiscono, appena viene
informata dell’esito dell’elezione il suo primo pensiero è di
ringraziamento a Dio, subito seguito da un’espressione di filiale affetto
per Madre Teresa (“La nostra dolce Madre, sarà sempre per tutte noi
guida e punto di riferimento irrinunciabile”) e una fraterna richiesta
rivolta alle consorelle: “Se pregherete per me, il Signore farà
sì che io svolga un buon lavoro sull’esempio della nostra Madre
fondatrice per l’aiuto ai poveri tra i più poveri, i derelitti, gli
abbandonati”.
Ma chi è veramente suor Nirmala? Chi è
questa suora sulle cui spalle all’improvviso cade tutto il peso di
un’eredità così importante e delicata? Con che stato
d’animo accetta di succedere ad un personaggio come Madre Teresa di
Calcutta, con la cui ombra dovrà, necessariamente, misurarsi per tutto il
resto della sua vita?
Suor Nirmala è nata il 23 luglio 1934 a
Duranda, in India, nei pressi della città di Ranchi, nello Stato di
Bihar, da una famiglia induista originaria del Nepal appartenente alla
più illustre casta indiana, quella sacerdotale dei bramini. Il suo vero
nome è Kusum, che significa “fiore”: è la primogenita
di dieci fratelli, di cui otto maschi. Malgrado la fortissima identità
religiosa della famiglia d’origine, si converte al cattolicesimo nel 1958,
all’età di 24 anni.
Suor NirmalaCome
tutte le consorelle che accettano di servire i poveri, entrando nella grande
famiglia delle Missionarie della Carità, suor Nirmala ha fatto sempre
della discrezione e della riservatezza uno dei tratti caratteristici della sua
vita di religiosa. Di lei si è sempre saputo poco, al di là
dell’importante ruolo svolto per anni come responsabile del ramo
contemplativo della congregazione. È una suora, quindi, abituata ad una
vita strettamente riservata, fatta di preghiere, meditazione, studi della parola
di Dio. Il padre - un militare di carriera - era un nepalese ed
aveva sposato un donna indiana. Da bambina, la futura Superiora generale delle
Missionarie della Carità viene perciò allevata nella fede
indù, la conversione al cristianesimo arriverà dopo. A causa degli
impegni di lavoro del padre, spostato in continuazione da una città
all’altra per motivi di servizio, Nirmala passa i primi anni della sua
vita in frequenti viaggi. Ha studiato a Patna, nel locale corso di scuola
superiore, ma quando incontra Madre Teresa, su indicazione di
quest’ultima, va a completare gli studi all’Università di
Calcutta dove consegue la laurea in Giurisprudenza. Insieme ad un’altra
sorella si converte al cattolicesimo, mentre tutto il resto della famiglia resta
legato alla fede indù. Professati i voti solenni nelle Missionarie della
Carità, per tanto tempo è stata l’ombra fedele di Madre
Teresa, accompagnandola in tanti viaggi all’estero, specialmente quando
l’anziana fondatrice dell’ordine incomincia ad accusare il peso
degli anni e delle malattie.
Madre Teresa benedice suor Nirmala
Tra le sue consorelle è stata sempre
vista con affetto e simpatia, anche per quel suo modo di fare discreto e mai
prevaricante, tipico delle religiose claustrali, anche se per lei sarebbe
sbagliato parlare di clausura o di vita strettamente monastica. La sua
caratteristica vincente è il carattere e le sue qualità umane sono
in prevalenza improntate a umiltà, lealtà, compassione per gli
altri, specialmente per i più deboli. La nuova Superiora generale delle
Missionarie della Carità è, inoltre, dotata di una qualità
che la rende ulteriormente simpatica agli occhi delle sue consorelle: è
una persona che parla poco e ascolta molto. La riservatezza ed il rispetto per
gli altri l’hanno sempre fortemente contraddistinta a tal punto da non
essere mai stata inserita tra le possibili “candidate” alla
successione di Madre Teresa. La sua elezione - sancita per di più
all’unanimità - viene salutata con entusiasmo da parte di
tutti i componenti della congregazione, sia laici che religiosi, che non
disdegnano di leggere questa sua nomina al vertice dell’ordine come un
indecifrabile “segno” divino.
La prima a benedire
l’elezione di suor Nirmala è Madre Teresa che, dopo il Capitolo e
spogliata definitivamente del peso della carica di Superiora generale,
incomincia a dare sorprendenti segni di ripresa. Per tutte le sue consorelle
sarà sempre la insostituibile Madre, ma il peso della gestione
dell’Ordine dal 13 marzo 1997 cadrà definitivamente sulle spalle di
Suor Nirmala, la quale - pur essendo una religiosa contemplativa -
appena insediata al vertice della congregazione fa subito capire di essere
dotata di un carattere forte e deciso. Per una fortuita coincidenza, nella sua
prima uscita pubblica da Superiora generale dà l’impressione di non
essere in sintonia con i desideri di Madre Teresa, la quale spera che
l’“esordio” della nuova responsabile della congregazione possa
coincidere con un importante viaggio in Cina. Suor Nirmala, invece di puntare
subito verso la Cina sceglie il caldo sole dell’Africa. Non è un
atto di disubbidienza: è solo un caso legato alle enormi
difficoltà che in genere comporta organizzare una visita in Cina e alla
necessità di visitare una nuova Casa delle Missionarie della
Carità aperta a Nairobi. Al suo arrivo, la neo Superiora
dell’Ordine viene accolta con tutti gli onori dovuti da parte delle
autorità e con grande calore. Appena mette piede nella nuova sede delle
Missionarie, in tanti la salutano chiamandola Madre. Un sacerdote termina il suo
indirizzo di saluto dicendo “Madre Nirmala, benvenuta a Nairobi e in
Africa”. A lei, però, non piace essere oggetto di tanta attenzione.
In particolare, non le piace quell’appellativo di “Madre”
appiccicato al suo nome di battesimo. “Cari fratelli, care consorelle, per
favore - si schermisce la religiosa appena ha la possibilità di
prendere la parola per ricambiare il saluto di benvenuto - chiamatemi solo
sorella perché noi abbiamo solo una Madre, Madre Teresa. È lei la
nostra guida materna, il nostro esempio, solo lei deve essere chiamata Madre da
tutti i suoi figli. Grazie a lei, io sono una vostra sorella e mi piace essere
sempre chiamata così”.
L’esordio pubblico di suor
Nirmala, grazie anche alla sua spontanea sincerità, fa subito breccia nei
cuori di tutto quel variopinto mondo di missionarie, missionari, volontari,
collaboratori, laici che gira intorno alla congregazione. E Madre Teresa ne
è felice. Col passare dei giorni si sente più rilassata. Gli
acciacchi si fanno sempre più leggeri. Riprende a camminare, a leggere, a
scrivere lettere e a vivere i normali ritmi della vita conventuale. Si sente
apparentemente guarita e perciò - anche senza il peso della carica
di Superiora generale - incomincia a fare quello che ha sempre fatto negli
anni precedenti: viaggiare, visitare le sedi periferiche, parlare alle
consorelle, incontrare grandi personaggi, anonimi questuanti, poveri bisognosi
di vederla da vicino e di sentire la sua parola. I medici le chiedono di
soprassedere, di non affaticarsi perché il cuore ormai non è
più in grado di sopportare ulteriori stress; la schiena, poi, è
sempre più curva e la vista non è delle migliori. Niente da
fare.
