PAPI E BEATI - MADRE TERESA DI CALCUTTA - VERSO LA SANTITÀ

Nella storia della chiesa e del mondo


Eccoci al terzo, e ultimo, appuntamento con il racconto della vita di Madre Teresa di Calcutta e della sua congregazione missionaria. Nei due precedenti volumi abbiamo idealmente “visitato” i luoghi della sua primissima giovinezza - la Macedonia - e il paese della nascita della sua vita di religiosa missionaria accanto ai poveri tra i più poveri, l’India, culla di una lunga avventura di solidarietà e carità cristiana trascorsa nei sobborghi di Calcutta, nelle grandi e piccole città di una terra antica, nobile ed affascinante, avventura che, nel giro di qualche anno, si è sviluppata in tante altre parti del mondo.
Inoltre, abbiamo fatto “amicizia” con i tanti personaggi - noti, meno noti, anonimi bisognosi di tutto, uomini di Chiesa, leader politici, moribondi abbandonati lungo le strade di Calcutta o di una delle tante favelas del Sudamerica, dei villaggi africani - che hanno costellato il cammino terreno di una minuscola suora destinata a diventare, anche contro la sua stessa volontà, uno degli emblemi di fine millennio, un originale testimonial di pace e di fratellanza, figlia prediletta della Chiesa cattolica, capace di fare breccia in qualsiasi ambiente, anche il più lontano.
Una suora piccola, esile, all’apparenza fragile, ma forte dentro, capace di battersi come una leonessa pur di centrare l’obiettivo che si era data fin dal giorno in cui varcò la soglia della congregazione delle suore di Nostra Signora di Loreto, vale a dire, la totale dedizione alla causa dei poveri e dei moribondi, degli ultimi tra gli ultimi.
Abbiamo visto, ancora, con quanta determinazione lascia la sua prima congregazione religiosa - le suore di Loreto - per fondarne una tutta sua, le Missionarie della Carità, un gesto rivoluzionario e profetico allo stesso tempo, compiuto non per dissapori con le consorelle del primo ordine in cui lavorò per una ventina d’anni e, tantomeno, per dare ascolto a qualche spinta polemica. Madre Teresa cambia semplicemente per potersi dedicare ancora di più alla sua vocazione missionaria. Lo fa per stare ancora più a contatto con i bisognosi, conservando sempre un buon ricordo degli anni trascorsi nella congregazione di Nostra Signora di Loreto. La suora cambia vita e nel giro di pochi anni, insieme alle sue nuove consorelle, diventa punto di riferimento essenziale per i poveri tra i più poveri, non solo dell’India, ma delle aree più depresse dell’Africa, dell’America Latina, dell’Europa, dell’Oceania.
La grande semina fatta da Madre Teresa nel corso del suo cammino lungo le strade del mondo produce frutti abbondanti in termini di nuove vocazioni, di case fondate per accogliere moribondi, ammalati, bambini abbandonati, scuole per i poveri.
Un successo in quantità e in qualità - volendo artatamente usare una espressione più commerciale che religiosa - che non ha smesso di stupire (e di crescere) nemmeno all’indomani della morte di Madre Teresa e con l’entrata in campo della religiosa chiamata a succederle alla testa delle Missionarie della Carità, suor Nirmala, che ha raccolto il testimone come guida spirituale del suo piccolo esercito con il “grado” di Superiora generale, dopo essere stata per anni la responsabile del ramo contemplativo della congregazione.
Ma prima di arrivare a raccontare i primi passi mossi da suor Nirmala negli anni del dopo-Madre Teresa, non si potrà fare a meno di ricordare i tanti avvenimenti che caratterizzeranno il cammino della suora nei decenni Settanta e Ottanta, un arco di tempo intenso, ricco di storie, di successi, di sacrifici, che culminerà con l’assegnazione del Premio Nobel per la pace alla fondatrice delle Missionarie della Carità, il riconoscimento che farà di lei una delle figure più amate e conosciute del mondo intero. Abbiamo visto nel secondo volume di questo racconto come in tutto il decennio Sessanta la nuova congregazione fosse diventata un’importante realtà dentro e fuori la Chiesa cattolica, con centri di accoglienza, ospedali, scuole, dispensari e Case per i moribondi fondate, praticamente, in quasi tutti i continenti. Spinte dall’entusiasmo e dalla grande fede di Madre Teresa, le Missionarie della Carità crescono, si diffondono in tutto il mondo e mettono radici nelle aree più a rischio della terra, a prezzo di sacrifici immani e di un lavoro accanto ai poveri tra i più poveri che solo delle religiose fortemente votate al bene per gli ultimi nel nome di Cristo possono tranquillamente affrontare e portare a termine con il sorriso sulle labbra. Sorriso che non viene mai meno nemmeno davanti ai sacrifici più duri e persino al cospetto dei non pochi drammi che non di rado si abbattono sulle religiose nel corso della loro opera missionaria. Ad esempio, abbiamo visto a questo proposito, nel volume precedente, il grande dolore provato da Madre Teresa e dalle sue consorelle il giorno in cui furono costrette a lasciare l’Irlanda per motivi di sicurezza. Oppure, le grandi paure provate da quelle consorelle che, per condividere fino in fondo i disagi dei poveri, scelgono di convivere in aree oppresse da conflitti, da guerre fratricide e da continui attentati. Non mancano missionarie coinvolte in tragedie legate ad incidenti stradali o a malattie contratte dopo essere state per giorni e giorni a stretto contatto con poveri colpiti da virus infettivi.

Il “prezzo” della fede


Vedremo, nelle pagine seguenti, alcuni episodi della vita della comunità che dimostrano quanto sia stato alto il prezzo pagato dalle Missionarie della Carità nel corso della loro vita religiosa. In diverse occasioni, Madre Teresa ha dovuto affrontare lunghi viaggi per assistere in prima persona consorelle rimaste ferite per il crollo di un ponte, per lo straripamento di un fiume, per un’auto capovolta o per aver contratto malattie infettive in uno dei tanti centri di accoglienza dove vengono ospitati malati poveri rifiutati dagli ospedali. Spesse volte non ha esitato a saltare su un aereo per andare ad accudire amorevolmente, come una mamma, qualche suora nel momento del “ritorno al Padre”, cioè nell’attimo supremo della morte. Come accadde ad esempio, il 7 maggio 1966, giorno in cui una delle sue consorelle più preparate, suor Leonie, medico, specializzata in medicina omeopatica, perse la vita per avere contratto una grave malattia in seguito al morso di un cucciolo di cane. In un primo momento suor Leonie non aveva dato eccessivo peso a quel morso. Pensava che con una normale medicazione tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, trattandosi di un cagnolino. Ma quando - dopo alcuni giorni - incominciò a perdere schiuma dalla bocca, ad accusare sudori freddi e repulsione per l’acqua capì di essere stata colpita dalla rabbia. Sì, perché quel cagnolino, minuscolo e indifeso, bisognoso di carezze, era malato di rabbia. Si tratta di una malattia che non perdona ed infatti suor Leonie morì nel giro di pochi giorni. Madre Teresa, per tutta la durata della degenza, non l’abbandonò mai, specialmente durante le lunghe e dolorose ore di agonia, le rimase sempre accanto con la mano nella mano, pronta a rispondere a ogni sua necessità e a recitare le preghiere insieme a lei secondo il calendario teologico scandito dalle Costituzioni dell’ordine. La suora morì serenamente, con il sorriso sulle labbra e in grazia di Dio, pur tra indicibili sofferenze. Prima di esalare l’ultimo respiro pronunciò anche tante parole di riconoscenza: “Grazie, Madre, per tutto quello che lei sta facendo per me. Grazie per stare qui con me. Il Signore te ne renda merito”.

“Quel che perdiamo in vita guadagniamo in cielo”


Ogni volta che ricorda questa tragedia, Madre Teresa è solita rincuorare le sue allieve affermando che “ciò che perdiamo nella vita lo guadagniamo in cielo, perché il Signore è grande e generoso, e non si scorda mai dei suoi figli. La sua ricompensa finale è grande”.
Ed è proprio grazie a questa ferma convinzione, che le consorelle nel corso degli anni riescono a sopportare tanti altri dolori simili, a volte provocati anche da gravi incidenti. Come avverrà, negli anni successivi, a suor Stanislaus, superiora di Dehra Dun, e alla sua assistente, suor Carol, che moriranno affogate in un torrente durante un violento temporale. Il giorno della tragedia si presenta a tinte fosche fin dalle prime luci dell’alba quando un violento temporale si abbatte sulla città mettendo a dura prova strutture e persone. Di fronte alla turbolenza del tempo sarebbe opportuno restare al coperto: ma le due suore decidono ugualmente di uscire dal convento per portare le medicine a un gruppo di ammalati. Malgrado le avversità meteorologiche le due consorelle riescono a svolgere ugualmente il loro impegno tra gli ammalati più in difficoltà. Lungo la strada del ritorno, mentre attraversano un fiume, il ponte cede sotto il loro peso e le due missionarie vengono inghiottite dalle acque. Suor Carol muore sul colpo col capo fracassato da un masso. Suor Stanislaus, pur sapendo nuotare, resta impigliata col sari a una trave e, dopo lunghi interminabili minuti, viene risucchiata dalle acque. I corpi delle due religiose vengono ritrovati solo dopo ore di ricerche. La tragedia scuote la congregazione. Ai solenni funerali il dolore trafigge i cuori di tutte le consorelle presenti. In tante non riescono a trattenere le lacrime, alcune piangono in silenzio, tutte pregano con le mani giunte e il capo chino con un trasporto vocazionale più intenso del solito. Madre Teresa - anche lei con l’animo stravolto - riesce a mala pena a trattenere le lacrime. Vorrebbe piangere, sfogarsi come quasi tutte le sue consorelle, ma sa che non può, che non deve farlo. Lei è il punto di riferimento di tutta la congregazione, è la Madre che tante giovani ragazze hanno deciso di seguire per servire Dio nell’aiuto ai poveri e per questo nei momenti della tragedia è “obbligata” a dare conforto agli altri. Il suo ruolo di Madre fondatrice delle Missionarie della Carità non le consente di apparire fragile, vulnerabile. Il dolore - anche quello causato dalla tragedia più grande - deve restare circoscritto nel suo animo di donna e di religiosa. Ecco perché - di fronte alla morte violenta delle due consorelle - ancora una volta si fa carico di portare conforto alle allieve “leggendo” l’accaduto come misterioso disegno divino “che comunque - esorta Madre Teresa - va accettato per il grande amore che ci unisce al Signore al quale noi doniamo, giorno dopo giorno, tutte le nostre gioie e tutti i nostri dolori”. Durante i funerali - ma anche in seguito quando avrà modo di parlare di questa drammatica vicenda durante le sue conferenze - nel ricordare la breve intensissima vita delle due missionarie così tragicamente scomparse mentre stavano compiendo il loro dovere presso i più bisognosi, parlerà della “storia di due nostre Sorelle carissime che andavano a servire i poveri e gli ammalati, e la loro ricompensa è stata che Gesù era così grato dei loro sforzi che le ha volute prendere con Sé senza aspettare troppo tempo...quando un giardiniere va a cogliere i fiori, prende sempre i migliori: lo stesso ha fatto Gesù con queste due nostre consorelle. Le ha prese con Sé, in Paradiso, come due bellissimi fiori di campo. Noi le ricorderemo sempre così”. Solo chi ha una robusta fede è in grado di trasformare una grande tragedia in una simile originale espressione di amore verso il Signore della vita. Madre Teresa è una di questi e quando lo ritiene opportuno lo ricorda, riuscendo a trarre insegnamento e persino coraggio anche di fronte alle tragedie più dure e violente.

I fratelli missionari


Altri “prezzi” pagati dalle Missionarie della Carità sono i guai giudiziari a cui le suore vanno incontro a causa di incidenti, più o meno gravi, accaduti nei loro centri o durante le attività assistenziali. Tra i più drammatici, il violento incendio scoppiato nel marzo del 1980 in una Casa di accoglienza a Kilburn, in un sobborgo di Londra, in conseguenza del quale morirono una decina di ospiti e una volontaria. Per questa tragedia, le suore responsabili della Casa furono accusate di omicidio colposo e sottoposte a un clamoroso processo celebrato nel Tribunale penale londinese tra lo stupore dell’opinione pubblica mondiale, che mai in precedenza aveva visto delle Missionarie della Carità sul banco degli imputati. Alla fine il verdetto dei giudici fu di non colpevolezza per le missionarie e per l’incendio si parlò di tragedia causata da un ignoto piromane. L’esperienza fu comunque pesante e per la sede londinese rappresenterà un trauma che sarà superato solo dopo tanto tempo.
Anche in questa circostanza la presenza di Madre Teresa è determinante: è sempre accanto alle consorelle durante il processo, incoraggia, invita a non avere timori della giustizia e si dice sempre convinta che alla fine tutto sarà chiarito. La sua serenità è un vero toccasana per le missionarie durante tutte le fasi del processo ed alla fine anche la giustizia inglese le darà ragione.
Gli incidenti mortali, i guai giudiziari, le espulsioni da qualche paese eccessivamente “litigioso” - come avviene ad esempio in Irlanda - stanno a dimostrare quanto alto sia il tasso di rischio a cui vanno quotidianamente incontro le Missionarie di Madre Teresa. Non tutto fila liscio e non sempre la storia finisce nel migliore dei modi. Come dimostra, appunto, la tragica morte delle consorelle travolte dalla corrente del fiume indiano o gli ospiti e i volontari morti nel rogo di Londra. Episodi messi comunque in conto dalle suore fin dal primo momento in cui entrano in comunità. Tuttavia, la Madre fondatrice con il passare degli anni si convince che le sue sorelle - pur con tutta la loro grande volontà - non sempre sono in grado di affrontare tutto e tutti. Ci sono lavori e circostanze per le quali - incomincerà a spiegare nei primi anni Sessanta - è più adatta la presenza di un uomo. È un pensiero che non l’abbandonerà mai più e che, di fatto, può essere considerato come la vera anticamera della nascita del ramo maschile della congregazione, vale a dire i Fratelli Missionari della Carità. Prima di arrivare alla costituzione di questa nuova realtà, dettata anche dalla crescente presenza di uomini tra i suoi volontari, Madre Teresa ne parlerà a lungo con le sue consorelle. Spesso aprirà questa parentesi soffermandosi ad illustrare il seguente principio: “Voi potete fare ciò che io non posso fare, a causa dei miei limiti, della mia scarsa forza o dei confini psico-fisici legati alla mia natura. Io posso fare quello che non potete fare voi, perché sento di essere in grado di affrontare mansioni, compiti, impegni che forse solo grazie alla mia esperienza di donna e di religiosa potrò fare. Ma, sia io che tu, insieme possiamo fare qualche cosa di meraviglioso per Dio”.

“Fare qualche cosa di meraviglioso per Dio”


Ecco la frase-chiave - in verità non l’unica - che Madre Teresa ama regalare ai suoi collaboratori, “fare qualche cosa di meraviglioso per Dio”: tutti insieme, uomini e donne, ciascuno nei propri ambiti e con le proprie mansioni; ma tutti animati da una stessa volontà missionaria, cioè quella di dedicare tutta la propria vita ai poveri tra i più poveri. La frase che farà da ideale battistrada alla nascita del ramo maschile della congregazione e che affonda le proprie radici nell’essenza più intima della vocazione delle Missionarie della Carità, la spinta che ha sempre guidato i passi di Madre Teresa quando ancora non si chiamava così, ma era conosciuta con il nome di battesimo di Agnese.

Nasce il ramo maschile delle Missionarie della Carità


Tra i primi ad essere informato della nuova idea di gettare le basi per il ramo maschile della congregazione è, naturalmente, il fido consigliere spirituale, padre Van Exem, il quale prima di sbilanciarsi si consiglia a sua volta con l’arcivescovo di Calcutta, monsignor Vivian Dyer, successore di monsignor Perier, il primo “sponsor” di Madre Teresa. La primissima reazione del consigliere spirituale non è delle più entusiasmanti. Il religioso non capisce la necessità di un simile passo: di congregazioni maschili - tenta di convincere la sua interlocutrice - ce ne sono già tante, a che serve fondarne un’altra?
Madre Teresa, pur rispettando tali interrogativi, non si lascia condizionare. Lei è convinta della bontà del progetto - e soprattutto del fatto che la congregazione non può fare ormai a meno di un ramo maschile in grado di svolgere il lavoro che le consorelle per motivi di forza maggiore non sono in grado di affrontare. Ma non sarà la sola ad avvertire questa esigenza. Anche nelle alte sfere della gerarchia cattolica indiana avvertono un’analoga esigenza. Ed infatti, l’iniziale titubanza di padre Van Exem viene ben presto spiazzata dall’entusiasmo con cui il nuovo arcivescovo di Calcutta accoglie l’idea di Madre Teresa di fondare il ramo maschile delle Missionarie della Carità. “Dovrà essere una parte della nostra istituzione - spiega Madre Teresa - completamente indipendente dal ramo femminile, dotata di autonomia, ma forgiata dallo stesso spirito vocazionale”.
“In tutta l’India - risponde monsignor Dyer a padre Van Exem e alla stessa Madre Teresa - non troverete un vescovo più favorevole di me alla fondazione dei frati missionari. In India la gente ha capito la vocazione di un sacerdote; ha capito la vocazione di una suora; ma non ha ancora capito la vocazione di un frate. Per questo vi dico di cominciare”. Con la benedizione del vescovo decolla quindi il progetto che porterà alla fondazione della Congregazione dei Fratelli Missionari della Carità. I primi tre candidati ad entrare nel nuovo istituto di Madre Teresa si presentano agli inizi del 1963. La nascita vera e propria del nuovo organismo missionario avviene il 25 marzo 1963, al cospetto di padre Julian Henry e dell’arcivescovo Albert de Souza. La cerimonia si svolge nella cappella della Casa Madre di Lower Circular Road, a Calcutta. Il rito è semplice, molto intimo, commovente. L’imprimatur ai tre arriva direttamente da Madre Teresa con un gesto semplice ma carico di significato, la consegna del crocifisso-simbolo della congregazione delle Missionarie della Carità, che la stessa fondatrice provvede ad appuntare sulle loro camicie bianche.
I primi tempi del nuovo ramo della comunità sono di formazione di studio sotto la diretta tutela di Madre Teresa e di padre Van Exem. I tre vengono alloggiati in un piano indipendente di Shisu Bhavan: studiano, pregano secondo i ritmi e gli orari della comunità, svolgono lavori manuali - specialmente di falegnameria -, aiutano le altre consorelle alla Casa del Moribondo. Ben presto, però, Madre Teresa incomincia ad avvertire l’esigenza di nominare un superiore, anche perché nel frattempo il gruppo è cresciuto. La scelta alla fine cadrà su un giovane gesuita, padre Ian Travers-Ball, che al momento di entrare nella grande famiglia delle Missionarie della Carità - ramo maschile - assumerà il nome di Fratel Andrea. Nato in Australia, a Melbourne il 27 agosto 1928, fin dall’inizio della sua vita religiosa, aveva sempre nutrito una grande attrazione per l’aiuto ai poveri, specialmente quelli completamente abbandonati. Fatale quindi l’incontro con quella nuova congregazione missionaria - vale a dire Madre Teresa e le sue consorelle - che per seguire il carisma dell’aiuto incondizionato ai poveri tra i più poveri da qualche anno aveva letteralmente rivoluzionato il modo di fare attività missionaria all’interno della Chiesa cattolica, dentro e fuori l’India. E proprio come aveva fatto tanti anni prima la stessa fondatrice della Missionarie della Carità, quando per dare vita ad un nuovo ordine lasciò la congregazione delle suore di Nostra Signora di Loreto, anche padre Ian Travers-Ball lascerà i gesuiti per entrare nei Fratelli Missionari della Carità e assumerne il priorato col nome di Fratel Andrea.
L’approvazione diocesana del nuovo istituto arriva il 26 marzo 1967, quattro anni dopo la nascita e con un gruppo di fratelli missionari arrivato a quota trentatré, quasi tutti impegnati nelle varie Case di accoglienza ed in particolare nella Casa del Moribondo, dove hanno la responsabilità di accudire gli uomini. Un anno dopo, nel giugno del 1968, il ramo maschile della congregazione celebra la prima professione di fede dei suoi novizi, tra i quali c’è anche Fratel Andrea.