Gli ultimi viaggi di Madre Teresa
Con l’approssimarsi della seconda
metà del 1997, Madre Teresa sente di dover riprendere il cammino per il
mondo. È come se una misteriosa forza interna le dicesse di fare presto,
di muoversi, di non perdere tempo. Non sa, Madre Teresa, che quella forza
interna la sta spingendo verso l’ultima breve stagione di viaggi con la
quale concluderà la sua grande avventura terrena.
Ecco quindi che il
16 maggio arriva di nuovo a Roma per assistere alla professione di fede di un
gruppo di consorelle. Dopo la celebrazione, accompagnata da suor Nirmala, va
naturalmente in Vaticano dal suo amico Papa Wojtyla. I due non lo sanno, ma sono
gli ultimi momenti che trascorreranno insieme.
Papa Wojtyla saluta Madre Teresa al termine di una celebrazione nella Basilica di S. PietroMadre Teresa, alla vista del pontefice, si sente ulteriormente
spinta a guardare al futuro: non pensa come una persona anziana di 87 anni, alle
prese con delicati problemi di salute. I due, tra le tante cose che si dicono,
abbozzano un progetto con cui poter aiutare le tante ragazze costrette alla
prostituzione lungo le strade di Roma e persino nei pressi del Vaticano.
È un progetto ambizioso che Madre Teresa non potrà portare a
termine. In quei giorni, inoltre, pur avendo ripreso a camminare, ha bisogno di
essere sottoposta frequentemente a respirazione artificiale - in
determinati periodi anche tre volte al giorno - ; eppure non vuole
fermarsi. Vorrebbe recarsi in Polonia, ma i medici non glielo permettono. Riesce
però a partire per gli Usa dove il Congresso americano la onora con una
medaglia d’oro per i suoi “notevoli e costanti contributi - si
legge nella motivazione - alle attività umanitarie e
caritatevoli”. Ormai tutto il mondo sa delle sue precarie condizioni di
salute e spesso si diffondono, improvvisamente, voci su suoi presunti ricoveri.
Cosa che puntualmente avviene anche durante la sua ultima visita a New York,
nella sede della Missionarie della Carità del Bronx. Ma come in passato,
anche questa volta è lei che smentisce tutti quando appare alle porte
della Casa del Bronx mano nella mano con la principessa Diana di Inghilterra che
- allarmata dalle voci sulla sua salute - si è precipitata
negli Stati Uniti per starle vicino. Le due donne si mostrano felici e
sorridenti, e non si sottraggono agli assalti dei fotografi. La principessa
Diana la guarda con passione e filiale affetto: si vede che quando è
insieme a Madre Teresa si sente felice, è diversa, e sembra persino aver
dimenticato i gravi problemi familiari che la tormentano da anni. Le due donne
prima di lasciarsi, si abbracciano davanti alla porta della Casa, si stringono
la mano, Madre Teresa fa un cenno di benedizione. Dopo di che Lady D va via. Non
sanno che non si vedranno mai più perché un tragico destino nel
giro di qualche settimana le rapirà entrambe, accomunandole nel loro
ultimo cammino nell’aldilà: la principessa alla fine di agosto, in
seguito ad un incidente stradale a Parigi; Madre Teresa - come vedremo
- in un letto dell’ospedale di Calcutta il 5 settembre
1997.
L’ultimo pensiero per Lady Diana
Conclusa la visita negli Usa, ritorna in
India, dove circondata dall’affetto delle sue consorelle il 27 agosto
festeggia l’ottantasettesimo compleanno, mentre le notizie sul suo stato
di salute incominciano a diventare di nuovo preoccupanti. Ma la felicità
del compleanno sarà presto offuscata dalla terribile notizia della
tragica morte di Lady D. La notizia arriva a Calcutta mentre Madre Teresa
è alle prese con un ulteriore aggravamento del suo stato di salute: non
per questo si sottrae all’invito rivoltole dalla stampa a tracciare un
breve ricordo della principessa scomparsa. “Eravamo amiche -
commenta con gli occhi colmi di lacrime in una breve dichiarazione ripresa dalle
televisioni di tutto il mondo - la principessa nutriva un grande amore per
i poveri, per i bisognosi, per i bambini abbandonati, per le vittime di tutte le
guerre, e questo suo amore ci univa tanto. Pregherò per lei in modo
speciale”. Queste parole saranno trasmesse dalle tv di tutto il mondo e
sarà l’ultima volta che Madre Teresa parlerà in pubblico.
Colpisce il fatto che l’ultimo pensiero pubblico espresso dalla suora
Premio Nobel per la pace, dalla religiosa paladina dei diritti dei poveri tra i
più poveri, sia stato dedicato alla principessa Diana, la quale -
stando a quanto si saprà in seguito - sarà collocata nella
sua bara con avvolta alle mani una corona del Rosario che le era stata regalata
da Madre Teresa durante uno dei tanti precedenti incontri. Segni indecifrabili,
coincidenze, misteri: come altrettanto misteriosa è la coincidenza della
data della morte della stessa Madre Teresa, il 5 settembre 1997, la vigilia dei
solenni funerali di Lady D. Gli ultimi giorni di vita della suora non sono dei
più tranquilli. Tutto il mondo si ferma, giorno dopo giorno, ad ascoltare
i bollettini medici dell’ospedale di Calcutta. Tutti sperano che anche
questa volta ce la faccia a superare la crisi. Ma non sarà
così.
Madre Teresa durante il suo ultimo ricovero ospedaliero
La morte della Madre e il dolore di papa Wojtyla
La notizia che nessuno al mondo -
credenti e non credenti - avrebbero voluto mai ascoltare si diffonde da
Calcutta all’alba del 5 settembre 1997: quando i medici annunciano che
Madre Teresa è morta nel corso della notte stroncata da un attacco
cardiaco. La morte - fanno sapere sanitari, missionarie e collaboratori
- ha sorpreso la suora Premio Nobel per la pace mentre si stava preparando
a pronunciare (ironia della sorte) una orazione funebre, la mattina seguente, in
suffragio della sua amica, la principessa Diana, in concomitanza della
celebrazione dei funerali in programma a Londra. La notizia della tragica
scomparsa dell’amica principessa l’ha sconvolta. Per molti versi, il
dispiacere di aver perso un’amica in maniera così crudele e
drammatica in alcuni momenti fa dimenticare a Madre Teresa i suoi problemi di
salute. La sera del 4 settembre, il pensiero della suora è tutto rivolto
alla commemorazione di Lady D che avrebbe dovuto tenere il mattino seguente. Ma
non ce la farà: durante la notte, per un singolare disegno del destino,
Madre Teresa raggiungerà nell’aldilà la sua amica
principessa.
Eppure durante la serata precedente la morte le condizioni
generali sembravano, tutto sommato, in ripresa. Prima di andare a letto, Madre
Teresa aveva infatti cenato. Le erano stati serviti una zuppa e un toast, che
lei aveva consumato senza eccessivi problemi. Aveva, inoltre, recitato le
preghiere e chiacchierato brevemente con chi le era vicino. A qualcuno aveva
confessato che il persistente dolore alla schiena le dava più fastidio
del solito, ma che era certa che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi,
come già avvenuto in precedenza.