La “rivoluzione” conciliare


Passano i mesi, la Chiesa cattolica si appresta a mettere in pratica il rinnovamento varato dal Concilio Vaticano II, conclusosi appena tre anni prima, e anche per la grande famiglia di Madre Teresa di Calcutta si respira aria di trasformazione. In primo luogo, le suore devono rivedere le loro Costituzioni alla luce della “rivoluzione” conciliare. È un momento di crescita e di aggiornamento che Madre Teresa e le sue consorelle vivono con trepidazione e rispetto. Anche i fratelli missionari fanno altrettanto. Fratel Andrea in quei giorni matura una decisione che porterà alla definitiva autonomia del ramo maschile delle Missionarie della Carità, il varo di nuove Costituzioni, rivedute e “corrette” alla luce delle esperienze e degli obiettivi che i figli di Madre Teresa intendono raggiungere camminando solo con le loro gambe. Fratel Andrea naturalmente non stravolge l’originaria intuizione del carisma della Madre: anzi la sua revisione partirà proprio dai valori religiosi predicati fin dal principio dalla fondatrice. In aggiunta a quei valori originari, il superiore dei Fratelli apporterà alcune norme con le quali, oltre ad avvicinare il suo istituto al rinnovamento del Concilio Vaticano II, accentuerà il carattere della nuova Congregazione in termini di autonomia e di carisma. Ecco come Fratel Andrea introdurrà le nuove Costituzioni del ramo maschile delle Missionarie di Madre Teresa: “Lo scopo generale della Congregazione - scrive il religioso - viene dalle labbra stesse di Cristo Nostro Signore: ‘Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni con gli altri; come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli”.
In particolare, il tratto caratterizzante dei Fratelli Missionari della Carità viene delineato al punto due delle Costituzioni, che recita così: “Vivere questa vita d’amore dedicandosi al servizio dei più poveri tra i più poveri negli slums, nelle strade, ed ovunque essi si trovino. Lebbrosi, mendicanti, persone abbandonate, giovani senza fissa dimora e giovani degli slums, disoccupati e tutti coloro che hanno perso tutto a causa di guerre o calamità naturali, saranno sempre fatti oggetto della speciale sollecitudine dei Fratelli”.
Pur condividendo in tutto e per tutto lo spirito con cui Madre Teresa ha plasmato la sua congregazione, Fratel Andrea concede al ramo maschile alcune “libertà” non sempre condivise dalle consorelle. Specialmente dalla fondatrice. Ad esempio, la Madre non vede con favore che i confratelli abbiano più libertà di movimento rispetto alla vita del convento. Ogni suora sa, fin dall’inizio, che dopo aver svolto il suo lavoro in un ospedale o per strada, è obbligata a far ritorno alla Casa Madre per il pranzo o per rispettare gli orari liturgici previsti dalle Costituzioni. Regole e tempi che non sempre lo spirito gesuitico di Fratel Andrea è disposto a seguire fino in fondo. E per questo, a volte, con Madre Teresa nascono incomprensioni, sempre superate con buona volontà da ambo le parti. ”Devo dire - riferirà in seguito il responsabile del ramo maschile delle Missionarie della Carità - che Madre Teresa mi concedeva totale libertà, anche se qualche volta dissentiva da me. Ma bisogna dire anche che poteva essere irritata ed offesa, e lo mostrava. Su certi punti cedevo, e lei era molto felice di far prevalere la sua impostazione. Quando non cedevo, lei alla fine accettava, sempre con indulgenza. Ma era meravigliosa nel non covare risentimento”.

I fratelli di Saigon


Come appare evidente, tra i due rami della congregazione il rapporto matura e si consolida senza ipocrisie o lotte intestine, anche quando i punti di vista divergono. Ma tutto il rapporto si muove lungo i normali binari del confronto umano e fraterno. Risultato, anche il ramo maschile, spinto sempre dall’esempio di Madre Teresa, ben presto si ramifica nella società indiana, specialmente tra le fasce urbane più deboli. Ad esempio, nel villaggio di Noynam, i Fratelli fondano un centro di accoglienza dove nel giro di poche settimane riescono a dare assistenza a più di cinquecento famiglie di poveri: vi aprono scuole, dispensari, mense per i più poveri e un centro specializzato nella cura ai malati di tubercolosi. A Calcutta, in una Casa di Pipe Road, cinque Fratelli si prendono cura di oltre trenta bambini orfani, aprendo per loro una scuola e un centro di accoglienza per lo studio, il gioco e il tempo libero. Ben presto, altri gruppi di Fratelli incominciano a frequentare le stazioni ferroviarie della città per andare alla ricerca di bambini abbandonati da genitori e parenti, e che si sono rifugiati nelle vecchie carrozze abbandonate.
La crescita repentina del ramo maschile della congregazione, porta i Missionari della Carità a fondare una delle loro prime Case di accoglienza fuori dall’India, precisamente a Saigon, in Vietnam. Succede nei primi anni Settanta, parallelamente alla crescita del gruppo femminile guidato da Madre Teresa, che in quegli anni è impegnata a seguire la nascita di nuove sedi in tante altre parti del mondo, come in Inghilterra, Giordania, Usa, Bangladesh, Mauritius, Israele, Yemen, Perù.
A Saigon il primo gruppo di confratelli di Fratel Andrea apre una Casa di accoglienza di tre piani: al primo vi vengono subito accolti una trentina di senzatetto; al secondo piano, di giorno c’è la scuola, di notte le aule sono adibite a rifugi per i poveri raccolti lungo le strade; al terzo piano i Fratelli sistemano le loro stanze per dormire e pregare. In poco tempo intorno alla Casa di Saigon vengono accolti un centinaio di bisognosi e quindi i religiosi di Madre Teresa preparano da mangiare, effettuano visite mediche, danno lezioni ai bambini delle famiglie più povere. Diventano subito parte integrante del quartiere, che in pochi mesi vede in questi religiosi arrivati dall’India - ma che pregano il Dio dei cristiani ed obbediscono al pastore vestito di bianco che risiede a Roma, il Papa - un insostituibile punto di riferimento.
In pochi anni in Vietnam i Fratelli organizzano altre Case e danno una mano concreta alle tante ragazze costrette a prostituirsi durante la guerra con gli Usa. Ma tutto è destinato a finire con la vittoria del regime comunista, che nel 1975 espropria tutte le Case fondate dai Missionari e costringe i religiosi di Madre Teresa a lasciare il paese. La delusione di Fratel Andrea e dei suoi collaboratori è grande. È lo stesso responsabile del ramo maschile della congregazione a scriverlo nella lettera inviata ai confratelli in occasione delle festività del Natale 1975. È un documento importante, che vale la pena conoscere da vicino perché dimostra come sia duro, a volte, scegliere di vivere una vita accanto agli ultimi, specialmente quando il bene fatto per aiutare chi ha bisogno si trasforma in un provvedimento di espulsione al quale i Fratelli non possono che rispondere con un mesto ritorno a casa. Il religioso vi descrive tutta la sua amarezza di uomo e di missionario. Eccone un ampio stralcio.

Una lettera triste per il Natale 1975


“Quest’anno mi ha distrutto”: sono le prime parole con cui Fratel Andrea inizia la sua lettera. Come si capisce subito, è un testo carico di delusione, rabbia ed angoscia. Senza eccessivi giri di parole - pur nella solennità della ricorrenza, il Natale del 1975 - il religioso fin dalle primissime battute arriva subito al sodo: “Quest’anno mi ha distrutto. Abbiamo perso quattro Case in Vietnam e Cambogia. Degli edifici non mi importa nulla; ma venir separati in modo così definitivo da tutti coloro con cui si era riusciti a stabilire un rapporto, e che si amavano, è una sofferenza indescrivibile. Dopo quello che è successo non sarò mai più lo stesso, e so che per la loro sorte proverò dolore finché avrò vita”. Fratel Andrea - come si legge nella lettera natalizia - è angosciato per la sorte dei poveri abbandonati al loro destino per motivi di forza maggiore e contro la volontà dei suoi confratelli. Pensa ai poveri, alle vittime della guerra, ai feriti, alle donne sole, sfruttate, costrette a prostituirsi. Come Madre Teresa e le sue consorelle hanno sofferto in analoghe circostanze, i Missionari non pensano alle Case perse ma ai poveri rimasti in Vietnam e in Cambogia privi di qualsiasi sostentamento. “La vera storia della caduta di Saigon e della radicale trasformazione che è avvenuta - continua la lettera natalizia di Fratel Andrea - non sarà mai raccontata. I giornalisti che erano presenti vivevano per la maggior parte negli hotel in centro. Non penetravano nei vicoli e nei viottoli dei quartieri sovraffollati della città. Non hanno avuto davvero l’opportunità di vivere da vicino, né di comunicare nei reportages ai media i sentimenti della gente che io ho conosciuto a Saigon. L’idea generale che la gente al di fuori del Vietnam ha di quello che è successo qui non è realistica. La storia resta da narrare, e tale resterà finché forse non si sentirà la voce di qualche Solzenicyn vietnamita. Ma questo, se mai succederà, sarà tra molti anni. Per quanto mi riguarda, non ho cuore neanche di provare a raccontare.
Così il Vietnam e la Cambogia sono un libro chiuso, per me e per i Fratelli; ciò che avverrà qui negli anni a venire, nelle vite di questa maggioranza silenziosa, privata della possibilità di esprimersi, non è dato di saperlo”.
Fortunatamente, altrove il cammino dei Fratelli va incontro ad epiloghi di ben altra natura. Come, ad esempio, in India, dove nel 1974 Madre Teresa decide di affidare loro il Centro per Lebbrosi Gandhi Prem Nivas di Titagarh. Qualche anno dopo, nel 1978, su decisione dell’amministrazione locale, i Fratelli ricevono in dotazione un importante lotto di terreno della ferrovia, nel quale viene impiantato il centro artigianale dei lebbrosi. In quegli stessi anni - precisamente a partire dal 1975, proprio in coincidenza della cacciata da Saigon - inizia per i Fratelli l’avventura americana, in una delle città più ricche e goderecce, Los Angeles. Qui, in uno dei quartieri del centro, Skid Row, Fratel Andrea e i suoi fondano una prima Casa di accoglienza destinata a dare pace e calore ai tanti emarginati della città, specialmente a quelle vittime del sistema consumistico americano che non può “tollerare” cadute, battute di arresto, improvvise malattie. La scelta è felice e ben presto la Casa dei Missionari della Carità diventa per i bisognosi di Los Angeles uno dei pochi rifugi sicuri.
Fratel Andrea - con la ferita ancora aperta a causa della cacciata subita dai nuovi governanti vietnamiti - decide di potenziare la presenza della congregazione negli Usa, fondando proprio a Los Angels il secondo noviziato per il ramo maschile dell’ordine. Qui i novizi dell’area americana - ma anche quelli provenienti dall’Europa, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda - imparano ad entrare in contatto con i poveri metropolitani, in genere alcolizzati, prostitute, vecchi ammalati lasciati soli da amici e parenti. Da Los Angeles, Fratel Andrea e i suoi incominciano a guardare - e a fondare nuove Case - anche in America Latina e, in seguito, in estremo Oriente, in Giappone e in Europa.

Andare tra i poveri dei paesi benestanti


“A volte la gente si chiede - spiega Fratel Andrea - perché andiamo in posti dove regna il benessere, come Los Angeles, Tokyo, Hong Kong, quando in India c’è una povertà più assoluta e drammatica, e su così vasta scala. Io ritengo che qui vi sia una povertà molto più terribile di quella che ho trovato in India. Tipico, per me, è l’esempio di Hong Kong. Quando, poco tempo fa, mi trovavo a Calcutta durante un’inondazione che ha fatto danni terribili, sono rimasto colpito dal constatare come la gente di Calcutta sia molto più ricca umanamente della gente di Hong Kong. È uno strano paradosso che dovrebbe dirci qualche cosa; ed è valido per la maggior parte delle società del benessere e dell’opulenza. Ad Hong Kong abbiamo una piccola Casa per disabili mentali gravi; otteniamo dei finanziamenti pubblici , ma abbiamo anche molte interferenze. Un esempio: le persone che abitano nella nostra Casa sono gravemente ritardate; sono già state in cura in molti istituti, dove non hanno risposto granché al training e alle cure a cui erano sottoposte. Prima di venire da noi vivevano con le loro famiglie nelle stanze insopportabilmente piccole dell’edilizia di Hong Kong. Da quando sono venuti da noi, tutti hanno risposto bene, e la cosa grande è - almeno mi sembra - che sono felici. Ma non è abbastanza - così ci è stato detto. Devono fare qualche cosa, devono essere programmati. Penso ci siano pochi posti al mondo così frenetici e fanatici degli standard di produttività come Hong Kong. Lo stress e la pressione sono a dei livelli insostenibili. A quanto pare non possiamo essere soddisfatti che questi disabili siano felici: devono anche loro essere travolti dalla frenesia, dal ritmo indiavolato, dalla concorrenza senza pietà che già stanno facendo impazzire tutti. Dietro a questi atteggiamenti si celano questioni fondamentali, la questione, per esempio, del dove e in che cosa risiedano il valore e la dignità dell’uomo: se nel suo essere o nelle sue prestazioni. E dunque l’India, con la sua grandissima povertà materiale, possiede una qualità della vita che spesso si perde irrimediabilmente quando Dio è sostituito dal dio danaro, e tutto deve essere quantificato. In queste società non si sa più godere la vita dal punto di vista spirituale e umano. Mi sembra che in posti come Hong Kong ci sia dato di vedere questo, come accade agli orsi in ‘Animal Farm’ (romanzo satirico dello scrittore inglese George Orwell, 1903-1950)”.
In ogni lettera di Fratel Andrea traspaiono l’ entusiasmo e la tanta voglia di fare, unitamente ad una istintiva predisposizione alla comunicazione diretta con la vita esterna alla congregazione. Forse è questo il tratto caratteriale che lo contraddistingue da Madre Teresa, con la quale vive sempre un rapporto di filiale riconoscenza e rispettosa obbedienza, pur nella reciproca autonomia. Un solo esempio per tutti: il religioso, contrariamente alla fondatrice delle Missionarie della Carità, tende a non nascondere le sue emozioni e in genere tutti i sentimenti che maturano intorno alle opere realizzate dal ramo maschile dell’Ordine. Quando è felice o è soddisfatto, Fratel Andrea ama farlo sapere agli altri, non resiste alla tentazione di rendere partecipi i suoi confratelli del suo stato d’animo. È, sotto un certo aspetto, un entusiasta, un estroverso, un trascinatore non privo di venature gioiose che condizionano, in positivo, la vita interna al convento e che danno al ramo maschile dell’Ordine un carattere ed una immagine esterna del tutto differente da quella delle Missionarie della Carità.
Ma da dove deriva tanta voglia di vivere? Perché i missionari sono così differenti dalle missionarie? Forse un “perché” in grado di spiegare esaurientemente una così evidente differenza caratteriale tra i due rami della congregazione non esiste. Qualche tentativo di spiegazione può essere tratto dai frequenti dialoghi che il Superiore generale del ramo maschile ama tenere spesso e volentieri, anche attraverso lettere e messaggi, con i suoi confratelli.
“Abbiamo il grande dono - scrive infatti Fratel Andrea in una lettera indirizzata ai confratelli e ai collaboratori della Casa di Los Angeles - di poter vedere che chi sembrava finito viene ancora salvato; chi sembrava un peccatore è un santo; chi sembrava povero è ricco come mai avremmo immaginato. Sì, il Signore ci ha concesso la sua benedizione. Ci ha portati qui, oggi, per essere testimoni del miracolo della Sua presenza che si manifesta nuovamente nei cuori dei poveri. Qui Egli è tra noi, celato dalla sporcizia e dagli stracci. È Lui l’affamato; è Lui l’assetato; è Lui Colui che è senza casa e senza nessuno. È Lui, qui a Los Angeles, che cammina per le strade, che chiede di essere aiutato, allunga una mano spinto dal bisogno, che ha bisogno di curarsi o di liberarsi dalla prigionia dell’alcool e della tossicodipendenza, così irriconoscibile nel Suo celarsi, da essere scioccante anche per noi”.