Dopo qualche ora, la morte, in
maniera quasi inaspettata, dopo una brevissima agonia contrassegnata da un
respiro diventato via via sempre più affannoso. Madre Teresa china
leggermente il capo sul cuscino, tenta di dire ancora qualche parola. Prima
dell’ultimo respiro chi le è vicino riesce a captare la sua ultima
frase, “Non riesco più a respirare”, dopodiché Madre
Teresa chiude gli occhi per addormentarsi serenamente. E non si sveglierà
mai più.
Stando al bollettino medico finale emesso per certificare
l’avvenuta morte, la fondatrice della Missionarie della Carità non
è stata in grado di superare l’ultima grave crisi cardiaca a causa
di un “acuto mal funzionamento del ventricolo sinistro”.
Senza
soffermarsi molto a cercare di capire tutti gli aspetti legati alla fredda
spiegazione scientifica dei medici curanti, le sue consorelle, appena appresa la
notizia della morte, escono dal convento di Calcutta ed annunciano ai presenti
- una grande folla di poveri, curiosi, giornalisti e fotoreporter -
che la Madre non c’è più. Un mesto tocco della campanella
posta all’ingresso della Casa accompagna l’annuncio.
Tra le
primissime reazioni raccolte tra la gente assiepata davanti al convento, quella
di una donna sintetizza, simbolicamente, i sentimenti con cui la notizia viene
accolta tra gli strati più umili e poveri della città:
“Madre Teresa è morta, non è più in mezzo a noi:
è una perdita irreparabile. L’India oggi ha davvero perso sua
madre”.
Papa Wojtyla - immediatamente informato -
è tra i primi a raccogliersi in preghiera appena si diffonde la notizia
della morte della donna che resterà consegnata per sempre alla storia
come la Madre di tutti i poveri. La sala stampa della Santa Sede fa
immediatamente sapere che il Santo Padre si è chiuso nella sua cappella
privata nella residenza estiva di Castel Gandolfo per pregare per l’anima
della fondatrice delle Missionarie della Carità. Nel primo comunicato, il
Vaticano parla di “profondo dolore del Santo Padre per la perdita di Madre
Teresa” e di “grande commozione”. In attesa della
commemorazione pubblica che Giovanni Paolo II farà il giorno successivo,
a Calcutta giungono i messaggi di cordoglio di tutti i potenti della terra,
compresi quelli di esponenti di altre religioni, di vescovi e cardinali. Per
l’arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, “Madre
Teresa era una donna di Dio che segnava la presenza della Chiesa presso i poveri
e gli emarginati. Il suo grande carisma ha trascinato molti e trascinerà
ancora a vedere e contemplare i segni di Dio in ogni uomo, anche nel più
povero”. Da Londra, il cardinale Basil Hume, primate della Chiesa
cattolica di Inghilterra e del Galles, parla di Madre Teresa e ricorda la
principessa Diana, sottolineando la “coincidenza” di due lutti che
ha legato fino alla fine due amiche e due personaggi amati dal pubblico,
specialmente dalle fasce sociali più popolari. “È piacevole
pensare - commenta il cardinale inglese - che Madre Teresa, che era
in grande amicizia con la principessa Diana, sia andata così presto a
unirsi a lei”. Entrambe, nota il primate Hume, “in modi diversi si
sono prodigate a favore delle persone bisognose”.
Sulla stessa
lunghezza d’onda del primate cattolico inglese, il commento “a
caldo” dell’arcivescovo anglicano di Canterbury, George Carey,
secondo il quale “Madre Teresa è stata una vera e ispirata
servitrice del Vangelo di Gesù Cristo. La sua influenza è andata
oltre la tradizione cristiana e ha toccato i cuori di tutto il mondo”. Per
l’arcivescovo Carey, la più alta personalità della Chiesa
anglicana, “in Madre Teresa una profonda e forte spiritualità si
combinava con l’applicazione pratica della fede. Sono sicuro che queste
sono le qualità che hanno indotto la principessa Diana e altri a
dimostrarle un così grande affetto”.
Superato il comprensibile
momento di smarrimento iniziale, misto a dolore, provato all’arrivo in
Vaticano della notizia della morte di Madre Teresa, il Papa alla preghiera
dell’Angelus di domenica 7 settembre torna a ricordare in pubblico
l’amica scomparsa. Le parole di Wojtyla sono colme di affetto e
riconoscenza per la grande testimonianza di umana carità che la suora ha
saputo dare nel corso di tutta la sua vita. La commemorazione papale fa
immediatamente il giro del mondo, mentre a Calcutta, davanti alla Casa Madre
delle Missionarie della Carità migliaia e migliaia di persone
ordinatamente portano l’estremo saluto alla salma della suora prima dei
solenni funerali di Stato ai quali è prevista la presenza di quasi tutti
i più importanti uomini di Stato, compreso il presidente della Repubblica
italiana Oscar Luigi Scalfaro e, in rappresentanza di Giovanni Paolo II, il
cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato della Santa Sede.
All’Angelus il tributo di Giovanni Paolo II
“Mi è caro ricordare in questo
momento di preghiera - rammenta Papa Wojtyla nell’Angelus del 7
settembre - la carissima sorella Madre Teresa di Calcutta, un esempio
eloquente per tutti, credenti e non credenti. Molte volte ho avuto modo di
incontrarla ed è viva nella mia memoria la sua figura minuta, piegata da
un’esistenza trascorsa al servizio dei più poveri tra i poveri, ma
sempre carica di un’inesauribile energia interiore: l’energia
dell’amore di Cristo. Madre Teresa - continua Papa Wojtyla -
ci lascia la testimonianza dell’amore di Dio che, da lei accolto, ne ha
trasformato la vita in un dono totale ai fratelli” visti da lei “nei
poveri, negli abbandonati, nei moribondi”. Il Santo Padre si sofferma
anche sulla celebre frase, “servire i poveri tra i più
poveri”, coniata da Madre Teresa all’inizio della sua avventura
missionaria e diventata una sorta di eloquente epitaffio di tutta la sua
congregazione: “Lei serviva i poveri tra i più poveri per servire
la vita: Madre Teresa non perdeva occasione per sottolineare in ogni modo
l’amore per la vita. Sapeva per esperienza che la vita acquista tutto il
suo valore, pur in mezzo a difficoltà e contraddizioni, quando incontra
l’amore”.
“Missionaria della Carità -
continua il Papa - questa è stata Madre Teresa, Missionaria della
Carità di nome e di fatto, offrendo un esempio così trascinante da
attirare a sé molte persone disposte a lasciare tutto per servire Cristo,
presente nei poveri. E seguendo il Vangelo si è fatta ‘Buon
Samaritano’ di ogni persona che ha incontrato, d’ogni esistenza in
crisi, sofferente e disprezzata. Nel grande cuore di Madre Teresa un posto
speciale era riservato alla famiglia, ed anche per questo amava insegnare che
‘una famiglia che prega è una famiglia felice’. Ancora oggi
le parole di questa indimenticabile Madre dei poveri mantengono intatti la sua
forza e il suo insegnamento. Ringrazio Dio per averci dato questa donna”.