Gli immigrati clandestini


Come si vede, lo stile espressivo di Fratel Andrea è del tutto diverso da quello di Madre Teresa: è più aperto, più comunicativo, meno ermetico, anche se alla fine il contenuto del messaggio è sempre lo stesso, essendo i due religiosi intimamente legati a una teologia missionaria che fa del riscatto dei poveri e degli ultimi la strada maestra da seguire in qualsiasi parte del mondo e in ogni circostanza. Entrambi amano infatti ricordare che il povero non ha colore, ha sempre la stessa espressione, vive lo stesso dramma di abbandono e di solitudine dappertutto, sia nella ricca America sia nella povera India.
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta le Missionarie ed i Missionari della Carità vivono anni di crescita che i più stretti collaboratori di Madre Teresa amano raccontare in prima persona in diari che ora costituiscono preziosi documenti sulla vita della congregazione. Lo fa Fratel Andrea - lo abbiamo visto nei suoi precedenti documenti - e lo fa anche, ad esempio, Fratel Geoff, un missionario australiano che in seguito sarà il primo successore dello stesso Fratel Andrea alla guida del ramo maschile delle Missionarie della Carità. “A Los Angeles - racconta Geoff in uno scritto dedicato alle attività intraprese nella metropoli americana - il nostro principale lavoro è in un centro diurno per immigrati clandestini latino-americani, molti dei quali vivono per strada. È un posto dove, per tre giorni alla settimana, un centinaio di giovani tra i quattordici e i diciotto anni vengono a trovarci per ricevere un pasto caldo, una doccia, assistenza medica, un taglio di capelli, o anche solo a riposare. Nel reparto maschile seguiamo otto uomini portatori di handicap fisici e mentali. Anche queste persone sono state trovate per strada a Los Angeles e hanno un bisogno disperato di attenzione e di un ambiente protetto”.
“In Giappone, a Tokyo - continua Fratel Geoff nella sua testimonianza - lavoriamo con alcolizzati raccolti per strada. È un lavoro a tempo pieno. A volte c’è qualche rissa e in certi casi l’atmosfera si surriscalda; ma noi facciamo di tutto per impedire che la violenza entri nelle nostre Case. Gli alcolizzati giapponesi, in confronto a quelli di altri paesi, di solito si comportano molto bene; ma a Los Angeles abbiamo avuto fratelli che assistevano ragazzi delle bande giovanili e a Hong Kong qualcuno di noi ha lavorato con i tossicodipendenti. Operiamo anche in zone a più alto rischio: in città come Bogotà o Medellin, in Colombia, dove c’è molta violenza. Siamo testimoni di tante brutte storie, ma ce ne teniamo al di fuori. La gente conosce bene il lavoro che facciamo e di solito non ci disturba”. “Il nostro lavoro è molto diverso da quello di altre organizzazioni per i poveri. Non voglio dire che una sia migliore dell’altra (credo che si faccia del bene in ogni caso), ma gli altri si impegnano ad aiutare i loro assistiti a uscire dalla situazione in cui si trovano, soprattutto a vincere se si cerca di attuarlo per mezzo dell’istruzione, ma può diventare un impegno politico. I poveri con cui si sentono chiamati a lavorare i Missionari della Carità sono quelli che, indipendentemente da ciò che si fa per loro, in qualche modo continuano ad avere bisogno di aiuto. E per questo ci viene domandato spesso: Invece di dare un pesce ad una persona, perché non le insegnate a pescare? E noi rispondiamo che la maggior parte della nostra gente non avrebbe nemmeno la forza di reggere la canna da pesca. Io penso spesso che la fonte degli errori di giudizio - e in certi casi delle critiche - a proposito del nostro lavoro sia proprio questa, che cioè non si fa nessuna distinzione tra i poveri che assistiamo noi e quelli che assistono gli altri”.
“Abbiamo moltissime richieste di apertura di nuove Case in tutto il mondo e ne apriamo di continuo - spiegherà negli anni successivi il successore di Fratel Andrea- Ora siamo presenti in più di cento paesi: è un vero dono di Dio essere in grado di offrire con tutto il cuore un servizio gratuito ai più poveri tra i poveri in così tanti luoghi. Ora abbiamo, per esempio, Case per malati di Aids in Spagna, Portogallo, Brasile e in Honduras. In Africa lavoriamo, pur non avendo Case specifiche, e lo stesso vale per Haiti. Anche negli Usa abbiamo Case per malati di Aids in varie città, tra cui New York, Washington, Baltimora, Dallas, Atlanta e San Francisco. Ora stiamo aprendo la prima Casa per malati di Aids in India, a Bombay. Abbiamo appena avviato anche un orfanotrofio a Washington e da tempo speriamo di aprire una Casa in Cina”.
Il ramo maschile della congregazione non sarà il solo “frutto” esterno partorito dalla fervida mente di Madre Teresa. Nel corso degli anni Settanta, la grande famiglia della Missionarie della Carità sarà affiancata da altri organismi quali l’Associazione dei collaboratori laici delle Missionarie della Carità e il ramo contemplativo della congregazione, che Madre Teresa fonda in seguito ad un periodo di convalescenza trascorso in preghiera dopo un incidente a una spalla capitatole nelle isole Mauritius. A capo delle suore contemplative delle Missionarie della Carità viene indicata una consorella destinata - suo malgrado - a fare molta strada e a far parlare molto di sé all’interno della congregazione, suor Nirmala, la religiosa che succederà a Madre Teresa.

Il primo giubileo delle missionarie


Il 1975 non è solo l’anno della dolorosa forzata chiusura delle Case in Vietnam e in Cambogia. Fortunatamente, negli annali della vita della congregazione questo anno sarà ricordato per un altro motivo, molto più allegro ed edificante: il 1975 è l’anno del venticinquesimo anniversario della fondazione dell’ordine, una data importante ed un traguardo che Madre Teresa e le sue consorelle - unitamente ai rami maschile e laico della congregazione - festeggiano solennemente col cuore e l’animo rivolto al Cielo in segno di ringraziamento al Signore. È il primo Giubileo delle Missionarie della Carità che la madre fondatrice dell’ordine celebra il 7 ottobre 1975. Per onorare degnamente tale ricorrenza, Madre Teresa stabilisce - tramite una lettera inviata alle Case della congregazione - tutte le regole a cui le suore dovranno attenersi. In primo luogo, scrive la fondatrice, in ogni Casa si dovrà “celebrare una solenne Messa di ringraziamento al Signore, invitando tutti i nostri benefattori ed i nostri poveri ad unirsi a noi per rendere grazie a Dio per tutto quello che ha fatto per noi e per la nostra Società in questi venticinque anni, per intercessione del Cuore Immacolato di Maria”. Il Giubileo delle Missionarie dovrà avere solo un carattere squisitamente religioso e niente più. Madre Teresa vieta, in maniera tassativa alle sue consorelle di accettare per la ricorrenza regali, donazioni, forme di sprechi come la stampa di depliant o di libri illustrati sulla vita della congregazione. Tutto dovrà essere vissuto - stabilisce la suora - in un perfetto clima di letizia e sobrietà, senza inutili sprechi che - agli occhi della religiosa - suonerebbero offesa a Dio e ai tanti poveri sparsi per il mondo.
Ma il venticinquennale è anche una valida occasione per Madre Teresa per fare il punto del cammino fino ad allora svolto dalla congregazione e di ringraziare quanti - a partire dal buon cuore della Divina Provvidenza - hanno permesso alle Missionarie di mettere radici in tutti i continenti. Con questo spirito il 10 settembre 1975, a poco meno di un mese dal Giubileo, scrive una lettera al primo gruppo di consorelle che la seguirono nella Casa di Creek Lane, la prima sede ufficiale della congregazione. È un doveroso omaggio al coraggio e alla determinazione con cui l’originario gruppo accettò ad occhi chiusi la nuova avventura missionaria, senza garanzie, senza certezza per il futuro, senza mezzi di sussistenza, ma animato solamente da una profonda fede nel Signore e da una incondizionata fiducia nella fondatrice dell’Ordine.
“Dopo Dio e la Vergine - si legge nello storico messaggio scritto alle sue prime coraggiose discepole - la Madre vuole ringraziare ognuna di voi per la costante fedeltà, lealtà, umiltà e amore, specialmente per la cieca fiducia con cui l’avete seguita, senza sapere se la Società sarebbe riuscita a sopravvivere. Non c’era nulla che garantisse il futuro. Tutti questi anni di duro lavoro, con così tanta gioia, tutti questi anni d’amore e di servizio reso al più Povero dei Poveri...ed è con tutti voi e attraverso l’opera di tutti voi che Gesù ha posto le fondamenta della Società su di una salda roccia”.
Dopo il ringraziamento al nucleo originario delle Missionarie, la Madre si rivolge anche a tutte le altre consorelle entrate in congregazione negli anni successivi, oltre un migliaio di donne, giovani e meno giovani, attratte dalla vocazione per gli ultimi secondo il carisma e l’esempio di vita della prima missionaria futuro premio Nobel per la pace. “E voi altri, tutti: voi 1.100 consorelle - scrive Madre Teresa - che con tanta generosità avete seguito le orme del primo gruppo, il Signore vi conceda il Suo amore e vi tenga sino alla fine della vostra vita profondamente radicate nel Suo cuore. E tutte quelle care sorelle che hanno trascorso una buona parte della loro vita nella Società, e poi per qualche motivo l’hanno dovuta lasciare, a ognuna di loro dico: che Dio vi ami per l’amore che avete dato, per il lavoro - avete operato con tanto amore - per la gioia che avete diffuso intorno a voi. Grazie anche alle nostre sorelle che, dopo avere compiuto il loro lavoro su questa terra, sono tornate alla Casa del Padre, per intercedere per noi”.

“Insieme abbiamo lavorato per Gesù e con Gesù”


Nella lettera del 10 settembre, Madre Teresa non si dimentica di ringraziare anche le novizie, le postulanti e i tanti laici e consiglieri che danno il loro disinteressato aiuto alla congregazione, per concludere con queste parole: “Nel corso di questi venticinque anni abbiamo avuto momenti di letizia e momenti difficili. Insieme abbiamo lavorato per Gesù e con Gesù, e sempre con Maria, motivo della nostra gioia, al nostro fianco. Ringraziamo Dio per tutti i doni che ci ha dato e promettiamo solennemente che impegneremo tutte le nostre forze e tutte le nostre capacità per fare della nostra Società qualcosa di meraviglioso per Dio”.
Il Giubileo delle Missionarie della Carità dura circa un mese; viene celebrato con Messe di ringraziamento, incontri di preghiera, brevi momenti di festa - sempre all’insegna della sobrietà e della semplicità - nelle ottanta Case di accoglienza aperte dalla congregazione in tutto il mondo. Alla ricorrenza si uniscono anche i non cattolici, le comunità protestanti vicine al carisma di Madre Teresa, i seguaci delle altre religioni (indù, musulmani, sikh), le comunità ebraiche. Il venticinquennale si trasforma, così, in una gigantesca preghiera di ringraziamento, interreligiosa ed ecumenica allo stesso tempo, che Madre Teresa giudica nella sua lettera come “un’altra cosa meravigliosa” nata intorno alla vita e alle opere della congregazione. Ed è forse questo l’aspetto più gratificante del Giubileo delle Missionarie della Carità: vedere, almeno per un solo giorno, migliaia e migliaia di credenti, appartenenti a religioni diverse, uniti intorno ad una preghiera comunitaria per il Signore della vita, lodato nelle opere di assistenza organizzate nelle varie Case di accoglienza delle Missionarie della Carità alle quali guardano con rispetto e riconoscenza credenti e non credenti, cattolici, cristiani e non cristiani.

La “Magna Charta” delle giovani missionarie


La ricorrenza del venticinquennale offre, inoltre, lo spunto alla fondatrice per fare il punto della situazione generale dell’Ordine e per tracciare un’ analisi interna alla luce del lavoro fin qui svolto. In un documento scritto per scrutare dal di dentro in particolare la vita delle novizie o di quelle consorelle che, pur avendo professato i voti solenni, vivono la vocazione ancora con un certo peso, Madre Teresa traccia una sorta di “Magna Charta” della giovane missionaria. È un documento interno, severo per molti versi, ma che dimostra con quanta fermezza e dedizione Madre Teresa vive il suo ruolo di fondatrice e madre spirituale di tutte le sue ragazze. Il venticinquesimo anniversario delle Missionarie della Carità si trasforma, quindi, in una sorta di esame di coscienza generale per tutta la congregazione, alla luce del cammino fatto e in vista delle future attività socio-assistenziali che i vari rami dell’Ordine si apprestano ad affrontare sulla spinta della forte richiesta di assistenza che arriva alla Casa Madre di Calcutta dalle tante aree di crisi dei cinque continenti.
Sorprende e colpisce il fatto che Madre Teresa per festeggiare adeguatamente i primi venticinque anni di vita della sua congregazione, invece di dar vita ad una serie di festeggiamenti, invita le sue consorelle a lodare il Signore con Messe di ringraziamento e ad analizzare la propria vita di missionarie alla luce delle maggiori problematiche vissute nelle varie Case di accoglienza. Nell’esame di coscienza suggerito dalla fondatrice non mancano, infatti, termini forti e sconvolgenti come “infelicità”, “ferite”, “paure”: la Madre - consapevole che sarebbe ancora più dannoso per il proseguimento delle attività caritative se si facesse finta che all’interno dell’Ordine non ci fossero problemi - ne parla apertamente, senza paura, convinta che far finta di niente sarebbe deleterio per il cammino futuro della congregazione. Nella lettera invita, senza eccessivi giri di parole, le sue consorelle ad un confronto franco e profondo perché è fermamente convinta che le sfide future vadano affrontate con l’animo ed il cuore sgombro da pesi o da eventuali incomprensioni. Leggere questo documento significa compiere un ulteriore passo verso una più completa conoscenza del forte carattere di Madre Teresa. “In molte delle nostre comunità - scrive la suora nella sua lettera-analisi sul venticinquennale - ci sono così tanta infelicità e così tante ferite create da voi sorelle. Se foste a casa vostra, o immerse nella vita del mondo, non osereste agire in questo modo. Dovreste stare attente, per timore di perdere il vostro posto di lavoro o, nel caso voleste sposarvi, per timore che nessuno vi voglia. Avete appena preso i voti e subito cominciate con la vostra salute: ‘Non posso prendere cibo - non posso lavorare - non riesco a camminare - ho mal di schiena’. Questi alcuni dei malanni più frequenti nelle nostre giovani consorelle. Alcune di voi lavorano così poco che se per il lavoro che prestate doveste essere pagate non guadagnereste nulla - e avete fatto voto per dedicarvi al servizio reso ai più poveri dei poveri in totale gratuità e abnegazione! Alcune di voi hanno preso la cattiva abitudine di rispondere, e quella di creare disturbo nella propria comunità con la speranza di essere cambiate di comunità. E così andate di comunità in comunità, approfittando del fatto che le vostre giovani Superiore non sono in grado di esercitare su di voi il necessario controllo. Molte di voi si sono ridotte il vitto regolarmente, e poi non si vergognano di mangiare fuori orario nelle case in cui si recano in visita, oppure a Shishu Bhavan o a Nirmal Hriday, quando lì ci sono persone che muoiono letteralmente di fame. Eppure la vostra Madre è capace di lavorare fino alle ore piccole, è capace di viaggiare la notte e di lavorare il giorno. Non è umiliante per voi che io, alla mia età, possa mangiare regolarmente e fare tutta una giornata di lavoro e voi che dite di voler vivere una vita da poveri conduciate una vita oziosa?”.
Raramente Madre Teresa nel corso della sua vita di donna e di missionaria è apparsa così severa e determinata come in questa lettera-analisi. Il documento - e va ricordato che rappresenta l’esame di coscienza fatto alle giovani novizie e postulanti in occasione del venticinquesimo anniversario dell’Ordine, un’occasione, quindi, di festa e di gioia - affronta senza mezzi termini alcuni degli aspetti della vita interna dell’Ordine, sottolinea alcune storture emerse tra le consorelle ed indica la strada maestra per ritornare all’originario carisma della Missionarie della Carità. Va detto che Madre Teresa ci riesce molto bene, anche perché lei non si stanca mai di rammentare alle sue collaboratrici che la porta è sempre aperta e che nessuna deve sentirsi obbligata a restare per forza. “Chi sente di voler restare con noi - ripete infatti in più occasioni - deve sapere che questa è la nostra vita, che in cima ai nostri pensieri quotidiani ci sono i poveri che vanno serviti per il grande amore che ognuna di noi prova verso il Signore. Chi si accorge di non essere in grado di vivere questa vita o di reggere il passo contemplato nelle nostre Costituzioni è libera di lasciare”.
Tanta fermezza non può non produrre importanti frutti in quanto serve, in un certo senso, a ricompattare le fila tra le giovani missionarie e a sgombrare il campo - all’interno della congregazione - da eventuali forme di incomprensioni. Con questa impostazione l’Ordine di Madre Teresa attraversa speditamente il decennio Settanta, anni dei grandi riconoscimenti per la fondatrice delle Missionarie della Carità che culmineranno con il premio Nobel del 1979.


E arriva il tempo dei riconoscimenti


La stagione dei tributi e degli attestati di stima per Madre Teresa da parte delle istituzioni pubbliche e private tocca il punto più alto con l’avvento degli anni Settanta. Anche se già nel corso del decennio precedente alla suora erano arrivati non pochi riconoscimenti da parte della comunità internazionale. Tra i più prestigiosi, nel 1962, il “Magsaysay Award for International Understanding”, grazie al quale Madre Teresa ha modo di fondare la Casa dei bambini di Agral. Nello stesso anno su iniziativa del presidente dell’India, Rajendra Prasad, la suora viene insignita del “Padma Shri” (che letteralmente significa, “Lo splendore raggiante del loto”). Quando le arriva la comunicazione, Madre Teresa resta interdetta. Non è preparata; non si aspetta tanta attenzione da parte delle alte sfere della politica indiana.
Tanto è vero che in un primo momento è tentata di rifiutare. Ma prima di dire di no, si consulta con il suo diretto superiore, l’arcivescovo Dyer, al quale manifesta tutte le sue perplessità, a partire dal troppo tempo che avrebbe dovuto “perdere” per andare a ritirare il premio. “Eccellenza - spiega la Madre all’arcivescovo Dyer - siccome sono una suora, suppongo che non dovrei viaggiare sino a Delhi per ricevere l’onorificenza... è un viaggio lungo, qui c’è tanto da fare...”. Un modo, indiretto e elegante, per dire che tutto sommato avrebbe fatto a meno dell’importante riconoscimento. Il vescovo capisce al volo le titubanze della suora, ma subito le fa capire che lui è di avviso completamente contrario. Anzi, la sua risposta si trasforma in un perentorio ordine di partenza: “Madre - controbatte infatti monsignor Dyer - lei andrà a Delhi per la cerimonia di investitura. Nel conferirle questa medaglia, il presidente dell’India di certo intende onorare tutte le nostre Sorelle che si dedicano alle opere di carità in tutto il paese. È un gesto di riconoscimento a cui non si può dire di no...”.