“Ringraziamo Dio per il dono di Madre Teresa”
Papa Wojtyla conclude la sua commemorazione,
rinnovando lo stesso ringraziamento al Signore “per averci donato una
donna come Madre Teresa” che appena 24 ore prima aveva pronunziato davanti
ad una folla di circa 6.000 volontari della sofferenza riuniti a un meeting al
Palaghiaccio di Marino. Inutile negare che dalle parole di Giovanni Paolo II
traspare con forza una Madre Teresa già potenzialmente venerata come una
santa, la santa dei poveri del 2000, anche se per arrivare a tanto la Chiesa
anche per lei avrà necessariamente bisogno dei suoi tempi tecnici
così come sono scanditi dalle regole del Codice di Diritto Canonico alla
voce “beatificazione”. Sarà comunque lo stesso Papa Wojtyla,
a pochi mesi dalla morte della suora, ad autorizzare con quasi 5 anni di
anticipo - con un’iniziativa senza precedenti -
l’insediamento del tribunale diocesano per l’avvio della discussione
della causa di beatificazione di Madre Teresa. Secondo le norme ecclesiali, un
processo di beatificazione può essere avviato solo dopo i primi 5 anni
dalla morte del futuro possibile beato. Per la fondatrice delle Missionarie
della Carità, Giovanni Paolo II deciderà diversamente,
“accorciando” di fatto la fase processuale di ben 5 anni, forse
nella speranza di poter elevare la missionaria dei poveri agli onori degli
altari nella cornice dell’anno giubilare del 2000.
Se i cristiani
piangono e se tra i cattolici - a poche ore dalla morte - già
si parla di Madre Teresa in termini di venerazione, anche tra gli esponenti
delle altre religioni la commozione è grande. Particolarmente colpiti
sono gli ebrei italiani, che la ricordano con affetto e riconoscenza con il
rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Elio Toaff, con Tullia Zevi,
presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e membro
dell’Unione delle comunità europee. Per tutti, il giorno dopo la
scomparsa parla Giuseppe Laras, rabbino capo della comunità ebraica di
Milano e docente di filosofia ebraica all’Università Statale.
“Madre Teresa - ricorda Laras in una intervista al “Corriere
della Sera” - è sempre stata una figura che mi ha commosso e
che ho ammirato. Perché ha scelto di vivere la sua vita per gli altri, in
contesti molto difficili. E di fronte ad una situazione di egoismo violento,
quale è spesso quella del nostro mondo contemporaneo, lei ha
rappresentato la risposta opposta, di riferimento davvero rivoluzionario. Quando
ricevette il Premio Nobel per la pace, non mi capitò di dire a me stesso,
come talvolta mi era capitato e mi capita: beh, forse c’era qualcun altro
che quel premio lo meritava di più”. Per il rabbino Laras, Madre
Teresa è stata un esempio mirabile di carità e di convivenza
religiosa, e tiene a restare fuori dal piccolo coro di quanti qualche volta
l’hanno accusata di “proselitismo forzato” tra i poveri.
“Madre Teresa - commenta il rabbino - è stata una
figura bella, uno stimolo e un riferimento per tutti coloro che vogliono
spendersi nella socialità, un esempio da emulare nel campo della
carità umana. Dunque, una figura che interessa tutti: cristiani, ebrei,
musulmani, buddisti...”. È del tutto fuori luogo, afferma ancora
Laras, parlare di “proselitismi forzati”, o di “imperialismo
culturale”: “Sono parole grosse: io non ho mai notato in Madre
Teresa cose del genere. Non ho mai notato che nella vita e nell’opera di
Madre Teresa vi fosse una strumentalizzazione in termini di religiosità.
Questo non esclude che altri abbiano cercato di strumentalizzarla, o che lei
stessa, come può accadere a ciascuno di noi, abbia potuto farlo senza
rendersene conto. Ma la verità che resta è che questa donna ha
seminato carità senza particolari interessi di parte, al di là
della religione a cui apparteneva, e anche al di là di ogni eventuale
tentativo di strumentalizzazione”.
Dello stesso tenore i tributi di
altri leader religiosi: da parte di tutti l’ammissione unanime di aver
visto in Madre Teresa di Calcutta un’alta personalità cattolica
priva di qualsiasi voglia di proselitismo, un tributo non da poco in
un’epoca quasi sempre pronta a farsi tentare da divisioni e scontri
ideologici.
L’omaggio dei potenti
Anche il mondo politico internazionale si
china davanti alla morte della missionaria. “Mi mancano le parole per
esprimere il mio dolore per la scomparsa di un’apostola per la pace e
dell’amore”, dice il primo ministro indiano Indar Kumar Gujral, che
aggiunge sconsolato: “L’India piange, Madre Teresa non è
più con noi. Il mondo e specialmente l’India oggi sono più
poveri. La sua vita è stata dedicata a portare amore, pace e gioia alla
gente della quale generalmente ci si dimentica”. Per gli italiani, parla
il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Di fronte a un mondo
dove ancora la violenza, l’odio razziale ed etnico esplodono facendo
innumerevoli vittime innocenti, la figura della piccola grande suora, che ha
consumato la vita per i più abbandonati, i reietti, i senza nome, i senza
vita, risalta come vincitrice per aver vissuto fino alla consumazione della
legge eterna dell’amore. Una vita, quella di Madre Teresa - conclude
Scalfaro - totalmente occupata dagli altri, dai più miseri, per i
quali è stata una grande speranza e un incredibile
conforto”.
Anche il governo italiano esprime il suo cordoglio con il
presidente del Consiglio Romano Prodi: “Colpito e commosso, certo di
rappresentare i sentimenti dell’intero popolo italiano, in questo momento
- dichiara Prodi in una nota emessa da Palazzo Chigi - non posso che
ricordare di Madre Teresa il suo luminoso esempio di amore per il prossimo e di
vivente carità”. Per Roma, che aveva nominato Madre Teresa sua
cittadina onoraria, parla il sindaco Francesco Rutelli: “Porto sempre con
me questa catenina che lei mi ha donato”, dichiara “a caldo” a
chi gli chiede un commento sulla scomparsa della missionaria. Rutelli, oltre ai
suoi ricordi personali, rammenta quanto grande sia il legame che unisce Madre
Teresa e le Missionarie della Carità alla città di Roma, “la
quale non a caso ha voluta onorarla come una sua
concittadina”.
Commozione e ricordi anche dall’altra parte
dell’Atlantico, con il presidente americano Bill Clinton che, appena
informato della morte di Madre Teresa, rammenta i loro diversi incontri, le
tante Case di accoglienza da lei fondate in America, per concludere affermando
che era semplicemente “una persona eccezionale”. Il premier inglese
Tony Blair, nell’esprimere il suo cordoglio, ricorda anche lo stretto
legame di amicizia che legava Madre Teresa e Lady D. “In una settimana
già caratterizzata dalla tragica scomparsa della principessa Diana, il
mondo è rattristato per la morte di una delle sue più
compassionevoli servitrici. Madre Teresa - ricorda ancora Tony Blair
- ha dedicato la vita ai poveri e il suo spirito continuerà a
vivere come ispirazione per tutti noi”.
La morte della missionaria
Premio Nobel per la pace fa fermare anche una manifestazione internazionale come
la Mostra del Cinema di Venezia, che le dedica una serata e un lungo
appassionato applauso. La sua figura viene ricordata, in particolare, dal
produttore cinematografico di origine indiana Ismail Merchant, nel corso di una
serata del festival dedicata al tema dell’indipendenza dell’India.
“La sua vita - spiega Merchant - è stata una fonte di
grandissima gioia. Noi tutti pregheremo per la sua anima come lei ha sempre
pregato per tutti noi”.
La poesia di Ernesto
All’omaggio dei grandi, va affiancato
il tenero ricordo dei piccoli, degli umili e degli indifesi. C’è
persino chi, spinto dal dolore, invece di lasciarsi travolgere dalle lacrime si
arma di carta e penna per scrivere poesie e pensieri in lode di Madre Teresa.
Uno che trova nella scomparsa della missionaria dei poveri un’originale
fonte di ispirazione poetica è Ernesto Oliviero, fondatore del Sermig di
Torino, una struttura di accoglienza e di solidarietà che per molti versi
si avvicina allo spirito caritativo e umanitario delle Missionarie della
Carità.
Appena arriva a Torino la notizia della morte di Madre
Teresa, Oliviero, dopo una personale preghiera di suffragio, si chiude in camera
e compone di getto una poesia sulla suora dal titolo “L’ultimo
vuoto” che presentiamo qui di seguito:
“Dio ha creato
tutto
ma ha lasciato dei vuoti
affinché l’immaginazione
degli uomini
potesse riempirli
con la creatività
con il
donarsi agli altri
senza sosta.
E con il
tempo
Francesco-Caterina,
Ignazio-Mozart
Dostoevskij...
Hanno
riempito i vuoti
Che abbiamo conosciuto
Vuoti pieni di musica,
Di
poesia, di arte
Di invenzioni
Di santità.
L’ultimo
vuoto
È il nome di Madre Teresa”.
I solenni funerali
Sono veramente tanti i commenti “a
caldo” che arrivano a Calcutta appena si diffonde nel mondo la notizia
della scomparsa della fondatrice delle Missionarie della Carità. Su
tutti, però, emerge il rimpianto e l’omaggio di migliaia e migliaia
di anonimi visitatori che si accalcano davanti alla Casa Madre di Calcutta nella
speranza di poter vedere anche per un attimo solo “The Mother”. Le
autorità indiane - che hanno subito ordinato l’esposizione
della bandiera a mezz’asta su tutto il territorio nazionale in segno di
lutto - d’accordo con la Superiora generale dell’Ordine, suor
Nirmala, decidono di esporre il corpo della suora per un’intera settimana
nella chiesa di S. Tommaso in modo da permettere al maggior numero possibile di
persone di renderle l’estremo omaggio.
Per il saluto finale, la
scenografia allestita intorno al feretro della suora ricalca per molti versi
anche usi e costumi tradizionali indiani. Il corpo della Madre viene deposto
dentro una teca di cristallo circondata da tanti fiori: indossa il solito sari
bianco a strisce celesti; ha l’espressione serena e sembra che dorma; ha
inoltre le dita delle mani incrociate e circondate dal rosario col quale per
anni ha recitato le preghiere. Per sette giorni, nella chiesa, una fila - lunga
in alcuni momenti anche oltre 5 chilometri - di poveri, pellegrini, credenti,
non credenti si prostra ai piedi della suora per una breve preghiera, un saluto
personale, una raccomandazione. In tanti lasciano messaggi, le lanciano un
saluto, un bacio; quasi tutti piangono compostamente, ma non sono pochi quelli
che si disperano ad alta voce: per contenere l’enorme afflusso di
visitatori la polizia è costretta a scaglionare l’entrata in chiesa
attraverso un rigido servizio d’ordine, che nei momenti di maggiore calca
provoca anche qualche forma di tensione.
Il dolore più composto
- e per molti versi, più sereno - appare sui volti di tutte
le sue consorelle, che per tutta la settimana di suffragio, in attesa dei
solenni funerali di Stato programmati per il 13 settembre nello stadio Netaji,
sorvegliano costantemente il “sonno” della Madre con preghiere
corali, veglie, Messe, lunghi momenti di meditazione. Vista la grande affluenza
di pubblico, le autorità e le Missionarie della Carità di Calcutta
decidono di allungare i giorni di esposizione pubblica del corpo della Madre.
L’omaggio pubblico alla salma alla fine durerà nove lunghi giorni:
troppi, lamentano in molti, perché le leggi della natura seguono
inesorabilmente il loro corso e, per evitare che il corpo della suora possa
danneggiarsi, anche in conseguenza del gran caldo, i responsabili sanitari
decidono di sottoporre Madre Teresa a trattamenti speciali con punture e
balsami. Qualcuno parla persino di imbalsamazione. Non manca comunque chi avanza
critiche e richiami alle autorità indiane e alle stesse Missionarie della
Carità per non aver favorito l’anticipazione della data del
funerale. Ma va detto, ad onor del vero, che le richieste di vedere per
l’ultima volta Madre Teresa sono veramente tante e durante i nove giorni
la chiesa di S. Tommaso è come attraversata da un fiume in
piena.
La nipote siciliana
Tra le tante anonime persone che si recano a
Calcutta per rendere omaggio alla suora, ce n’è una che senza
volerlo suscita la curiosità della stampa. È una signora di circa
50 anni, parla italiano con un forte accento siciliano. Nei lineamenti del volto
è molto somigliante a Madre Teresa, soprattutto nel taglio degli occhi.
Si chiama Agi Bojaxiu: è una nipote della missionaria scomparsa. È
la figlia di Lazar, il fratello di Madre Teresa morto qualche anno addietro e
che aveva messo su famiglia a Palermo dopo essere scappato dall’Albania.
“Sì - dice Agi Bojaxiu - sono la sua unica, vera
nipote, anche se adesso ne usciranno fuori chissà quante... sono nata a
Tirana nel 1944, ma pochi mesi dopo mio padre, che sposò
un’italiana di Lucca, ci portò in Italia” per sfuggire
all’oppressione della dittatura di Hoxa. In un primo tempo i Bojaxiu
vissero in Toscana. Poi Agi conobbe un commerciante siciliano, Giuseppe
Guttadauro, e lo sposò. Ed oggi la coppia che ha due figli, vive a
Palermo, dove ha un negozio di abbigliamento. “Vidi per la prima volta la
zia Madre Teresa quando avevo 20 anni - ricorda la nipote - prima di
allora eravamo state in contatto solo con le lettere che ci scrivevamo con una
certa frequenza. Il nostro rapporto, specialmente dopo l’incontro,
è stato sempre affettuoso e sincero, come può essere tra una zia e
una nipote. Una volta al mese ci sentivamo per telefono: parlavamo sempre in
inglese, perché io non conosco più la lingua di mio padre e Madre
Teresa non padroneggiava bene l’italiano. Era una donna eccezionale: mi
piaceva molto la sua capacità di comprendere le ragioni degli altri. La
ricorderò sempre così e la porterò sempre nel mio
cuore”.
Addio Teresa
Il rito funebre finale, quello del
definitivo “Addio a Teresa”, inizia la mattina del 13 settembre con
l’avvio del corteo dalla chiesa.