Il tributo di Delhi


Madre Teresa, di fronte a tanta insistenza da parte del vescovo di Calcutta, non può più tirarsi indietro e parte per Delhi. Fa bene, perché la cerimonia di premiazione - al di là del valore simbolico legato al riconoscimento - si trasforma in un autentico tributo per la suora, accolta nella sala della premiazione da scroscianti applausi, incontenibili manifestazioni di affetto da parte delle più alte istituzioni del paese. Grazie a questo premio, Madre Teresa può finalmente constatare di persona con quanta considerazione tutto il paese che “conta” - nelle persone di politici, capi religiosi, intellettuali, primari, scienziati - segua la sua opera tra i poveri dei sobborghi indiani. Il momento più alto della cerimonia è contrassegnato da uno scrosciante applauso di tutti i presenti, che al momento della premiazione si alzano in piedi per sottolineare con più forza la loro riconoscenza verso quella esile suorina macedone assurta a paladina degli ultimi alla testa di un altrettanto esile esercito di religiose e religiosi pronti a farsi carico dei problemi degli ultimi dentro e fuori l’India. Il premier Jawaharlal Nehru, presente alla premiazione, alla fine le va incontro, le stringe la mano e le manifesta pubblicamente tutta la sua ammirazione. Madre Teresa è commossa, ma non tanto per lei: in seguito confesserà che in quel momento pensava che il riconoscimento fosse indirizzato a tutte le sue consorelle: “Il premio era stato assegnato a loro, io ero solo quella a cui era stato consegnato: era tutta l’opera delle consorelle che veniva onorata”.
Gli anni Settanta iniziano con un altro importante riconoscimento, questa volta dal Vaticano su iniziativa di Paolo VI. Nel gennaio del 1971, Madre Teresa e la sua congregazione ricevono, infatti, il primo premio “Giovanni XXIII” dedicato alla pace nel mondo: è un assegno di diecimila sterline che le Missionarie della Carità utilizzano subito per costruire un centro di accoglienza per i malati di lebbra a Madhya Pradesh su un ampio appezzamento di terreno ricevuto in dono dalle autorità indiane. Anche in questa circostanza la suora accetta dopo essersi consultata con il suo diretto superiore, l’arcivescovo di Calcutta, anche se non le passa mai per la testa - nemmeno per un solo attimo - di opporre qualche resistenza, trattandosi di un riconoscimento deciso dal Papa in persona. A turbare, in qualche modo, la sensibilità della Madre è la parte economica del premio, quelle diecimila sterline che a suo dire potrebbero andare contro l’ordinamento delle Costituzioni, dove c’è chiaramente scritto che la congregazione non deve accettare somme di denaro da nessuno. La scappatoia viene subito trovata con la “immediata” prospettiva di destinare il finanziamento alla costruzione di una nuova Casa di accoglienza per una particolarissima categoria di bisognosi, i malati di lebbra, per i quali avere a disposizione una nuova Casa è di vitale importanza. Di fronte a questa prospettiva di concreta carità, cadono anche le più piccole incertezze e il premio viene accolto senza riserve da Madre Teresa.
Dal Vaticano agli Stati Uniti d’America, dove lo stesso anno - il 15 ottobre 1971 - la fondazione “Joseph P. Kennedy jr” le conferisce un altro importante riconoscimento per l’ opera missionaria svolta tra le metropoli americane. Il premio - che Madre Teresa ritira con tanta gioia e profondo senso di rispetto per le autorità americane - consiste in un vaso di cristallo sul quale è stata incisa una figura di San Raffaele e a corredo della motivazione una frase della stessa fondatrice delle Missionarie della Carità: “A Madre Teresa, i cui sforzi hanno saputo creare qualcosa di meraviglioso per Dio”.
Dopo pochi mesi, nel 1972, si fa ancora una volta avanti l’India con un altro importante tributo, il “Premio Nehru per la solidarietà internazionale”. Questa volta la madre non ha dubbi: autorizzata come sempre dai suoi superiori, si reca senza esitazione alla cerimonia di consegna, pienamente convinta che con quel premio le autorità indiane, oltre a manifestare la loro attenzione verso le opere delle Missionarie della Carità, vogliono ancora una volta esprimere tutto il loro rispetto per le sue consorelle, i collaboratori laici e ogni singola persona che, dentro e fuori l’India, si sente vicino alla congregazione. Convinzione che trova puntuale riscontro nella motivazione ufficiale che accompagna il premio. Madre Teresa, si legge infatti nell’encomio, viene presentata come “una delle più notevoli manifestazioni di carità nel mondo”. La suora, sanciscono i giurati responsabili dell’assegnazione del premio “Nehru”, è stata d’esempio per tanti devoti (consorelle, fratelli, professionisti, laici, esponenti di altre religioni) che in tutto il mondo hanno attivato iniziative di carità per i più poveri e per gli emarginati che, senza l’aiuto delle Missionarie della Carità, erano destinati ad un sicuro abbandono, privi di qualsiasi forma di sostentamento, senza amore e privi di qualsiasi manifestazione di affetto.
Tra i tanti premi, spicca anche qualche importante riconoscimento per il suo fondamentale ruolo all’interno del movimento interreligioso ed ecumenico. Come avviene nel 1973, quando Madre Teresa è la prima personalità ad essere insignita del premio “Templeton per il Progresso della Religione”: il suo nome viene scelto da una giuria internazionale formata da personalità del mondo della religione, studiosi, rappresentanti di enti statali ed enti ecclesiastici di diverse confessioni, tra cui spiccano i rappresentanti del cristianesimo, dell’ebraismo, del buddismo e dell’induismo. Il nome della suora prevale su una lista di 2.000 candidati scelti tra le più importanti personalità religiose del mondo. Madre Teresa accetta, anche se - al momento della cerimonia di consegna - tiene a precisare che in cuor suo non si sente di essere al vertice di una lista così prestigiosa: il mondo è pieno di bravi cristiani, ma anche di buoni fedeli di altre religioni che lavorano per i poveri, “noi - confessa - siamo solo una congregazione tra le tante”.
Tanta modestia le fa certamente onore, ma non convince quasi nessuno. Ormai - al di là del premio - Madre Teresa è una figura internazionale di grande prestigio, un esempio per potenti o semplici uomini della strada che travalica i confini dell’India per toccare le aree più lontane e disparate.

L’anno della Fao


Come dimostra il 1973, l’anno in cui la Fao - l’organizzazione alimentare delle Nazioni Unite - decide di dedicare la sua medaglia annuale, la famosa Cerere-Fao, al volto di Madre Teresa. Anche questa scelta è una sorpresa, del tutto inaspettata, per la diretta interessata. La richiesta le viene rivolta dal presidente della stessa Fao, R. Lloyd, che in una lettera le domanda: “Madre, acconsentirebbe ad essere la nostra Cerere-Fao? Saremmo commossi se acconsentisse”. La lettera le viene inviata il 25 settembre, ma la risposta arriva con un certo ritardo, nel dicembre del 1973. “Vi ringrazio per la vostra cortese lettera - scrive tra l’altro Madre Teresa - perdonate il ritardo. Non avevo mai sentito prima dell’esistenza di una medaglia di Cerere della Fao; sono grata a tutti voi, al medaglista inglese, e a tutti i membri della Fao, per aver proposto me per figurare sulla medaglia. Accetto soltanto se sarà per la gloria di Dio e per il bene dei poveri. Dio vi ama per tutto l’amore che avete dato alla gente del mondo, e, come gesto di gratitudine per ciò che avete fatto per la nostra gente, il mio accettare il vostro invito non è che un minimo segno di riconoscenza”. E così, dopo quel placet dato con tanto amore e riconoscenza, dopo qualche mese - precisamente nel marzo del 1975 - il volto di Madre Teresa viene impresso sulla medaglia dedicata dalla Fao a Cerere, la dea dell’agricoltura: è, praticamente, la consacrazione mondiale per la piccola suora macedone, seconda per importanza solo a un altro riconoscimento che arriverà alla fine degli anni Settanta, il Premio Nobel per la pace.
Tra i premi più inaspettati va annoverato, sicuramente, quello che le viene assegnato nel 1974 dal primo ministro della Repubblica Araba dello Yemen. È l’onorificenza della “Spada dell’Onore”, la più alta dello Stato yemenita, che Madre Teresa riceve unitamente all’invito del governo a fondare nello stesso Yemen una nuova Casa di accoglienza per i poveri del paese.

A Città del Messico per l'Anno della Donna


Verso la fine di giugno del 1975, Madre Teresa riceve un’ altra attestazione di stima, quando, su specifico invito della Santa Sede, entra a far parte della commissione vaticana presente ai lavori del Congresso Mondiale delle Nazioni Unite in programma a Città del Messico in occasione dell’Anno internazionale della Donna. Per la suora è, a suo modo, un “esordio”, carico di responsabilità perché la Santa Sede, prima di indicare una personalità che rappresenti la dottrina della Chiesa cattolica in determinati consessi (simposi, congressi, meeting interreligiosi...), ci pensa sempre bene. E quando indica un nome, come fa con Madre Teresa per il congresso dell’Onu a Città del Messico, è più che sicura che il prescelto o la prescelta rappresenteranno le istanze cattoliche nel migliore dei modi. La commissione vaticana è formata da otto personalità nominate dalla Santa Sede a livello internazionale e Madre Teresa è una di esse. È un incarico di prestigio, ma anche un riconoscimento all’opera che da anni la fondatrice delle Missionarie della Carità e il suo piccolo esercito di irriducibili consorelle svolgono in tutto il mondo. Un incarico naturalmente non cercato, ma per il quale, quando viene comunicato ufficialmente, la religiosa di Calcutta non può fare a meno di manifestare tutta la sua riconoscenza verso il Papa. È lei stessa che decide di informare direttamente le consorelle di essere stata designata dalla Santa Sede a partecipare al summit dell’Onu. Lo fa col preciso intento di coinvolgere tutta la congregazione in un momento di gioia e di così alto impegno, come lei stessa spiega poco prima di partire alla volta di Città del Messico. “Sapete da sempre che la Chiesa è tutto per me, come è tutto per voi. Per questo - confessa Madre Teresa - ho accettato di essere invitata a testimoniare l’amore di Cristo per i suoi poveri a nome della Chiesa. Dunque, starò via per circa tre settimane per prendere parte ai lavori del congresso mondiale organizzato dall’Onu per l’Anno internazionale della Donna. So che durante queste tre settimane di assenza pregherete per me. Da parte mia pregherò per voi, in modo che ci aiuteremo reciprocamente. Nella preghiera continua ci aiuteremo reciprocamente e faremo sempre ciò che Dio e la Chiesa si aspettano da noi”. Alle consorelle, Madre Teresa anticipa anche, per sommi capi, il contenuto dell’intervento che terrà a Città del Messico. “È il congresso dedicato all’Anno della Donna, cioè alla persona - sottolinea la religiosa - che da sempre svolge un ruolo determinante per la costruzione della pace nel mondo, a tutti i livelli, come madre, come sorella, compagna, amica, oppure come responsabile di istituzioni, di comunità o di realtà socio-politiche. Al di sopra di tutto, avverte Madre Teresa, non va mai dimenticato che “l’amore comincia a casa”, per cui, “se una donna svolge il proprio ruolo nella famiglia, se c’è pace intorno al suo nucleo, ci sarà pace nel mondo”. E ancora: “Esiste un potere della donna che nessun uomo può supplire, il potere di dare la vita, il potere dell’amore...la grandezza delle donne sta nel loro amore verso gli altri, non verso se stesse”. Come esempio pratico, Madre Teresa, nell’anticipare alle consorelle il contenuto delle parole che pronuncerà al congresso dell’Anno internazionale della Donna, parla della esperienza maturata a Cuba accanto alle donne sconosciute che nessuno voleva e che nessuno amava, “donne - ricorda con amarezza - costrette a vivere sulla strada”. Quando davanti ai delegati del congresso Onu solleverà questo problema, non mancherà di lanciare un vibrante appello alla conferenza perché tutti si rendano conto di quanta ingiustizia “ancora oggi grava sulle spalle di tante, troppe donne: sfruttate, umiliate, maltrattate, costrette a subire le umiliazioni più cocenti”. “È una ingiustizia - grida Madre Teresa, - una ingiustizia che offende Dio, le donne e ogni persona di buon senso; uno scandalo che va doverosamente denunziato e rimosso anche perché, conclude la religiosa, “ciò che regge il mondo è l’amore delle donne di cui nessuno sa niente”.
Madre Teresa quando parla in pubblico usa sempre un linguaggio profondamente ispirato ai valori evangelici, ma non per questo meno semplice, diretto, coinvolgente. Ha un modo di esprimersi accessibile a tutti e - particolare che piace tanto ai piani alti della gerarchia cattolica, Vaticano compreso - sempre in linea con i più profondi principi della dottrina sociale della Chiesa. Forse per questo, col passare del tempo, i vescovi e le comunità cattoliche fanno a gara nell’averla come relatrice in simposi e convegni.

Al bicentenario Usa


Madre Teresa, quando può, accetta volentieri, perché sente che la parola di Dio si può diffondere con le opere di carità, con l’esempio, ma anche con il dialogo. Dopo la partecipazione al congresso Onu per l’Anno internazionale della Donna, nel 1976 è tra i relatori impegnati negli Usa a celebrare il bicentenario della fondazione degli Stati Uniti. Per questa importante ricorrenza, la comunità cattolica statunitense organizza a Filadelfia un congresso internazionale dedicato alla Eucarestia Oggi. All’apparenza, è un tema esclusivamente religioso, forse adatto per essere discusso solo in un consesso a carattere tipicamente ecclesiale da suore e preti. Madre Teresa riesce, invece, con il suo intervento a trasformarlo in una analisi dei mali più ricorrenti che gravano sulla società, seguendo un ragionamento strettamente legato al messaggio evangelico così come ci è stato tramandato nel sacrificio dell’Eucarestia, dell’ultima cena di Gesù. Dalla tribuna del congresso di Filadelfia parla, dunque, di Cristo, del Suo sacrificio sulla croce e del messaggio di speranza culminato con la croce del Golgota; parla della grande attenzione evangelica per gli ultimi, per gli abbandonati: spiega quanto sia attuale quel “beati gli ultimi, i miti e gli afflitti” lanciato da Cristo dal Monte delle Beatitudini, un messaggio - ricorda la suora - sempre attualissimo e che impegna in primo luogo il cristiano di ogni epoca a farsi carico dei bisogni dei più deboli.
Tesi portante dell’intervento di Filadelfia è la ferma convinzione dell’esistenza - in ogni epoca e in tutte le latitudini - di un costante e stretto rapporto tra insegnamento evangelico e sofferenze del mondo, tra messaggio di speranza cristiana e mali che affliggono i fratelli più sfortunati, tra certezza della salvezza finale nelle braccia del Padre celeste e momentanea apparente sconfitta (sociale, economica, personale) dovuta a malattia, limiti caratteriali, sfortuna, sfruttamento...
“Oggi - spiega al congresso del bicentenario della fondazione degli Stati Uniti d’America - Gesù vive la propria Passione nei giovani del mondo; in quei giovani che soffrono, che hanno fame, che sono handicappati; nel bambino che mangia un pezzo di pane, briciola dopo briciola, perché quando quel pezzo di pane sarà finito non ce ne sarà un altro e la fame tornerà. Questa è una Stazione della Croce”. Ma tutti i mali della società contemporanea, insegna Madre Teresa, volendo, possono essere affrontati, vissuti e vinti con la stessa determinazione con cui Cristo affrontò tutte le Stazioni della sua Passione prima di ascendere, con la croce sulle spalle, il Calvario, subire l’onta della morte e, infine, diventare il Signore della vita con la resurrezione.
In attesa del Premio Nobel - come già abbiamo visto - sono tanti i riconoscimenti ricevuti da Madre Teresa in molte parti del mondo. Oltre a quelli di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti, va ricordata la laurea honoris causa conferitale il 2 novembre 1975 dalla St. Francis Xavier University di Antigonish, nella nuova Scozia. Nella motivazione, letta nel corso di una solenne cerimonia al cospetto di un migliaio di invitati, il preside della Facoltà, reverendo Malcom McDonnell, elogia con parole profonde e semplici la sua opera accanto ai poveri in tutto il mondo. La indica ad esempio per quanti hanno a cuore il bene degli altri, specialmente dei più bisognosi e sfortunati; ma ne parla anche come donna pratica, concreta, amante della giustizia e della semplicità, per niente interessata alle apparenze e agli onori mondani. “E proprio perché ci rendiamo conto di questo - specifica il reverendo nella sua prolusione - che siamo così desiderosi di averla in visita da noi e di poterle conferire questa laurea honoris causa in legge. Cara Madre, non solo noi abbiamo bisogno della benedizione della sua presenza, ma i docenti e tutti noi siamo poveri tanto quanto la gente a cui lei sta dedicando la sua vita, anche se i nostri bisogni e la nostra povertà sono di tipo differente. In ogni passo della vita c’è bisogno di ispirazione, e noi non facciamo eccezione. Grazie, cara Madre, per essere qui tra noi e averci onorati nell’accettare questa nostra laurea”.

In attesa del Nobel


Anche il 1976 è un anno intensissimo. Oltre ai premi internazionali - tra i tanti è doveroso ricordare il nuovo tributo che riceve dalla sua amata India per mano di Indira Gandhi, il Deshikottama, una laurea ad honorem in letteratura - Madre Teresa ha modo di toccare con mano quanto grande sia diventata la sua opera in tutto il mondo sia per il numero delle vocazioni che dei volontari laici. Il nuovo riconoscimento le arriva il 3 marzo 1976: Indira Gandhi, in qualità di cancelliere della prestigiosa Viswa Bharati University, le consegna il Deshikottama in segno di profonda riconoscenza - spiega nella motivazione - per l’ importante contributo fornito per il riscatto dell’umanità sofferente in tutto il mondo, al di là delle differenze politiche, razziali, religiose e sociali. “A guardarla, cara Madre, lei è minuta e piccolissima, ma in lei non vi è nulla di piccolo”, confesserà la signora Gandhi al momento del conferimento del nuovo prestigioso riconoscimento alla religiosa.
Dopo qualche mese da quella cerimonia, Madre Teresa è chiamata a presenziare a Lippstadt, nella Repubblica Federale Tedesca, un importante incontro internazionale di collaboratori delle Missionarie della Carità. Il meeting si svolge il 15 e il 16 agosto del ’76. Vi prendono parte rappresentanti laici provenienti da tutto il mondo che hanno modo di scambiarsi esperienze, ascoltare la Madre fondatrice, fare progetti di solidarietà per il futuro. I collaboratori torneranno a riunirsi sei anni dopo a Roma, il 15 e il 16 maggio del 1982, e sempre alla presenza di Madre Teresa che, però, non gradisce eccessivamente questi tipi di incontri, perché istintivamente contraria a criteri organizzativi eccessivamente rigidi, come in genere fanno le altre organizzazioni laiche o religiose. Alla Madre interessa che, sia le sue consorelle sia i collaboratori laici, si facciano sempre guidare da una sorta di istintiva “disorganizzazione” per non dover mai rinunciare alla libertà.
È un concetto che può apparire difficile da capire per chi conosce appena superficialmente il carisma delle Missionarie della Carità. Madre Teresa lo sa e per questo non si lascia mai sfuggire l’occasione giusta per spiegarlo ai suoi interlocutori. Come fa, ad esempio, nell’incontro con i collaboratori che si svolgerà a Roma nel maggio del 1982: “Confido che i collaboratori - dirà in quella occasione - non diventino una organizzazione come tante altre. Siamo solite dire che noi Missionarie della Carità costituiamo l’organizzazione più disorganizzata. A volte penso che siamo effettivamente molto disorganizzate, ma credo anche che proprio per questo possiamo muoverci con maggior libertà, senza tutto il peso di regolamenti che ce lo impediscano”.
In un successivo incontro con i collaboratori che si terrà nel maggio del 1988 a Parigi, Madre Teresa - oltre a tornare a ribadire i suoi antichi concetti di libertà ed efficienza anche a discapito di una perfetta organizzazione - provvederà a designare una nuova coordinatrice per il Sud Africa.

“Cari fratelli per la nostra opera noi non accettiamo danaro”


Ai meeting internazionali dei collaboratori - che come abbiamo visto si svolgono in genere ogni sei anni - Madre Teresa ama parlare a lungo per rinverdire le finalità della congregazione, rilanciare idee, programmi e carismi. Ecco, ad esempio, cosa ricorda all’incontro di Lippstadt: “Cari collaboratori e consorelle noi dobbiamo riporre il massimo impegno nel fare del nostro lavoro un’opera d’amore e, per mantenerlo tale, questo nostro lavoro deve basarsi sempre sul sacrificio”. “Come ben sapete - continua Madre Teresa - facciamo voto di donarci con tutto il cuore al servizio generoso dei poveri più poveri, e grazie a questo voto, riponiamo tutta la nostra fiducia nella Divina Provvidenza. Noi non accettiamo alcuna retribuzione per il lavoro che svolgiamo, né, tantomeno, costituiamo un’organizzazione che abbia come fine la raccolta di fondi. Dobbiamo compiere l’opera di Dio con amore e con sacrificio, se occorre. Per questo, dobbiamo precisare che tutti i soldi, i viveri, i medicinali o altre cose che riceviamo, devono essere utilizzati esclusivamente a vantaggio dei poveri affidati alle cure delle Missionarie della Carità. Questo costituisce un atto di giustizia nei confronti dei poveri, nel cui nome accettiamo le offerte. Preferirei che vi asteneste dal chiedere alla gente di contribuire secondo quote fisse, settimanali o mensili: questo non lo consento neppure in India. Dipendiamo dalla Divina Provvidenza e non mi piacerebbe che la gente avesse l’impressione che quello che ci interessa sia il loro denaro. Anche i collaboratori devono dipendere dalla Divina Provvidenza”.
Come appare evidente, a Madre Teresa sta molto a cuore il problema del sostentamento della sua congregazione, ma anche delle tante realtà - i collaboratori laici, appunto - sorte sulla scia del suo carisma. Teme, però, qualsiasi forma di dipendenza o di gratuito sfruttamento. Per cui non si stanca mai di raccomandare a consorelle, collaboratori e volontari la massima trasparenza e la totale dedizione alla causa dei poveri, anche in materia di donazioni e offerte, che, come è facilmente intuibile, col passare degli anni aumentano parallelamente alla crescita delle opere attivate dalle Missionarie della Carità. Ma non per questo, puntualizza Madre Teresa nel suo discorso all’incontro del 1976 a Lippstadt, bisogna rifiutare per partito preso gli aiuti che possano arrivare da amici e simpatizzanti. “ Se la gente offre volontariamente del denaro, sia benedetto Iddio - esorta la suora - ma per favore, evitate impegni a scadenza fissa, che vi obbligherebbero a perdere tempo nel riscuotere i soldi e nel tenere la contabilità. E, mi raccomando ancora, non fate annunci, né scrivete lettere circolari per questue, né fate cose destinate alla vendita: dobbiamo portare lo spirito di sacrificio nella vita delle persone. Credo che sia così che ci vuole Gesù, e non mi stancherò mai di ripeterlo. Offriamo tutti i nostri atti per la gloria di Dio e preghiamo perché ci aiuti a divenire strumenti di pace, di amore e di bontà. Desidero insistere su una cosa: dobbiamo trasformare il nostro lavoro per i poveri in un’opera d’amore; ma per fare questo, dobbiamo coltivare in noi lo spirito di sacrificio. Non accettiamo alcun compenso materiale per il nostro lavoro, né vogliamo diventare un’organizzazione per la raccolta dei fondi”. “Siamo e continueremo ad essere - è il leitmotiv che Madre Teresa non si stanca mai di ripetere - una organizzazione che raccoglie amore per donarlo agli altri, offre misericordia fraterna, e vorrà sempre essere uno strumento nelle mani di Dio per il bene dei poveri e degli ultimi”.
Ma cosa sono, in realtà, i collaboratori di Madre Teresa? Sono gruppi di persone - sia uomini che donne - che, anche senza professare i voti solenni, accettano in tutto e per tutto la scelta preferenziale dei poveri operata dalle Missionarie della Carità. Dal 29 marzo 1969, su decisione di papa Paolo VI, i collaboratori hanno anche uno Statuto che regola la loro vita comunitaria. È una sorta di Costituzione secondo la quale “il collaboratore sceglie una forma di vita che lo porta a vedere Dio in ogni essere umano. Vedendo Dio in ogni persona, iniziando ciascuno da coloro che gli sono più vicini, ci si sente pronti a condividere le sorti di coloro che sono soli, degli ammalati, degli afflitti, dei bisognosi e di coloro che nessuno ama né desidera”. Nello Statuto è anche specificato che “l’Associazione internazionale dei collaboratori consta di uomini, donne, giovani e bambini di qualsiasi razza e religione, di tutto il mondo, che cercano di amare Dio attraverso il prossimo, mediante un servizio generoso e gratuito nei confronti dei poveri più poveri, di qualunque casta e religione, e che si sforzano di unire sempre più le loro vite, con spirito di preghiera e di sacrificio, all’opera delle Missionarie e dei Fratelli Missionari della Carità”.

Lo statuto dei collaboratori


“I poveri più poveri che i collaboratori - commenta Madre Teresa - al pari dei Fratelli e delle Sorelle Missionarie della Carità, si impegnano a riconoscere, amare e servire con servizio cordiale, libero e gratuito, nello statuto, vengono definiti come coloro che ‘patiscono la fame, la sete, coloro che non hanno di cui vestirsi, i senzatetto, gli ignoranti, i prigionieri, i mutilati, i lebbrosi, gli alcolizzati, i tossicodipendenti, i moribondi abbandonati, gli emarginati e tutti coloro che si sentono considerati come un peso per la società, nonché coloro che hanno perduto ogni speranza e fede nella vita”.
Come le Missionarie e i Missionari della Carità, anche i collaboratori di Madre Teresa ben presto producono tanti ed abbondanti frutti: anche loro come le consorelle Missionarie, danno vita ad opere di carità, ad attività assistenziali e, soprattutto, ad un movimento che ben presto diventa un nuovo insostituibile punto di aggregazione per un numero sempre più consistente di vite votate ai poveri tra i più poveri.

Jacqueline “sosia” di Teresa


Figura di punta di questo movimento - a ragione considerata la più nuova creatura plasmata dal talento e dal carisma della piccola suora macedone - è Jacqueline de Decker, una giovanissima donna che riesce a trasformare i suoi tanti problemi di salute causati da un incidente stradale in un inesauribile tesoro a favore di bisognosi e abbandonati fatto di assistenza, cure, accettazione fraterna, insegnamento: proprio come per anni ha predicato Madre Teresa in ogni angolo della terra. Non a caso, la stessa fondatrice quando parla di Jacqueline la definisce amorevolmente “una mia sosia che mi somiglia in tutto e per tutto, alla quale mi unisce una stima profonda e un attaccamento fraterno”.
Ebbene, conosciamola un po’ più da vicino questa piccola grande “sosia” della fondatrice delle Missionarie della Carità, la cui avventura spirituale ed umana è collocabile ai primissimi posti all’interno del movimento delle Missionarie della Carità, essendo una religiosa che sarà capace di trasformare il suo personale dolore fisico in una continua testimonianza di fede e di attaccamento alla causa dei poveri.
Jacqueline e Madre Teresa si incontrano per la prima volta a Patna, nei mesi in cui la religiosa futuro Premio Nobel per la pace è chiamata a seguire un corso di addestramento ospedaliero. Le due consorelle fin dai primi approcci capiscono subito di essere in sintonia in materia di vocazione religiosa, ispirata all’aiuto incondizionato ai poveri tra i più poveri. E per questo, fin dai giorni di Patna, Jacqueline confessa subito alla Madre di voler entrare nella sua nuova congregazione. Desiderio, però, messo subito a dura prova per i suoi gravi problemi di salute, emersi fin dall’età di 15 anni in seguito ad un grave incidente stradale. Malgrado i tanti ricoveri e i numerosi interventi chirurgici, la ragazza, in un primo momento, riuscì a recuperare parte del suo originario vigore fisico ma, con il passare del tempo, l’impossibile clima dell’India minò ulteriormente la sua salute. Da qui la decisione di far rientro ad Anversa per iniziare una nuova serie di cure.
Trasferitasi in seguito in Belgio, i medici le scoprono una grave malformazione alla colonna vertebrale, aggravata dal fatto che Jacqueline ha un corpo facilmente attaccabile da gravi forme tumorali. Malattie e acciacchi che ben presto incominciano a trasformarsi in pericolosissimi sintomi di paralisi che partendo dalle braccia, tendono a bloccarle tutto il resto del corpo. Per evitare il peggio, la ragazza viene sottoposta ancora ad una nuova serie di interventi in ospedali e case di cura. Trascorre quasi un intero anno completamente ingessata, con la nuca e buona parte del corpo bloccati dalle protesi. Passano i mesi, e i medici decidono di applicarle altre dodici protesi alle vertebre.
Jacqueline, malgrado le cure e gli interventi chirurgici, si convince che non guarirà più e che - cosa ancora più grave per la sua vocazione - non potrà fare più ritorno in India per dedicarsi ai poveri tra i più poveri nelle Missionarie della Carità. Per lei è un choc. Qualsiasi persona al suo posto si sarebbe lasciata andare, vittima della disperazione e della rabbia. Jacqueline, invece, non si arrabbia, non si scaglia contro nessuno: accetta tutto con cristiana rassegnazione. Anzi, malgrado gli acciacchi, la cattiva salute e un corpo che ormai non risponde quasi più agli stimoli del suo cervello, decide ugualmente di servire Dio. Per capire la vera natura di questa scelta, vale la pena ancora una volta ricorrere ai ricordi di Madre Teresa, la quale non si è mai lasciata sfuggire l’occasione di rammentare alle sue allieve la grande lezione di vita ricevuta dalla sfortunata Jacqueline de Decker.
“Jacqueline - ricorda Madre Teresa nei suoi diari - ha lavorato in India per alcuni anni. Ma, per motivi di salute, è stata costretta a passare la sua vita in Belgio. Ha dovuto subire quasi una trentina di operazioni chirurgiche. Una volta mi disse: ‘So che sto per ricevere una grande grazia dal cielo, perché ultimamente i miei dolori sono aumentati’. Quei dolori e quelle sofferenze, Jacqueline li ha sempre offerti all’opera delle Missionarie della Carità. A sua volta si è incaricata di coordinare diverse migliaia di persone che pure offrono le loro sofferenze a vantaggio del successo spirituale dell’opera delle sorelle. Incontrai la signorina Jacqueline de Decker per la prima volta nell’ospedale della Sacra Famiglia di Patna, dove mi ero trasferita dopo aver lasciato il convento della congregazione delle suore di Nostra Signora di Loreto, nel 1948”.

“Le preghiere delle contemplative”


“Jacqueline avrebbe voluto lavorare con noi - continua ancora Madre Teresa - entrando a far parte della nostra congregazione religiosa, ma la sua salute non glielo permise e si vide costretta a tornare in Belgio dopo due anni di permanenza in India. Poco dopo il rientro in Belgio di Jacqueline, nel 1952, io le scrissi una lettera in cui dicevo: ‘Ti sottopongo una proposta che sono certa ti farà molto felice. Perché non unirti spiritualmente alla nostra congregazione? Mentre noi compiamo il nostro lavoro nei suburbi, tu puoi condividere il merito, le preghiere e il lavoro stesso, per mezzo delle tue sofferenze e preghiere. Il lavoro è enorme. Io ho bisogno di collaboratori nel lavoro, è vero, ma ho anche bisogno di anime che, come te, preghino e offrano le loro sofferenze per il lavoro stesso. Non vorresti divenire mia sorella e Missionaria della Carità, rimanendo con il corpo in Belgio, ma essendo con l’anima in India e nel mondo intero, ovunque vi siano anime che anelano a Nostro Signore, ma che non si sentono capaci di andarGli incontro in mancanza di qualcuno che saldi i loro debiti? Tu sarai una vera Missionaria della Carità, pagando i loro debiti, mentre le sorelle - le tue sorelle! - li aiuteranno ad avvicinarsi a Dio con il corpo. Prega per questa intenzione e fammi conoscere la tua decisione. Io ho bisogno di molte persone come te che in questo modo si associno alla congregazione, giacché il mio desiderio è di contare su: primo, una congregazione gloriosa in cielo; secondo, una congregazione che soffre sulla terra anche con i suoi figli spirituali; terzo, una congregazione militante, vale a dire con tutte le sorelle che si trovano sul campo di battaglia. Sono convinta che ti sentirai felice più di quanto non veda le sorelle che combattono contro il male nel campo delle anime. Nostro Signore deve per forza amarti molto, se ti offre di condividere una porzione così grande delle Sue sofferenze. Tu sei fortunata, perché Dio ti ha eletto. Sii buona e generosa, e riservami un posto nel tuo cuore, affinché possa condurre molte anime a Dio. Quando entri in contatto con le anime, la sete aumenta di giorno in giorno”.

La generosità di Jacqueline


Parole così profonde lasciano inevitabilmente il segno, in particolare in una persona come Jacqueline che, istintivamente vive lo stesso trasporto vocazionale di Madre Teresa. Così, la piccola sfortunata de Decker diventa il punto di riferimento del ramo contemplativo delle Missionarie della Carità aperto agli ammalati gravi e senza speranza di guarigione. È una vera e proprio rivoluzione, un autentico ribaltamento di una situazione di sconfitta iniziale dovuta a motivi di salute, che porta Jacqueline a diventare il fulcro di una nuova iniziativa di preghiera all’interno della congregazione che ben presto si ramificherà in tutte le Case di accoglienza delle Missionarie della Carità.
“Grazie alla generosità di Jacqueline - continua il ricordo di Madre Teresa - si costituì il primo gruppo di Collaboratori infermi e sofferenti. Allora io indirizzai a lei e agli altri una nuova lettera: ‘Sono lieta, le scrissi, che siate desiderosi di unirvi ai membri che soffrono all’interno delle Case e degli ospedali della Missionarie della Carità. Voi, tu Jacqueline, e tutti gli altri infermi e sofferenti, prenderete parte a tutte le nostre preghiere e a tutti i nostri lavori e a tutto ciò che facciamo per le anime: voi stessi, mediante le vostre preghiere e sofferenze, farete altrettanto. Come sapete, l’obiettivo della Congregazione consiste nell’appagare la sete d’amore che Gesù sulla croce prova per le anime, lavorando per la salvezza e la santificazione dei poveri delle borgate. Chi potrebbe farlo meglio di te, cara Jacqueline, e di tutti gli altri che, come te, soffrono? Le tue sofferenze e le tue preghiere saranno come il calice in cui noi, membri attivi, lasciamo stillare l’amore delle anime che andiamo riunendo. Perciò, voi siete altrettanto importanti e necessari quanto noi in ordine alla realizzazione del nostro obiettivo. Per appagare la sete di Gesù, noi dobbiamo essere come un calice, e tu e gli altri, uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, poveri e ricchi, siete i benvenuti a formare questo calice. Figlioli miei: amiamo Gesù con tutto il cuore e con tutta l’anima. Conduciamo a lui molte anime. Non mancate di sorridere. Sorridete a Gesù nelle vostre sofferenze. Per essere autentici Missionari della Carità dovete essere vittime d’amore. Come si rivela bella la vostra vocazione: essere gli araldi degli amori di Dio nei suburbi.... Restiamo tutti in piedi, sostenendo il medesimo calice, e in tal modo, insieme con gli angeli, in atteggiamento di preghiera, appaghiamo la sete di anime che Cristo ha. Mi sento felice di avere tutti quanti voi. Voi mi appartenete, siete prossimi al mio cuore, così come lo è ognuna delle sorelle della mia comunità. Spesso, quando il lavoro si fa più arduo, penso a ognuno di voi e prego così Iddio: posa il tuo sguardo su questi miei figli che soffrono, e per amore loro, benedici il mio lavoro. Ho l’impressione che questa preghiera produca frutti immediati. Come vedete, voi siete lo scrigno dei nostri tesori”.
Il ramo contemplativo degli infermi guidato da suor Jacqueline rafforza la squadra delle religiose oranti di Madre Teresa andando ad affiancare i Collaboratori di vita contemplativa coordinati da padre George Gorrée e successivamente affidato a suor Nirmala. “In generale - spiega Madre Teresa - si tratta di suore di clausura che offrono sostegno spirituale all’opera delle Missionarie della Carità per mezzo delle loro preghiere. Sono nostre amatissime sorelle che dedicano la loro esistenza alla preghiera, al dialogo continuo con Dio per il bene di tutti noi”. È un settore della congregazione che col passare degli anni crescerà in maniera sorprendente. In tutto il mondo attualmente i monasteri di clausura delle Missionarie della Carità sono centinaia. Ognuno di essi vive una vita autonoma fatta in prevalenza di preghiere e di meditazioni. Ogni monastero, però, è unito, tramite un gemellaggio spirituale fatto di preghiere, con una comunità di Fratelli o di Sorelle Missionarie della Carità. “Il nostro lavoro sarebbe inutile - spiega la Madre fondatrice - se non fosse fecondato dalla preghiera e dal sacrificio nostro e dei nostri Collaboratori”.