Tre momenti dei funerali di Madre Teresa La teca trasparente con il corpo di Madre
Teresa viene sistemata su un affusto di cannone e accompagnata da una scorta
militare in alta uniforme: un onore di Stato riservato in passato solo a due
padri della patria, il Mahatma Gandhi e Pandit Nehru. Per tutta la durata del
corteo la cerimonia è contrassegnata da varie simbologie: alle preghiere
cristiane - che culmineranno con la Messa celebrata dal cardinale
segretario di Stato della Santa Sede Angelo Sodano - vengono affiancate
preghiere indù, buddiste, musulmane, o il semplice silenzio di chi non
crede. Stride, all’apparenza, l’enorme schieramento di militari in
rappresentanza di tutte le armi dell’esercito indiano: ma è una
presenza-simbolo per la tradizione indiana, i cui governanti - presenti al
rito con le massime autorità - hanno voluto rendere così
omaggio alla suora dei poveri con tutte le espressioni istituzionali dello
Stato, a partire, naturalmente, dalle componenti dell’esercito. In segno
di rispetto e di “sottomissione” alla suora dei poveri, i soldati al
passaggio del feretro abbassano la testa e capovolgono i fucili con le baionette
puntate per terra. Simbologie e gesti antichi per onorare una suora che
l’India vuole con tutte le sue forze presentare al mondo intero come una
delle sue figlie più amate e venerate.
Dietro all’affusto di
cannone, le più alte autorità indiane, guidate dal presidente
dell’India, accanto al quale prendono posto il presidente della Repubblica
italiana Oscar Luigi Scalfaro - che nei giorni precedenti si era recato
anche nella chiesa di S. Tommaso a pregare e a deporre un omaggio floreale ai
piedi della suora -, i presidenti dell’Albania, del Ghana, le regine
Fabiola del Belgio, Sofia di Spagna e Noor di Giordania, le first lady di
Francia e Polonia, Hillary Clinton degli Stati Uniti, la duchessa di Kent in
rappresentanza della regina Elisabetta di Inghilterra, Sonia Gandhi - la
moglie italiana dell’ex premier Rajiv Gandhi assassinato - seguite
da un centinaio di ministri, ambasciatori, militari e tanta, tanta gente comune,
tra cui anche quei poveri tra i poveri che hanno costituito la ragione portante
della vita di Madre Teresa.
La Messa di suffragio celebrata dal cardinale Sodano
Alla fine del corteo, la bara viene
depositata ai piedi dell’altare allestito in maniera sobria e tutto di
bianco nel palasport dello stadio. Sullo sfondo, un grande lenzuolo con la
scritta in inglese: “Le opere di amore sono opere di pace” , una
delle frasi più significative che Madre Teresa amava ripetere durante i
suoi interventi. Accanto al cardinale Sodano celebrano altri quattro porporati e
una consistente schiera di vescovi. Il rito è lungo, solenne: il
cardinale Sodano nell’omelia ricorda le tante opere di carità e di
promozione umana fondate dalla suora, la quale - tiene a precisare il
porporato - resterà per sempre un altissimo esempio di tolleranza,
di promozione umana e di pace. Un esempio, insiste Sodano, che
interpellerà le coscienze di ciascuno di noi ogni volta che le ragioni
del dialogo si faranno sentire: “Ma soltanto quando impareremo a guardare
agli altri come nostri fratelli come ha sempre fatto lei, soltanto allora saremo
sulla strada della pace”. Il cardinale legge, infine, il messaggio del
Papa nel quale, oltre a ricordare i meriti della suora, Giovanni Paolo II esorta
le consorelle, i volontari e i collaboratori a “continuare l’opera
iniziata da Madre Teresa”. Esortazione prontamente raccolta da suor
Nirmala nel suo intervento commemorativo con una solenne promessa “a
seguire l’opera e l’esempio della nostra amata Madre”, con la
certezza che Dio in qualsiasi momento avrebbe concesso alle Missionarie della
Carità tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno per
“continuare ad aiutare i poveri tra i più
poveri”.
Parlano anche esponenti di altre religioni, un guru
indù, un imam musulmano, un religioso sikh, un lama buddista, un
religioso parsi. Da parte di tutti, toccanti ricordi, preghiere e antichi canti
in onore di Madre Teresa. Altrettanto toccante il momento dell’offertorio
con una orfanella che porta sull’altare il pane, una donna, ex carcerata,
con l’ampolla del vino e un handicappato che con grande fatica riesce a
portare il calice con le ostie consacrate. Alla conclusione della Messa,
l’omaggio dei potenti della terra con la deposizione delle corone secondo
un severo rituale, scandito per alcuni personaggi anche dagli applausi dei circa
12 mila presenti alla cerimonia. Uno degli applausi più calorosi viene
riservato a Sonia Gandhi. Dopo gli omaggi, il corteo funebre ripercorre il
tragitto nel cuore della città fatto in mattinata per far ritorno alla
Casa Madre: il feretro al suo passaggio viene salutato da circa un milione di
persone distribuite lungo i marciapiedi.
In molti al passaggio del corteo
gettano fiori freschi di campo, espongono cartelli con scritte “Grazie,
Madre”, “Non ti dimenticheremo”, “Prega sempre per
noi”, “Sei la santa dei poveri”; in tanti applaudono, nessuno
riesce a trattenere lacrime e commozione. Nella Casa Madre, le consorelle prima
della sepoltura danno vita ad una seconda celebrazione funebre, ma rigidamente
riservata: è il loro addio alla Madre tanto amata, è un momento di
intimità che nessuno può disturbare, un momento fatto di preghiere
corali e personali, lunghi silenzi, tante lacrime e tante promesse di continuare
a seguire la strada di amore e carità tracciata dalla fondatrice. Il rito
riservato si conclude intorno alle ore 15 del 13 settembre, quando la bara di
Madre Teresa viene deposta nella cripta del convento dove la religiosa
potrà finalmente riposare per sempre. In quel momento, una suorina si
affaccia ad un finestra e fa un cenno a un plotone di soldati Gurka, di guardia
alla Casa, per avvisarli dell’avvenuta tumulazione: al breve cenno della
missionaria i soldati sparano tre salve di fucileria e quattro trombettieri del
Rajputh Regiment intonano il silenzio d’ordinanza, è
l’estremo saluto dell’India alla sua figlia prediletta.
Suor Nirmala, il futuro
Dorme ora Madre Teresa. Dopo 87 anni vissuti
di corsa e sempre all’inseguimento della pace, della vita,
dell’amore sulle orme di Cristo, la suora dei poveri riposa nella sua Casa
di Calcutta, diventata subito meta di un pellegrinaggio ininterrotto, di
preghiere, di silenzio. A poche ore dalla conclusione dei funerali,
all’apparenza tutto ritorna magicamente come prima: ogni Missionaria della
Carità, facendo ben attenzione a tenere chiusa nel suo cuore una ferita
che forse non si rimarginerà mai (chi, in fondo, potrebbe
“sostituire” una Madre così grande?), riprende il suo posto
accanto a poveri ed ammalati: è quello che Madre Teresa si aspetta dalle
sue consorelle. La prima a dare l’esempio è la nuova Superiora
generale della congregazione, suor Nirmala, che, incurante della grande fatica
affrontata durante i nove giorni di veglia che hanno preceduto il funerale di
Madre Teresa, riprende subito a viaggiare.
La prima tappa è,
significativamente, Roma, il Vaticano, dove con la devozione di una figlia va in
udienza da Papa Wojtyla, che la incoraggia, con una benedizione apostolica, a
proseguire l’opera della Madre appena scomparsa. Anche suor Nirmala
- come del resto è sempre accaduto in precedenza alla fondatrice
delle Missionarie della Carità - è chiamata a misurarsi
spesso e volentieri con le tante richieste di interviste che, però, lei
concede con il contagocce. Anche lei, seguendo alla lettera gli insegnamenti
della Madre, spesso risponde ai giornalisti che “non è importante
intervistarmi, non scrivete di me, piuttosto scrivete di Lui (di Dio) e se
proprio non potete fare a meno di scrivere, offrite una carezza ed un sorriso a
chi soffre”.
Durante la visita in Vaticano del post-Madre Teresa,
suor Nirmala rompe spontaneamente il suo tradizionale silenzio e si lascia
intervistare a lungo da un giornalista dell’“Osservatore
Romano”, Giampaolo Mattei, al quale racconta della sua vita, delle sue
origini e dei sentimenti che l’accompagnano in questa prima fase di
viaggio al vertice della congregazione delle Missionarie della Carità. Il
colloquio offre lo spunto al giornalista di pubblicare la monografia “Io,
Nirmala: la storia dell’erede di Madre Teresa di Calcutta” edita
dalla Elledici.
La prima intervista di suor Nirmala
È una testimonianza diretta, finora
unica, con la quale la suora parla delle sue origini, della sua conversione e
confessa tutti i suoi sentimenti, le sue attese e i suoi proponimenti. È
anche un’occasione - certamente rara - di conoscenza diretta
della stessa suora, la quale più che parlare di sé amerà
far “parlare” le opere di carità della congregazione.
L’incontro tra suor Nirmala e Mattei avviene nella Casa “Dono
di Maria” in Vaticano. Prima di iniziare il colloquio, la religiosa
sfoglia i numeri dell’“Osservatore Romano” che hanno
pubblicato i servizi sulla morte di Madre Teresa e sui solenni funerali
presieduti dal cardinal Sodano a nome del Papa. Legge con attenzione, gli occhi
in certi momenti le si riempiono di lacrime e con un fil di voce ripete spesse
volte “grazie”. E forse proprio questa lettura la mette in
condizione ideale per parlare della sua vita e del futuro, suo e della
congregazione.
Inizia parlando delle sue origini e della famiglia.
“I miei genitori - ricorda la suora - erano molto devoti ai
valori dell’induismo. Penso alla castità, alla fedeltà nel
matrimonio, alla preghiera, alla compassione, all’aiuto alle persone
bisognose, alla gentilezza e all’autocontrollo. Come tutti gli induisti,
anche i miei familiari erano letteralmente innamorati dello spirito del Mahatma
Gandhi. Noi figli siamo cresciuti seguendo il loro esempio. Ho pregato Dio con i
nomi di Ran, di Krishna e di Shiva. Già da piccola sentivo forte dentro
di me il desiderio di amare i poveri. La divinità che preferivo era
proprio Shiva e lo sa perché? Perché Shiva divenne la mia
preferita quando seppi che era poco amata a causa del suo aspetto molto
brutto”. Non rinnega, suor Nirmala, l’educazione ricevuta dalla sua
famiglia: “Conservo dentro di me i valori più belli
dell’induismo. Vengo da quella religione, da quella cultura. Lì
sono le mie radici e non posso, non devo, dimenticarle. Credo che ci sia una
parziale verità nelle altre religioni e quindi anche nell’induismo.
Solo Cristo però è la verità”. Come ha sempre
insegnato Madre Teresa, anche suor Nirmala spiega che “quando ci
accostiamo ad una persona che soffre, non chiediamo mai a quale confessione
religiosa appartiene”.
A sette anni - racconta la suora -
i genitori iscrivono la piccola Kusum in una scuola di missionarie cristiane di
Durunda. Il primo “incontro” con Gesù avviene qui e in
maniera del tutto casuale. Un giorno, mentre sta giocando in cortile, entra
nella cappella e si trova improvvisamente davanti ad una statua di Gesù
con le braccia spalancate. “Sono scappata, tanta è stata la mia
paura - ricorda sorridendo la religiosa - poi mi sono fatta coraggio
e sono tornata indietro piano, piano, un passettino alla volta. E ho scoperto
che era la statua del Sacro Cuore di Gesù. Da quel giorno, uscendo da
scuola, facevo sempre un giro più lungo per tornare a casa proprio per
rivedere quell’immagine che mi affascinava”.
La conversione al
cattolicesimo arriverà, comunque, molto più tardi. Dopo il
diploma, la futura suor Nirmala - che ancora si chiama Kusum - si
iscrive alla facoltà di legge dell’Università di Patna e
prende alloggio in un pensionato gestito da suore cattoliche. “Il giorno
successivo al mio arrivo - racconta - sentii suonare una campana.
Era sera e a quei rintocchi la mia compagna di stanza, anch’essa induista,
si inginocchiò a pregare in silenzio. Non conoscevo il significato del
suono delle campane e il gesto della mia amica mi commosse. In quel momento
Gesù toccò il mio cuore. Capii che era dentro di me da tanto
tempo. Io non lo avevo mai cercato e mi aveva finalmente trovata. Avevo 17 anni.
Fu allora che Gesù cominciò a parlarmi personalmente e da qual
giorno cominciai a fare domande su di Lui, a leggere libri su di Lui”.
La conoscenza di Gesù
La “conoscenza” di Gesù
non significa automaticamente conversione. Ne sa qualcosa la stessa suor
Nirmala, che prima di abbracciare definitivamente la fede cattolica,
dovrà attendere ancora altri sei anni e mezzo, caratterizzati da dubbi,
domande, “lotte” intime, specialmente nell’ambito familiare.
Uno dei problemi più gravi fu quello di parlarne con i genitori; poi la
suora temeva di perdere gli affetti antichi e tutta la ricchezza delle
tradizioni induiste. Timori e paure che svaniscono, misteriosamente, il giorno
in cui incontra una “certa” Madre Teresa. Ecco come la futura
Superiora generale delle Missionarie della Carità lo racconta.
“Volevo andare in Nepal per aiutare la rinascita della terra dei miei
genitori - ricorda suor Nirmala - un giorno mi confidai con un
gesuita americano e lui mi parlò di una certa Madre Teresa. Anzi a lei
presentai i miei progetti. Così un giorno Madre Teresa mi scrisse:
‘So che vuoi andare in Nepal, ma le anime sono le stesse in Nepal, in
Bengala e in qualsiasi altra parte del mondo’. E aggiunse che avrei potuto
unirmi alle Missionarie della Carità: se vuoi venire senza condizioni,
vieni. Decisi dunque di andare a Calcutta per conoscere personalmente Madre
Teresa”. Quando le due donne si incontrano sembra che si conoscano da
anni. “Mi venne naturale - racconta infatti suor Nirmala -
considerarla subito una seconda mamma. Le aprii il mio cuore, con tutte le
incertezze di una giovane che voleva cambiare il mondo. Mi ascoltò a
lungo, poi mi disse: ‘Tu prega come se tutto dipendesse da Dio e agisci
come se tutto dipendesse da te’. In una parola, quel giorno, a 17 anni, mi
arresi a Gesù che mi seguiva da tanto tempo e decisi di restare con Madre
Teresa”. Dopo il colloquio, la giovane Kusum decide di farsi battezzare.