I grandi premi


“Tuttavia, l’aiuto maggiore lo abbiamo ricevuto da quei poveri battezzati che sono morti nelle nostre Case e sono andati direttamente in cielo. I nostri aiutanti più efficaci sono i quarantamila residenti delle nostre Case del Moribondo che hanno affidato la loro anima a Dio dopo aver compiuto un atto di perfetto amore nei confronti di Lui, ponendosi totalmente nelle Sue mani. Tutti loro intercedono ora per noi e per il nostro lavoro. Da qui derivano delle grazie nei confronti del nostro apostolato”.
Arriva il 1977 e la lista dei riconoscimenti internazionali di Madre Teresa continua a crescere. Questa volta è la Facoltà di Teologia di Cambridge, in Inghilterra, a volerla insignire di una nuova laurea honoris causa in teologia. La scelta, in un certo senso, è rivoluzionaria. Per alcuni versi va controcorrente. C’è persino qualcuno che, poco elegantemente, prima della cerimonia di consegna della laurea, fa notare che in fondo la suora non ha prodotto nulla di scientificamente valido in materia teologica ed accademica. Perché, dunque, assegnare un titolo accademico così importante e specifico a una religiosa che, pur con tutti i suoi meriti caritativi ed umanitari, non potrebbe essere mai presa a modello come punto di riferimento didattico-culturale in materia di teologia? L’appunto viene subito smontato - inconsapevolmente - dalla diretta interessata quando al cospetto di centinaia di invitati (docenti, ricercatori, studenti, uomini di cultura, semplici curiosi, teologi) tiene una spontanea conferenza da far invidia al più consumato studioso di teologia; come suo solito, con parole semplici ed intense, Madre Teresa al momento di ricevere la laura ad honorem ringrazia Dio parlando di amore e compassione, di sofferenze, privazioni, ingiustizie; sostiene la necessità di farsi prossimo in qualsiasi momento, davanti a qualsiasi persona, in ogni parte del mondo. Pronunzia parole forti ed impegnative, Madre Teresa, parole che vanno diritte al cuore dei suoi interlocutori, i quali al momento del conferimento della laurea si alzano tutti in piedi e la sommergono di scroscianti applausi ai quali la suora risponde con timidi cenni della testa e con le mani giunte con le quali arriva a sfiorare leggermente la fronte, in perfetto stile indiano. In pochi minuti la religiosa diventa un vero punto di riferimento teologico, vissuto non sulle fredde cattedre universitarie, ma sul campo, accanto al prossimo e specialmente a quello più sfortunato, per il quale Cristo si è immolato sulla croce. Non vedere in una figura simile un costante insegnamento teologico sarebbe da miopi. Come pure, non vedere in Madre Teresa la figura che è riuscita ad incarnare in maniera totale gli insegnamenti del Vangelo, significa non voler accettare la realtà. Va comunque detto che la prima persona che non capisce il perché di quei premi e di quelle lauree è proprio lei, Madre Teresa. È lei stessa che lo confessa pubblicamente alla fine di ogni cerimonia, mentre ancora stringe tra le mani una pergamena sulla quale è stampato il titolo accademico conseguito o ha appeso al collo una medaglia ricevuta da qualche istituzione benefica.

“Ma perché mi premiano?”


“Chissà perché mi premiano - è solita chiedersi quando le luci della ribalta di una cerimonia o di una celebrazione svolta in suo onore sono ancora accese - io sono solo una suora, un piccolo strumento nelle mani di Dio. Ma devo doverosamente spiegare che io, in cuor mio, sento che questi riconoscimenti non sono per me, ma per tutta la mia gente. Se non fosse così non li accetterei mai. Io ancora non so perché le università, i collegi o i governi mi conferiscono tutti questi titoli. Non so mai se faccio bene o male ad accettare o no: per me non significano nulla. Ma mi danno l’opportunità di parlare di Cristo a gente che altrimenti non sentirebbe forse mai parlare di Lui. Mi danno, inoltre, la possibilità di raggiungere persone che non avrebbero mai sentito parlare di emarginati, di poveri, di bambini ammalati ed abbandonati”. Nei suoi interventi pubblici - e quindi anche in occasione di conferimenti di lauree ad honorem o di premi di alto prestigio - ama parlare della vita della congregazione, additare ad esempio l’abnegazione delle sue consorelle o raccontare piccoli aneddoti, storie di vita vissuta raccolte dalla viva voce dei loro tanti assistiti. Lo fa perché è convinta che anche parlando della quotidianità, dei piccoli e grandi impegni affrontati dalle sue consorelle negli ospedali o nelle Case del Moribondo è possibile far filtrare tra le maglie di un pubblico sempre più vasto il carisma della sua congregazione, il vero volto delle Missionarie della Carità. Lo ha fatto nel corso delle precedenti premiazioni in India o in America, in Inghilterra o in Australia, e continuerà a farlo anche quando sarà chiamata a ritirare premi di grandissimo prestigio come il Nobel per la pace nel 1979, ma anche nel corso di incontri più semplici come le conferenze nei centri parrocchiali o negli ospedali. Per lei non fa differenza parlare ai potenti della terra o ad anonimi interlocutori della strada, o ancora, nel corso dei frequenti incontri, con consorelle, volontari e simpatizzanti. Ad esempio, ricevendo il premio “Templeton Award”, al cospetto del duca di Edimburgo, dedicherà il suo intervento ad un episodio capitatole nella lontana Australia. “A Melbourne - racconta la suora - mi accadde di far visita ad un vecchio della cui esistenza apparentemente nessuno sapeva; vidi la stanza in cui viveva: era in uno stato veramente terribile; volevo pulirgliela e lui continuava a ripetere: ‘Sto benissimo così’. Ma io, dura, continuai ad insistere e lui alla fine, dopo averlo quasi costretto con continue richieste, me lo permise. Mi misi subito al lavoro. In quella stanza c’era - tra le altre cose - una bellissima lampada, coperta dalla polvere di anni e anni che nessuno aveva mai tolto. Allora gli chiesi: Perché non l’accende, questa bella lampada? ‘E per chi?, rispose lui, da me non viene mai nessuno. Non ne ho bisogno, della lampada e di nient’altro. Io non ho bisogno di niente e di nessuno’. Allora io gli dissi: l’accenderebbe se le sorelle venissero a trovarla? Dopo un po’ di esitazione e di silenzio, rispose: ‘Sì, se fosse per sentire una voce umana, l’accenderei’. Detto fatto: le mie consorelle andarono da lui e lui fece come aveva promesso. E l’altro giorno mi ha mandato due righe: ‘Dite alla mia amica che la luce che ha acceso nella mia vita arde ancora’. Queste sono le persone che dobbiamo conoscere. Questo è Gesù ieri, oggi e domani, e voi ed io dobbiamo conoscere queste persone per l’amore di Dio”.
Aneddoti e storie di vita che rappresentano il nocciolo della esperienza missionaria di Madre Teresa e delle sue consorelle. Vicende, piccole e grandi, autentiche lezioni di umanità che la suora regala ai suoi interlocutori, come fa, ad esempio, al cospetto di una figura nota in tutto il mondo come la principessa Diana quando nel 1989 le conferirà il prestigioso premio “Donna dell’Anno” e che da quella occasione diventerà una delle sue più affettuose e sincere amiche. Anzi, l’amicizia che legherà, fino alla fine, Lady D e Madre Teresa sarà addirittura proverbiale: le due donne, per uno strano scherzo del destino, pur vivendo vite completamente diverse per impegni e scelte personali, non mancheranno mai di cercarsi, di incontrarsi in India come a New York, o in anonime Case di accoglienza dove la principessa - lontana da occhi ed orecchie indiscreti - amava recarsi per stare qualche ora accanto alla “sua” Madre Teresa.
Madre Teresa e Lady Diana davanti alla Casa delle Missionarie della Carità di New York


La prima volta di Lady D


Le due donne si capiscono al volo, anche con i soli sguardi, non hanno bisogno di tante parole per manifestare la loro stima reciproca. Anche se Lady D, fino alla sua tragica morte nell’agosto del 1997, continuerà ad essere - contro la sua stessa volontà - una nobile star internazionale e la suora non cesserà mai di essere il più alto punto di riferimento internazionale in materia di carità umana e di riscatto degli ultimi. Due mondi, quindi, apparentemente lontani e inconciliabili che, tuttavia, hanno in Madre Teresa e nella principessa Diana un naturale e sincero punto di incontro. La suora non lo ha mai detto pubblicamente, ma non è azzardato immaginare che durante i loro tanti incontri la principessa Diana abbia trovato in lei anche un punto di riferimento nei momenti di maggiore difficoltà personale a causa dei problemi col marito, il principe Carlo d’Inghilterra. Ma questo è uno dei pochi aspetti della vita di Madre Teresa che è rimasto sempre gelosamente custodito nell’animo delle due dirette interessate, destinato a rimanere tale anche dopo la loro scomparsa, che per entrambe, come un tragico disegno del destino, avverrà alla fine dell’estate del 1997.
Va comunque ricordato che anche gli altri membri della famiglia reale inglese hanno sempre avuto un debole per Madre Teresa. In particolare la regina Elisabetta in persona - che nel Regno Unito è anche il capo della Chiesa anglicana. Come segno tangibile della sua ammirazione, il 24 dicembre 1983 la regina decide di assegnare alla religiosa la più alta onorificenza dell’Inghilterra, la medaglia dell’Ordine al Merito, un prestigioso premio istituito nel lontano 1902. La cerimonia della consegna non avverrà subito, ma solo dopo qualche mese a causa dei numerosi impegni della suora. Dopo tanti rinvii, si decide di far incontrare le due donne - la sovrana inglese e la fondatrice delle Missionarie della Carità - in occasione della riunione dei rappresentanti dei paesi del Commonwealth del 1984, in India. La consegna della medaglia avviene nei giardini del palazzo del Rashtrapati Bhavan, la residenza inglese in India. La cerimonia è semplice e allo stesso tempo toccante, in linea con le altre precedenti cerimonie che hanno avuto come massimo punto di riferimento la fondatrice delle Missionarie della Carità.
Madre Teresa al momento di accettare l’alto riconoscimento inglese dalle mani della regina Elisabetta, nel ringraziare la sovrana spiega di aver accettato il premio a nome di tutti i suoi poveri sparsi nel mondo. La regina dopo il di-scorso ufficiale si apparta con lei col chiaro intento di conoscerla meglio e per esprimerle tutta la sua ammirazione personale e quella della sua famiglia. In particolare, la regina confessa alla suora che nella sua famiglia tutti la seguono con interesse, a partire dal principe Carlo che negli anni precedenti ha anche visitato alcune Case di accoglienza delle Missionarie della Carità. Madre Teresa ricorda, a proposito dell’incontro col primogenito della regina Elisabetta, quando il principe visitò il Nirmala Shishu Bhawan di Calcutta. Vi passò un’intera giornata accanto alle suore e ai tanti ospiti della Casa. Il principe quel giorno - ricorda Madre Teresa alla sovrana inglese - “pregò a lungo con noi nella nostra cappella”. Un gesto di grande valore ecumenico che la suora non manca occasione di ricordare, essendo i reali inglesi - anche dal punto di vista istituzionale - di religione anglicana. Ben presto anche in Lady D nasce un naturale feeling per Madre Teresa, simile a quello provato dal principe Carlo. La coppia - prima della separazione - tante volte visita i centri delle missionarie, sia in India che altrove. Tra i tanti viaggi di Carlo e Diana sulle orme di Madre Teresa, merita di essere ricordato quello del febbraio del 1992: i due principi avrebbero voluto incontrarla in una missione indiana, ma non fu possibile perché la suora fu costretta a fermarsi a Roma in seguito ad una serie di improvvisi disturbi cardiaci accusati durante un viaggio in Messico. Lady D, venuta a conoscenza dell’accaduto, si precipitò a Roma, nella Casa di S. Gregorio al Celio, e trascorse diverse ore - al di fuori dei crismi della ufficialità e dei protocolli - come una vecchia amica insieme alla Madre e alle sue missionarie. Altri incontri simili tra le due donne si terranno ancora negli anni successivi, anche quando la principessa non sarà più accanto al principe Carlo, ulteriore prova della profonda amicizia esistente tra loro. Va detto, però, che il primo membro della famiglia reale inglese a incontrare Madre Teresa non è stato né Carlo e né Lady D, ma il principe Filippo, marito della regina Elisabetta e padre dello stesso Carlo. L’occasione fu la consegna alla suora del premio Templeton per la “Promozione della Religione”, avvenuta il 25 aprile del 1973. Nel discorso ufficiale il principe Filippo elogia con forza l’impegno umanitario della suora, la cui esistenza - asserisce il consorte della regina - “è la prova concreta delle grandi cose che l’uomo può fare quando è animato e spinto da una fede veramente grande”. “Il suo operato, cara Madre, è degno di ammirazione sotto ogni aspetto e il mondo moderno - ammette il principe - ha un disperato bisogno di questo genere di bontà, di questa compassione pratica”.
Va ricordato che il premio Templeton è assegnato dai reali inglesi ogni anno a personalità che si distinguono nella diffusione della conoscenza di Dio nell’umanità. Nell’edizione del 1973 Madre Teresa prevale su circa duemila candidati: la commissione esaminatrice, composta da 9 giudici, la sceglie all’unanimità. Nella motivazione che accompagna l’assegnazione del premio, è scritto che Madre Teresa è stata, tra l’altro, “strumento della diffusione e dell’approfondimento della conoscenza umana di Dio e del suo amore, incentivando di conseguenza la qualità della vita che rispecchia il divino”. Il principe Filippo, come abbiamo già visto nelle pagine precedenti, avrà l’onore e il piacere di consegnare un altro importante riconoscimento inglese a Madre Teresa, la laurea honoris causa in Teologia conferitole dall’Università di Cambridge.
La regina Elisabetta, il principe-consorte Filippo, il principe ereditario Carlo e sua moglie Diana: tutta la famiglia reale inglese è affascinata dalla figura di Madre Teresa.

Arriva il 1979 l’anno del Nobel


Con Lady D il fascino e l’ammirazione si trasformano in amicizia sincera, che abbatte distanze, etichette protocollari per diventare dialogo continuo, voglia di vedersi, parlarsi, scambiarsi consigli e impressioni. Fino alla fine: fino al 1997, quando nel giro di pochi giorni il mondo sarà privato della presenza di Diana e di Madre Teresa, la prima in seguito ad un drammatico incidente automobilistico in una strada di Parigi, la seconda, cinque giorni dopo, il 5 settembre 1997, dopo una lunga agonia trascorsa lottando contro una malattia che la consumerà lentamente sotto gli occhi - commossi e silenziosi - di tutto il mondo.
Ma prima di arrivare a raccontare quella drammatica estate del ’97, resta da vedere da vicino ancora una ventina d’anni di vita di Madre Teresa, anni di intenso lavoro, di testimonianza, di lunghi viaggi e di grandi riconoscimenti internazionali che culmineranno con il Premio Nobel per la pace, forse uno dei momenti più significativi che contrassegnano l’avventura terrena della piccola suora macedone-albanese e delle sue consorelle.
Parlare di Nobel significa indicare il più alto riconoscimento riservato ad una personalità distintasi nei vari campi della cultura, delle scienze e delle attività umanitarie; quello per la pace è assegnato ogni anno dall’Accademia delle Scienze della Norvegia, i cui giurati spesso e volentieri scelgono autonomamente il vincitore sulla base di criteri politici, umanitari, religiosi. Quasi sempre il vincitore è una personalità benemerita che ha dedicato la sua vita alla promozione della pace anche attraverso scelte rivoluzionarie, o attraverso difficili mediazioni, o, ancora, testimoniando la carità, promuovendo l’aiuto per chi soffre, difendendo i diritti dei deboli e degli oppressi.
Madre Teresa è una di queste personalità. Nel 1979 è la prima personalità cattolica, per di più donna, ad essere insignita col Nobel per gli alti meriti conseguiti nella ostinata ricerca della pace attraverso le opere di carità per i poveri di tutte le nazioni, di ogni colore politico, di qualsiasi orientamento sociale e religioso. Un’autentica pietra miliare nella storia della Chiesa di fine millennio, ma anche una personalità che è riuscita a fare breccia nei cuori più disparati e lontani, negli ambienti più difficili e, a volte, persino pericolosi. Il premio Nobel del 1979 “certifica”, in un certo senso, il grande tributo della comunità internazionale verso Madre Teresa, anche se lei - come ha sempre fatto in occasione degli altri precedenti premi - tiene a puntualizzare di accettarlo a nome dei suoi poveri e per la gloria di Cristo. Come è suo costume il sì non lo pronuncia subito. La prima frase che le scappa di bocca quando le comunicano, dall’Accademia di Norvegia, di essere stata insignita del premio Nobel per la pace è un secco e lapidario “non ne sono degna”. Istintivamente, vorrebbe dire di no. “Non ne sono degna”, ripete ai suoi più stretti collaboratori, la stessa frase detta negli anni precedenti quando il suo nome era stato inserito nella stretta cerchia di personalità candidate - su decisione degli accademici norvegesi - al Nobel. Il 1979 è, in sostanza, la conclusione di un decennio di nomination alle quali la suora aveva sempre guardato con distacco e sincera indifferenza. Non per snobismo o perché in cuor suo abbia sottovalutato il prestigioso riconoscimento. Non ci pensa - nemmeno quando le riferiscono di essere una potenziale candidata al Nobel - per il semplice fatto che per sua consolidata abitudine non è per niente interessata alle luci della ribalta e, tantomeno, ai riconoscimenti. “Se in passato ho accettato qualche premio - ricorda sempre ai suoi interlocutori - l’ho fatto solo a nome dei poveri e nella speranza di poter diffondere ulteriormente la parola di Dio nel mondo”.
All’inizio degli anni Settanta, la prima nomination sulla spinta dell’enorme successo internazionale sorto intorno ad una intervista rilasciata da Madre Teresa alla BBC, la prima concessa ad una rete televisiva internazionale. Mai, negli anni precedenti, la suora si era esposta così tanto con i mass media. Col giornalista inglese Malcolm Muggeridge - inviato di punta della BBC - rompe idealmente un silenzio pressoché totale, rispettato fin da quando incominciò a guidare il piccolo gregge delle Missionarie della Carità, diventato via via un vero e proprio esercito di pace dislocato nelle aree più a rischio della terra. Grazie a quella intervista, Madre Teresa viene conosciuta nei cinque continenti e, conseguentemente, nel 1972 un gruppo di personalità la candida al Premio Nobel per la pace. Tra i suoi autorevoli sponsor spiccano i nomi di Lester Pearson, Premio Nobel per la pace ed ex primo ministro canadese, Lady Jackson, esponente della Pontificia commissione Giustizia e Pace, ed un nutrito numero di membri della curia provinciale dell’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio.
Come si sa, le prime nomination non ebbero fortuna, anche se il nome della religiosa non passó mai del tutto inosservato. A partire dal 1972 ad ogni edizione del Premio, il comitato pro-Madre Teresa viene sollecitato dai membri dell’Accademia norvegese a spiegare più dettagliatamente quali sono i meriti acquisiti nel campo della pace dalla fondatrice della Missionarie della Carità: in concreto, si chiedono i giurati del Nobel, questa religiosa cosa ha fatto? È stata intermediaria tra due parti in conflitto? Ha lanciato appelli contro qualche guerra? Ha preso parte a iniziative pacifiste? Le risposte a simili quesiti ruotano quasi sempre intorno a questo concetto: “Madre Teresa - spiegano agli accademici norvegesi membri del comitato promotore - dedicando la sua vita totalmente a Cristo, vedendo in ogni anima sofferente il suo Salvatore, e trattando quelle anime di conseguenza, costituendo, con le Missionarie della Carità tutte, una sorta di cittadella dell’amore nel mondo, Madre Teresa rappresentava un antidoto alla maniacale bramosia di potere, alla cupidigia e all’egoismo dai quali la violenza, individuale e collettiva, scaturisce in tutte le sue forme”. Gli sponsor, inoltre, fanno sempre notare che Madre Teresa non si lascia mai sfuggire l’occasione buona per parlare di pace e di fratellanza in convegni, durante la partecipazione a simposi, o quando ha la possibilità di confrontarsi con leader politici, rappresentanti delle istituzioni, monarchi, premier, esponenti di altre religioni, senza mai guardare al colore politico dei suoi interlocutori. Come, ad esempio, fa il 18 ottobre 1971, in Canada, a Toronto, ospite in un convegno internazionale dove davanti a scienziati e a esponenti del volontariato è chiamata a discutere sui temi legati a
l’handicap.
Negli anni successivi il nome della suora compare ancora nella lista dei candidati al Nobel per la pace sorretto da un comitato promotore diventato nel frattempo ancora più numeroso ed autorevole: ai precedenti sponsor, si aggiungono infatti nomi come Shirley Williams, segretario di Stato britannico per la tutela dei consumatori, Maurice Strong, direttore esecutivo del Programma per lo sviluppo dell’Onu, il senatore Robert Kennedy - fratello di John Kennedy, il presidente assassinato a Dallas e a sua volta vittima di un sicario durante la compagna presidenziale del 1968 -, il direttore della World Bank, Robert Mc Namara. Niente da fare: malgrado intorno al nome di Madre Teresa si fosse coagulato un comitato di sponsor così importante, per far centrare alla fondatrice delle Missionarie della Carità il traguardo del Nobel per la pace si dovrà attendere ancora. La prima persona che non se ne preoccupa minimamente è proprio lei, che getta acqua sul fuoco degli entusiasmi delusi con frasi del tipo : “Accadrà soltanto quando il buon Gesù riterrà che sia il momento: sarà Lui a deciderlo, non dobbiamo essere noi a preoccuparci di queste cose: l’importante è servire sempre con amore fraterno i poveri bisognosi, gli ammalati. Il resto conta poco, o non conta per niente. Il resto lo decide Dio”.

Il 1979, l’anno buono: arriva il Nobel per la pace


Il 1979 invece è l’anno buono. Anche se il comitato promotore, come al solito retto da Lady Jackson, non lo sa. Come negli anni precedenti sul tavolo dei saggi dell’Accademia norvegese viene depositata la petizione con la quale il nome di Madre Teresa ancora una volta è inserito nella rosa degli aspiranti al Nobel per la pace. Dopo qualche giorno di trepida attesa, quando tutti sono già pronti a sentire il nome di qualche altro candidato, da Oslo un flash di agenzia annuncia al mondo intero che il premio Nobel per la pace del 1979 è stato assegnato a una suora minuscola, racchiusa in un sari bianco a strisce azzurre, Madre Teresa di Calcutta, eletta a simbolo vivente per la carità agli ultimi tra gli ultimi. Quel primo flash d’agenzia aggiunge, inoltre, che a quella piccola suora, sarà assegnato un premio in danaro, 90.000 sterline: è un dono che quell’anno viene dato alla donna dalle cui mani i più sventurati di ogni angolo della terra hanno ricevuto aiuti fraterni, calore, sorrisi sinceri, inviti alla speranza, un sereno accompagnamento verso la meta finale per i più sfortunati.
La notizia fa ovviamente il giro del mondo in pochi attimi, mentre la sede di Calcutta delle Missionarie della Carità è letteralmente presa d’assalto da giornalisti, fotoreporter e televisioni nella speranza di poter strappare dalla diretta interessata le prime impressioni “a caldo”.
Ma l’esordio della suora nelle vesti di Premio Nobel per la pace non è dei più brillanti, specialmente agli occhi di chi vorrebbe raccogliere dichiarazioni altisonanti, magari appelli alla pace e, magari, qualche velata frecciatina polemica contro questo e quel signore della guerra. In fondo - ragionano in molti - , come minimo un neo Premio Nobel per la pace non può non pronunciare parole di condanna verso i conflitti armati o contro i potenti della terra che non si battono adeguatamente per salvare le popolazioni afflitte da fame e siccità. Da qui l’assalto alla Casa Madre delle Missionarie della Carità a caccia della fondatrice. A tutti, Madre Teresa risponde con un disarmante “non ne sono degna, perché proprio me? Ma ringraziamo Dio per questo suo dono benedetto che va interamente destinato ai poveri”.
Dopo le prime sintetiche dichiarazioni da vincitrice del premio Nobel per la pace davanti ad una muraglia di giornalisti pronta a registrare ogni sua piccolissima espressione, Madre Teresa mette fine agli assalti alla Casa Madre annunciando di apprestarsi a fare quello che normalmente ogni suora fa tutti i giorni, le orazioni quotidiane scandite dai ritmi del convento. Senza dare il minimo ascolto a chi le chiede di restare ancora un po’ per continuare a commentare la “fresca” vittoria del Nobel per la pace, si ritira a pregare nella sua stanza, senza però dimenticarsi di salutare tutti con un cordiale sorriso e un inchino con le mani giunte, e dicendo: “Ed ora andrò a ritirarmi un po’ da qualche parte. Scusatemi, vi ringrazio tutti per la vostra comprensione”.

Madre Teresa racconta il Nobel


Prima di proseguire il racconto incentrato sulle giornate norvegesi che faranno da sfondo alla cerimonia di consegna del Premio Nobel, è doveroso fermarsi un attimo per ascoltare dalla voce della diretta protagonista le sensazioni da lei provate al momento all’arrivo della notizia da Oslo e come ancora Madre Teresa appunta nei suoi diari i vari momenti della premiazione. “Una mattina - la suora non lo specifica, ma evidentemente la mattina di cui parla è riferibile a un giorno dell’autunno del 1979 - ricevemmo una telefonata dal governo di Nuova Delhi con la quale ci dissero: ‘Congratulazioni! Le è stato assegnato il Premio Nobel per la pace’. In un primo momento restai senza parole, quasi interdetta. Dissi solo interiormente: ‘Che sia per la gloria di Dio!’. Fu sorprendente: in pochi giorni ricevemmo una montagna di telegrammi di capi di Stato, di primi ministri. Ne ricevemmo persino da parte del presidente della Jugoslavia, Tito, e uno da parte del governo comunista cinese. Voglio, comunque, che si sappia che io non merito premi, né che vi ambisco personalmente. Tuttavia, attraverso di esso, il popolo norvegese ha riconosciuto l’esistenza dei poveri. Il Nobel per la pace lo accetto a nome loro”.
“Dando a me questo premio - continua Madre Teresa - lo si è dato a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, condividono il compito di servire i poveri più poveri, diffondendo tra gli uomini l’amore di Dio. Mi trovavo a Kakighat, nella Casa del Moribondo, il giorno in cui giunse la notizia del Premio Nobel per la pace. Tornando alla Casa, trovai l’uscio gremito di fotografi e di giornalisti televisivi. Domandai loro cosa facessero. Mi dissero che erano accorsi sull’eco della notizia giunta dalla Norvegia che mi era stato assegnato il Premio Nobel per la pace. E si misero a farmi fotografie. Poi incominciò ad arrivare gente. Persone di ogni genere, poveri e ricchi. E telegrammi. E lettere. Ogni giorno di più. Una volta ottanta tutte insieme. Altre volte, ancora di più...”.
Passata la prima ondata di emozione e di assalti giornalistici, la suora, aiutata da altre due consorelle, si prepara per recarsi ad Oslo, in Norvegia, dove il 10 dicembre 1979 si svolgerà la solenne cerimonia di consegna dei Nobel. Le stesse consorelle, le sue prime due postulanti, suor Agnes e suor Gertrude, l’accompagnano nella trasferta norvegese, ospiti anch’esse della manifestazione. È la stessa Madre Teresa che le sceglie “come segno di amore e di gratitudine - spiegherà al momento della partenza da Calcutta - verso tutte le nostre sorelle del primo gruppo, per aver avuto il coraggio di unirsi a noi quando ancora non c’era nulla e nessuno avrebbe potuto immaginare quanta strada avremmo fatto in seguito con l’aiuto di Dio accanto ai poveri, ai bisognosi di qualsiasi paese, agli ammalati”.

Tre missionarie in Norvegia


Il piccolo gruppo arriva ad Oslo il 9 dicembre: è un giorno freddo, la temperatura è di dieci gradi sotto zero. Su suggerimento degli organizzatori, le tre suore vengono sollecitate ad indossare abiti più pesanti sul leggero sari con cui sono arrivate dall’India. La risposta è - manco a dirlo - un deciso anche se cortese no: “A che servono altri indumenti? Noi stiamo bene così”, replicano con fermezza le religiose ai saggi consigli dei loro ospiti. Solo dopo forti insistenze, accettano di indossare calze di lana in modo da evitare di calzare i sandali con i piedi nudi come sono solite fare in tutte le altre parti del mondo.
L’arrivo in Norvegia delle tre suore è contrassegnato da una ventata di curiosità senza precedenti, mista a manifestazioni di entusiasmo e apprezzamento. In attesa della cerimonia ufficiale della consegna dei Nobel - programmata per il 10 dicembre 1979 - Madre Teresa e le sue consorelle vengono praticamente contese da autorità locali e nazionali, stampa internazionale, comunità ed esponenti di tutte le religioni presenti ad Oslo, a partire da quella protestante che organizza persino un incontro ufficiale con la ormai prossima neo Premio Nobel per la pace. I cattolici norvegesi celebrano invece messe di ringraziamento alla presenza delle tre suore, che in verità fanno tutto il possibile per essere presenti ai tanti inviti. Su un punto, però, Madre Teresa è irremovibile: non vuole assolutamente che si organizzino per lei banchetti e incontri conviviali. “Sarebbe uno spreco inutile”, spiega la suora a chi le prospetta la possibilità di un incontro ufficiale che potrebbe culminare con invitati seduti a tavola a gustare menù particolari realizzati per l’occasione in onore della festeggiata. “Se proprio volete spendere del denaro - avverte Madre Teresa - fatelo per i miei poveri, non per un banchetto destinato a invitati che in genere non hanno problemi di fame e di sopravvivenza”.
Detto, fatto: i suoi ospiti alla fine della permanenza in Norvegia, le consegnano una somma di circa 3.000 sterline “risparmiate” grazie ai mancati pranzi ufficiali, che la suora accetterà solo per destinarli ai poveri dei suoi centri di accoglienza.
Una delle più frequenti domande che viene posta a Madre Teresa riguarda il “vero” motivo della sua presenza a Oslo: “Perché, Madre, ha deciso di accettare il Premio Nobel per la pace? Lei, così schiva e così semplice, come mai ha accettato di salire alla ribalta internazionale per ricevere un premio così ambito?”. La risposta della suora è sempre cortese e puntuale e non si scosta mai da quanto ha già detto al momento dell’arrivo a Calcutta della notizia che le era stato assegnato l’alto riconoscimento: “Sono grata del dono che mi è stato assegnato dagli accademici norvegesi, dono che mi permetterà di costruire nuove Case per i senzatetto e per le famiglie dei lebbrosi. Ma vi sono grata, in particolare modo - precisa la suora - per il fatto che assegnandomi questo premio viene in un certo senso riconosciuta l’esistenza dei più poveri tra i poveri del mondo. Questo premio va a loro, non a me. Io personalmente non sono degna di tanto onore, per questo non intendo riceverlo come se fosse rivolto a me in particolare. Ma con questo premio la gente di Norvegia, gli accademici di questo paese e, insieme a loro, tutti quelli che nel mondo seguono il Nobel, hanno riconosciuto l’esistenza dei poveri e che in tante parti del mondo ci sono migliaia e migliaia di persone che non hanno niente, che sono abbandonate, umiliate, prive di qualsiasi forma di sostentamento: è a nome di questi fratelli più sfortunati che ho accettato di ritirare un premio così importante e significativo come il Premio Nobel per la pace”.
Il giorno precedente la cerimonia della consegna del Nobel, ad Oslo nella cattedrale cattolica di S. Olaf viene celebrata una Messa solenne alla presenza di Madre Teresa; analoga funzione di ringraziamento al Signore si svolge nella cappella dell’Istituto di S. Giuseppe. A conclusione della giornata d’attesa, tutti i rappresentanti delle locali confessioni religiose presenziano ad una funzione ecumenica nel duomo luterano di Oslo. Alla fine delle preghiere, tutti i partecipanti danno vita ad una suggestiva processione di ringraziamento lungo le strade del centro storico di Oslo con fiaccole accese, canti e inni di giubilo in lode del Signore e in onore di Madre Teresa: è un momento di altissimo significato unitario tra le componenti cristiane norvegesi, forse la più grande manifestazione ecumenica dall’avvio delle storiche ferite che nei secoli passati hanno contrassegnato le divisioni all’interno del popolo cristiano. Ben presto le processioni si moltiplicano per dar vita a lunghe teorie di luci che nel cuore della notte vanno a confluire in un punto di raccolta prestabilito, la sede della Società norvegese delle Missioni dove le donne luterane organizzano un ultimo incontro in onore di Madre Teresa: è un momento di grande festa cristiana, autenticamente unitaria, un momento salutato dai più come il grande miracolo compiuto da quanti - cattolici, luterani, anglicani - vivono l’amore in Cristo attraverso l’aiuto ai poveri e la scelta preferenziale per gli ultimi. È forse il momento più bello di tutta la trasferta norvegese di Madre Teresa, la quale sempre accompagnata dalle sue due consorelle partecipa a tutti gli incontri con entusiasmo e riconoscenza. Per la fondatrice delle Missionarie della Carità vedere tanta unione e spontanea emozione sorta in tutte le componenti cristiane - e quindi non solo tra i cattolici - intorno alla sua premiazione equivale ad un vero e proprio miracolo divino per il quale non smetterà mai di ringraziare il Signore: in sostanza, ogni singola confessione cristiana, ogni componente ecumenica si sente misteriosamente gratificata in prima persona nel vedere Madre Teresa insignita dal Nobel per la pace ’79. È un po’ tutto l’universo cristiano che gode nel vedere la piccola suora albanese sotto i riflettori del mondo onorata dai potenti della terra per le sue opere di carità. Miracoli simili in precedenza non si erano mai visti, a nessun livello.
Madre Teresa in attesa di ricevere il Premio Nobel per la pace all'Università di Oslo, in Norvegia


Il grande giorno del Nobel per la pace


Dopo i festeggiamenti della vigilia, arriva il grande giorno del Nobel per la pace, il 10 dicembre 1979, una data storica sotto tanti punti di vista: per Madre Teresa, per le sue consorelle e per tutte le componenti missionarie (laiche, religiose, uomini di buona volontà) per i volontari, per il personale medico, paramedico, gli inservienti, per tutti quelli che cooperano nell’ambito della congregazione delle Missionarie della Carità. Ma anche per la Chiesa, per i grandi della terra, i potenti o il semplice uomo della strada, e principalmente per i poveri tra i più poveri di ogni paese. La cerimonia si svolge nell’aula magna dell’Università di Oslo alla presenza del re della Norvegia, Olaf V, dell’erede al trono, il principe Harald, della principessa Sonja e della casa reale al gran completo; partecipano, inoltre, i membri dell’Accademia delle Scienze, diplomatici, esponenti del mondo della cultura, dell’arte, delle scienze e delle istituzioni. E naturalmente tanta, tanta stampa, giornalisti della carta stampata, fotoreporter, radio e televisioni da tutto il mondo che, senza lasciarsi scappare un solo attimo della cerimonia, registrano il più piccolo movimento, ogni minima espressione della premiata, che si presenta in aula vestita con il suo tradizionale sari bianco a strisce blu, con i soliti sandali ai piedi, con il solito rosario avvolto nelle mani e, naturalmente, con quel sorriso così semplice, vivace, spontaneo e disarmante, familiare ormai in ogni angolo della terra. Tra gli invitati di riguardo trovano posto anche volti anonimi al grande pubblico, ma familiarissimi alla diretta interessata e alle sue più strette collaboratrici, il fratello Lazar e sua figlia Aggi, arrivati dalla Sicilia, il vescovo Nicola Prela, vicario generale di Skopje in rappresentanza della terra d’origine di Madre Teresa, e una nutrita rappresentanza di collaboratori della suora, guidati dalle fide suor Ann Blaikie e Jacqueline de Decker, arrivata dal Belgio. Prima dell’assegnazione del premio Nobel - consistente in una pergamena, in una medaglia e in un assegno di 90.000 dollari che Madre Teresa anche nel momento dell’accettazione specificherà che saranno subito destinati ai suoi poveri - il cerimoniale ufficiale prevede i discorsi del presidente del Comitato del Nobel, il professor John Sannes, al quale spetta anche il compito di leggere le motivazioni che stanno alla base del riconoscimento. Anche se il professor Sannes non è la prima volta che presiede la cerimonia di consegna dei Nobel, quando invita al tavolo della presidenza Madre Teresa la sua voce si incrina leggermente, non riesce a trattenere la commozione, gli occhi gli si illuminano e un’onda di emozione investe tutta l’aula magna fin a coinvolgere anche i membri della famiglia reale.