Il rito si celebra il 5 aprile 1958, e il 24 maggio successivo entra
definitivamente nelle Missionarie della Carità con il nome di Nirmala,
che significa “purezza”. “Per grazia di Dio oggi sono una
religiosa cattolica. Per pura grazia di Dio mi sono convertita a Cristo. Ma i
primi tempi - ricorda la suora - non furono facili. Sentivo
nostalgia della mia famiglia e mi tormentava l’idea di non avere neppure
un periodo, diciamo di vacanza, per tornare almeno un po’ a casa. Mi
sfogai con Madre Teresa. In quei momenti mi ha sostenuta. È stata la mia
forza. Mi ha insegnato a chiedere aiuto a Dio, a pregare. Una volta mi ha detto:
non pensare adesso alla tua intera esistenza, ma cerca di vivere giorno dopo
giorno. Così, piano piano, insieme a lei, ho trovato quella
serenità che cercavo, della quale avevo bisogno”. Nella
congregazione, spronata anche da Madre Teresa, completerà gli studi
universitari conseguendo la laurea in giurisprudenza e, in seguito - prima
dell’elezione a Superiora generale - ricoprirà importanti
incarichi all’interno dell’Ordine. In particolare sarà molto
apprezzata come responsabile del ramo contemplativo delle Missionarie della
Carità. “Dopo la mia prima professione religiosa avvenuta nel 1961,
Madre Teresa - ricorda infine suor Nirmala - mi mandò a
studiare legge all’Università di Calcutta. Mi disse che così
avrei potuto fornire gratuitamente assistenza legale ai poveri”. In
realtà, suor Nirmala, non eserciterà mai la professione di
avvocato: “È vero - è la sua spiegazione -
però ho scelto una legge più alta, quella dell’amore. E
tutto questo lo devo a Dio e a Madre Teresa che, anche da lassù,
continuerà ad essere sempre la mamma prediletta delle Missionarie della
Carità e di tutti i poveri tra i più poveri”.
di
Orazio La Rocca
L'iscrizione nell'albo dei beati
Madre Teresa di Calcutta è Beata. Un evento ecclesiale, mondiale e mediatico. Al centro della
festa i poveri, come avrebbe voluto la piccola "grande" suora di origine albanese e di
nazionalità indiana, che Giovanni Paolo II ha elevato all’onore degli altari il 19 ottobre 2003,
con la solenne "cappella papale" presieduta in Piazza San Pietro, insieme a più di 40
concelebranti, tra cui il cardinale arcivescovo di Bombay, Ivan Dias, l’arcivescovo di
Calcutta, Lucas Sirkar, l’arcivescovo di Scutari, Angelo Massafra, davanti a una folla
valutata in 300.000 persone e alle delegazioni giunte da ogni parte del mondo.
Duemila poveri in prima fila, al posto d’onore, insieme alle suore della carità con il sari
bianco bordato di blu, sul sagrato della Basilica Vaticana addobbato di fiori. I grandi della
terra, rappresentati da una trentina di delegazioni ufficiali, a cominciare dai presidenti di
Albania, Macedonia, terra natale di Madre Teresa, Kosovo, e, in rappresentanza dell’India,
il ministro della giustizia. Significativa anche la delegazione ecumenica e interreligiosa,
con esponenti della Chiesa ortodossa e di due Comunità musulmane d’Albania. Con suor Nirmala
Joshi, superiora generale delle Missionarie della Carità, presenti naturalmente i responsabili
degli altri istituti fondati da Madre Teresa, tra cui i rami contemplativi delle suore e dei
fratelli.
"In lei scorgiamo l’urgenza di metterci in atteggiamento di servizio, specialmente dei più
poveri e dimenticati, degli ultimi tra gli ultimi", ha detto nel rito di introduzione Giovanni
Paolo II, apparso con volto disteso e sorridente. Tre felici coincidenze hanno accompagnato la
beatificazione di Madre Teresa, come ha sottolineato il Papa: l’odierna Giornata Missionaria
Mondiale, la conclusione dell’anno del rosario e il 25° anniversario del suo Pontificato.
Canti, danze e preghiere tipici della cultura indiana hanno costellato il solenne rito.
Il senso della gioia, con applausi e canti, è esploso quando il Papa, dopo la
"domanda" canonica pronunciata dall’arcivescovo di Calcutta, e alcuni cenni
biografici della religiosa, ha pronunciato la formula di beatificazione, fissando la festa di
Madre Teresa "nel giorno della sua nascita al cielo", il 5 settembre.
"Un itinerario di amore e di servizio, che capovolge ogni logica umana. Essere il servo di
tutti!". Così il Papa ha indicato il cammino evangelico di Madre Teresa, all’omelia della
Messa.
"Sono personalmente grato – ha voluto testimoniare il Papa – a questa donna coraggiosa, che ho
sempre sentito accanto a me. Icona del Buon Samaritano, essa si recava ovunque per servire
Cristo nei più poveri fra i poveri. Nemmeno i conflitti e le guerre riuscivano a fermarla".
L’omelia del Papa è proseguita in racconto: "Ogni tanto veniva a parlarmi delle sue esperienze
a servizio dei valori evangelici". E ricorda ad esempio quanto disse ricevendo il premio Nobel
per la pace: "Se sentite che qualche donna non vuole tenere il suo bambino e desidera abortire,
cercate di convincerla a portarmi quel bimbo. Io lo amerò, vedendo in lui il segno dell’amore
di Dio".
Significativo poi che la sua beatificazione avvenga proprio nella Giornata Missionaria
Mondiale. "Con la testimonianza della sua vita – infatti – Madre Teresa ricorda a tutti che la
missione evangelizzatrice della Chiesa passa attraverso la carità, alimentata nella preghiera e
nell’ascolto della parola di Dio". "Emblematica di questo stile missionario", per Giovanni
Paolo II, "è l’immagine che ritrae la nuova Beata mentre stringe, con una mano, quella di un
bambino e, con l’altra, fa scorrere la corona del Rosario".
Contemplazione e azione, evangelizzazione e promozione umana: Madre Teresa proclama il Vangelo
con la sua vita tutta donata ai poveri, ma, al tempo stesso, avvolta dalla preghiera.
Così Madre Teresa "ha trovato la sua più grande realizzazione e ha vissuto le più nobili
qualità della sua femminilità", ricordando a tutti il valore e la dignità di tutti i figli di
Dio, "creati per amare ed essere amati", e saziando in tal modo "la sete di Cristo,
specialmente per i più bisognosi, quelli ai quali la visione di Dio è stata oscurata dalla
sofferenza e dal dolore a tratti lancinante", accolta come un singolare "dono e privilegio".
Nelle ore più buie ella s’aggrappava con più tenacia alla preghiera davanti al Santissimo
Sacramento. Questo duro travaglio spirituale l’ha portata ad identificarsi sempre più con
coloro che ogni giorno serviva, sperimentandone la pena e talora persino il rigetto. Amava
ripetere che la più grande povertà è quella di essere indesiderati, di non avere nessuno che si
prenda cura di te.
Per tutti, l’invito del Papa è quello di rendere "lode a questa piccola donna innamorata di
Dio, umile messaggera del Vangelo e infaticabile benefattrice dell’umanità", di onorare in lei
"una delle personalità più rilevanti della nostra epoca", di seguirne l’esempio e "servire con
la gioia e il sorriso ogni persona che incontriamo".