Lacrime ed emozione per la suora del Nobel


Anche la lettura della motivazione tradisce momenti di commozione, specialmente nelle parti in cui gli accademici norvegesi sottolineano il grande valore umano, civile, sociale e religioso che da sempre contraddistingue l’opera della fondatrice delle Missionarie della Carità tra i più poveri della terra. “Il segno distintivo della sua opera - spiega il professor Sannes - è stato il rispetto per l’individuo, per il suo valore e la sua dignità. I più soli e i più derelitti, i morenti, i lebbrosi abbandonati, sono stati ricevuti da lei e dalle sue sorelle con una pietà scevra da ogni condiscendenza, e fondata sulla venerazione per Cristo in ogni uomo... ai suoi occhi, cara Madre, la persona che è, nell’accezione comunemente accettata, il recipiente, è anche colui che dona di più. Donare, donare qualche cosa di sé, ecco la vera gioia, e la persona cui è consentito dare è quella che riceve il dono più prezioso. Dove altri vedono fornitori, lei vede compagni di lavoro, a cui la lega un rapporto basato non su un’unilaterale aspettativa di gratitudine, bensì sulla comprensione e il rispetto reciproci, un contatto umano arricchente e proficuo...questa è la vita di Madre Teresa e delle sue sorelle, una vita di rigorosa povertà e di lunghi giorni e lunghe notti di fatica, una vita che lascia ben poco spazio a gioie che non siano le più alte...”.
Altrettanto sentita e toccante la parte finale della motivazione del premio Nobel assegnato a Madre Teresa. “Non ci sono modi migliori - è sempre il presidente del comitato del Nobel, Sannes, che parla - per illustrare le intenzioni che hanno motivato il comitato norvegese a conferirle il premio Nobel per la pace delle parole del presidente della World Bank, Robert McNamara, che così ha dichiarato: ‘Madre Teresa merita il Nobel per la pace perché promuove la pace nel modo più fondamentale, non stancandosi mai di ribadire l’inviolabilità della dignità umana’. Ecco, Madre, perché noi oggi la premiamo. Grazie per tutto quello che ha fatto e che continuerà a fare”.
Oslo, 10 dicembre 1979: Madre Teresa durante la cerimonia di consegna del Premio Nobel

Il successivo discorso di accettazione del premio Nobel per la pace pronunziato a braccio da Madre Teresa segnerà uno dei più alti momenti celebrativi dell’intera cerimonia. L’aula magna dell’università di Oslo, gremita di personalità, di regnanti, scienziati, letterati e governanti, si chiude in un trepidante silenzio quando lei si avvicina al tavolo della presidenza per parlare: mai prima d’ora una suora aveva avuto l’opportunità di intervenire a un consesso internazionale di tale levatura e Madre Teresa non si lascia sfuggire l’occasione di ricordare a tutti che lei, prima di ogni cosa, è sempre una suora. E infatti come primo atto di accettazione si fa il segno della croce, china il capo in segno di deferente saluto alle autorità, e poi invita tutti i presenti ad alzarsi per recitare una preghiera. Consapevole che ad ascoltarla, oltre ai pochi cattolici presenti, ci sono in gran parte luterani, anglicani, battisti, metodisti, ortodossi, sceglie un brano accettato da tutte le componenti religiose, la preghiera della pace composta da San Francesco d’Assisi. E così, grazie a Madre Teresa, sulla spinta del premio Nobel per la pace nel giro di poche ore in Norvegia si ritrovano a pregare tutte insieme le principali componenti cristiane nel nome del Poverello di Assisi e come segno di unanime ringraziamento al Signore per il Premio Nobel assegnato alla fondatrice delle Missionarie della Carità: è un autentico miracolo ecumenico assolutamente impensabile senza il “concorso” della piccola grande suora dei poveri.

La preghiera di San Francesco alla cerimonia del Nobel


Per la prima volta nell’austera aula magna dell’Università norvegese si sente un improvvisato coro di voci pronunciare con le mani giunte le famose frasi composte circa otto secoli prima da un altro gigante della Chiesa, San Francesco, il santo a cui Madre Teresa ha sempre guardato nel corso della sua vita di missionaria e di donna, il Poverello per antonomasia: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace - si trovano quasi per incanto a pregare ad alta voce regnanti, scienziati e missionarie presenti alla cerimonia - Signore, fa’ che dove vi è odio io possa portare l’amore...”. E via, via tutti gli altri versetti dell’orazione francescana scanditi dalla ferma voce di Madre Teresa, seguita , come in un solo coro, da tutti gli altri presenti in sala.
“Essendoci tutti riuniti per ringraziare Iddio del Premio Nobel per la pace - ricorderà in seguito Madre Teresa - pensai che sarebbe stato molto bello che tutti insieme invocassimo la pace. E infatti andò proprio così: fu qualcosa di meraviglioso, pregavano tutti, malgrado il fatto che, come tutti sanno, il numero dei cattolici in Norvegia sia molto ridotto”. Finita la preghiera introduttiva, la suora inizia a pronunziare il discorso di accettazione del Premio Nobel. Il tono di voce è, come è suo solito, dimesso, affabile ma deciso. Precisa subito che non è lei la vera destinataria di tanto onore, ma tutti i suoi poveri, i bisognosi, i moribondi, gli ultimi, gli abbandonati raccolti lungo le strade dei sobborghi delle grandi e piccole città. Parla degli ultimi tra gli ultimi, ricorda che “tutti noi siamo figli di Dio, anche i poveri, quelli che soffrono per malattia, per fame, per le guerre”. Ricorda ancora che ogni creatura, “anche quella che apparentemente può sembrare insignificante, inutile o inservibile, è parte del progetto divino e per questo deve essere aiutata a rialzarsi e a camminare”. Per questo, aggiunge con un tono di voce leggermente più forte, “a nessuno è lecito girarsi dall’altra parte quando per strada incontra un povero abbandonato, a nessuno è lecito sopprimere la vita di un altro, per nessun motivo e in nessuna circostanza”. Altrettanto severa la condanna dell’aborto, definito dalla suora uno dei più efferati crimini dell’umanità: “A mio parere, il più grande elemento di distruzione della pace oggi è l’aborto, perché è una guerra diretta, un diretto assassinio, da parte della madre stessa”. Nel dire queste cose, specialmente quando fa riferimento alla piaga dei bambini soppressi nel ventre materno, la suora dimostra ancora una volta di essere coerente fino in fondo, e che non si lascia condizionare da nessuno, nemmeno dalla gentilezza degli ospiti o dagli usi ed i costumi degli altri paesi. In Norvegia proprio nei giorni precedenti la cerimonia dei Premi Nobel, il governo ha varato un ordinamento legislativo con cui introduce l’aborto: ma non per questo Madre Teresa esita a far capire come la pensa al cospetto di quegli stessi governanti norvegesi quando spezza una disperata lancia a favore dei bimbi non nati. “Siamo nell’Anno Internazionale del Fanciullo - ricorda ancora la suora - e io oggi vi parlo a nome del fanciullo non nato. Abortire significa dare morte a un bambino, a un essere umano: significa non volere che il bambino viva e per questo si decide di ucciderlo. Oggigiorno, il mezzo più distruttivo che esiste contro la pace è l’aborto. Molte persone sembrano interessarsi dei bambini dell’India e dell’Africa, dove molti muoiono per denutrizione. Ma in altri paesi, sono milioni i bambini che muoiono per espressa volontà dei loro genitori. Se una madre può uccidere il proprio figlio, che differenza c’è nel fatto che ci ammazziamo gli uni con gli altri?”.
La sala dei Premi Nobel fa appena in tempo a tirare il fiato davanti a un interrogativo così inquietante, che Madre Teresa tocca un altro tema scomodo, i moribondi, i bambini che muoiono per malnutrizione, gli affamati: autentiche spine nel fianco dei paesi ricchi, che spesso su queste tematiche si mostrano disattenti, tentando di ovviare il problema girando la testa altrove o facendo finta di nulla. Ma non la scomoda Madre Teresa di Calcutta che, nella solennità del Nobel, pensa a loro, ai moribondi, e ricorda ai potenti della terra la necessità di trattarli come persone vive fino alla fine, persone alle quali bisogna avvicinarsi sempre con un sorriso, anche in punto di morte.
Nella sala dell’Accademia norvegese la suora racconta, come se fossero delle parabole evangeliche, alcuni tra i più significativi aneddoti vissuti accanto ai poveri di Calcutta: sono persone - sottolinea con forza - “degne e meravigliose, che non hanno bisogno di pietà, ma di un amore pieno di comprensione”. Per far capire meglio all’autorevole uditorio le ragioni della sua svolta missionaria - vale a dire l’uscita dalla congregazione delle suore di Nostra Signora di Loreto e la fondazione delle Missionarie della Carità - racconta di quando, una trentina d’anni prima, aveva raccolto in una strada di Calcutta una donna morente. “Quella donna - sono le sue parole che l’aula del Premio Nobel ascolta in religioso silenzio - la portai a Kalighat e chiesi alle mie consorelle di volerla assistere personalmente. Feci tutto quello che il mio amore poteva fare. La misi a letto, e sul suo viso come d’incanto apparve un sorriso bellissimo. Mi prese la mano e pronunziò una sola parola, ‘Grazie’. Dopodiché, morì in pace”.
“Davanti a quella donna - confessa Madre Teresa - non potei fare a meno di esaminare la mia coscienza e di chiedermi che cosa avrei detto al suo posto. E la risposta era molto semplice. Avrei cercato di catturare un po’ di attenzione; avrei detto: ‘Ho fame, sto morendo, ho freddo, soffro’, o qualche cosa di simile, ma lei mi donò molto di più. Mi donò il suo amore riconoscente, come in genere fanno sempre i poveri ogni volta che c’è qualcuno che li avvicina e si prende cura di loro. Loro, i poveri, alla fine danno tanto e noi ci rendiamo sempre conto che la ricchezza che si può cogliere in un loro sorriso o in una loro espressione di gratitudine è veramente immensa”.

La mappa internazionale della povertà e della miseria


Oltre agli aneddoti, la religiosa traccia anche una sorta di mappa internazionale della povertà, avvertendo che non si muore di fame solo in India, in Africa o in qualche paese dell’America Latina, ma anche in tanta parte del ricco Occidente. “Nel mondo, e non solo nei Paesi poveri - spiega la religiosa agli accademici norvegesi - ho trovato che la povertà dell’Occidente è la più difficile da eliminare. Quando raccolgo per strada una persona affamata e le do un piatto di riso o un pezzo di pane, ho soddisfatto i suoi bisogni, ho eliminato la sua fame. Ma quando siamo al cospetto di chi si è chiuso al mondo di chi non si sente amato, di chi ha paura ed è stato allontanato dalla società...allora sì che siamo davanti alla vera miseria. È questa la miseria che fa più male e che io trovo tanto ardua da vincere. Anche tra queste persone operano le nostre sorelle in Occidente”.
Insiste molto, Madre Teresa, sul problema della povertà occidentale. E anche per questo aspetto ha in serbo i suoi significativi aneddoti che - nella solennità della cerimonia di assegnazione dei premi Nobel - non mancano di captare ancora di più l’attenzione dei presenti. Racconta, ad esempio, cosa provò il giorno in cui fu accompagnata a far visita ad una coppia di anziani in una città europea. “Vidi che in quella casa - premette Madre Teresa - quei due anziani avevano tutto, avevano cose di grande valore, ma guardavano sempre in direzione della porta. Vidi, però, che nemmeno uno in quella casa sorrideva. Allora mi volsi alla mia consorella che mi accompagnava e le chiesi: ‘Com’è questa storia? Come mai questa gente qui, a cui non manca nulla, non sorride mai? Com’è che stanno sempre a guardare in direzione della porta?’. E la consorella mi spiegò: ‘Fanno così praticamente tutti i giorni. Aspettano, sperano che uno dei figli venga a trovarli. Sono tristi perché sono dimenticati da tutti”. “Ecco i mali che gravano sui paesi benestanti- insiste la suora-: la solitudine, l’abbandono, l’indifferenza, la tristezza, malgrado il benessere generale, sono queste le spine con le quali giorno dopo giorno siamo chiamati a misurarci e al cospetto delle quali non c’è ricchezza che tenga”.

“Gesù è con noi, lui ci ama sempre”


La parte finale del discorso di accettazione del Premio Nobel è un appello ai norvegesi - e conseguentemente anche a tutto il ricco Occidente - alla gioia, all’amore, alla condivisione dei problemi degli ultimi, al sorriso. “Io penso - conclude Madre Teresa - che il valore principale a cui dobbiamo guardare è vivere meravigliosamente: abbiamo Gesù con noi e sappiamo che Lui ci ama. Se solo riusciamo a ricordare che Dio ci ama, e che abbiamo l’opportunità di amare gli altri come Lui ama noi, non in grandi cose, ma in piccole cose con grande amore, la Norvegia potrà divenire un nido d’amore. Grazie per questo premio Nobel per la pace, grazie a nome dei poveri di tutto il mondo”.
Uno scrosciante applauso del numeroso pubblico in sala accompagna le ultime parole della suora. Lei china il capo, ringrazia commossa, ha gli occhi lucidi, per alcuni lunghi, interminabili tratti non sa cosa fare, mentre tutta la sala si abbandona ad un irrefrenabile boato di gioia in suo onore. Al momento della premiazione tutti si alzano in piedi e la piccola missionaria sembra quasi soccombere davanti a tanta solennità, benché mista ad affetto e riconoscenza. Per tutta la durata della cerimonia è lei il personaggio-simbolo del Nobel edizione ‘79: tutti la cercano, tutti l’avvicinano, le stringono la mano, le fanno i complimenti. E lei, a sua volta, è sempre disponibile con tutti, risponde con dolcezza, ricambia i saluti, stringe tante mani di persone note e meno note con le sue piccole mani rugose, rilascia interviste a giornali e tv. I responsabili della serata conclusiva del Premio, su sua richiesta, non organizzano il tradizionale banchetto finale per devolvere l’equivalente economico in opere di carità a favore dei poveri ospiti nei centri di accoglienza delle Missionarie della Carità: è un gesto che la suora apprezza moltissimo. Il giorno dopo, l’11 dicembre 1979, la stampa del mondo intero è tutta per lei: le prime pagine dei giornali, i reportage televisivi, i radiogiornali raccontano del nuovo Premio Nobel per la pace assegnato per la prima volta ad una suora cattolica, Madre Teresa di Calcutta, un’albanese nativa della Macedonia, ma da oltre una trentina d’anni cittadina dell’India. E come tale, la seconda personalità indiana ad essere stata insignita del Premio Nobel: prima di lei l’ambito riconoscimento fu assegnato a Rabindranath Tagore, Premio Nobel per la letteratura nella lontana edizione del 1913.
Citare tutti i mass media che parlano del nuovo Premio Nobel per la pace sarebbe quasi impossibile: basti solo ricordare che da parte di tutti i commentatori il giudizio sulla scelta operata dall’Accademia norvegese è altamente positivo. Ed anche questo sa di miracoloso: nelle edizioni precedenti la designazione di altre personalità al Premio Nobel per la pace era stata accolta anche con critiche, specialmente quando il nominativo premiato - un esempio tra i tanti, il vescovo anglicano Desmond Tutu, leader antiapartheid sudafricano - non era ben visto da determinate parti politiche. Per Madre Teresa non succede nulla di simile. Nessuno avanza riserve sulla sua designazione, nessun politico o leader religioso non cattolico ha da ridire sulla sua storica vittoria. Al contrario, la suora viene presentata da tutti i giornali e anche attraverso i commenti di editorialisti e intellettuali come l’autentica paladina della pace del mondo moderno al di là delle differenze sociali, religiose e umane. Tra i tanti giornali che, il giorno dopo la cerimonia di Oslo, parlano della fondatrice delle Missionarie della Carità, vale la pena citare l’editoriale del quotidiano norvegese “Aftenposten”, di Oslo: “Che bello - si legge nella prima pagina del foglio norvegese - vedere la stampa di tutto il mondo incantata una volta tanto da una vera stella, una stella che brilla di una luce vera, una ‘star’ senza parrucca, senza il viso coperto di cerone, senza occhi bistrati, senza ciglia finte, senza visone e senza diamanti, senza pose teatrali e senza arie da primadonna. Il suo unico pensiero è usare il Premio Nobel nel modo migliore per i più poveri dei poveri nel mondo”.

L’entusiasmo della Santa Sede


Non meno entusiastico il commento del quotidiano della Santa Sede, L’Osservatore Romano, che nel dare la notizia scrive che il Premio Nobel per la pace è stato assegnato (a Madre Teresa di Calcutta) “per onorare la sua lunga e faticosa opera in favore dei diseredati...”. Il commento, affidato alla penna del teologo ufficiale dell’Osservatore, padre Gino Concetti, inizia con un ricordo sui precedenti riconoscimenti assegnati alla suora prima del Nobel e con una constatazione. “L’assegnazione di uno dei più prestigiosi, se non il più prestigioso premio per la pace a Madre Teresa è stata salutata - nota padre Concetti - da universale consenso. Neppure una voce contraria o reticente. In realtà Madre Teresa di Calcutta si era già imposta all’attenzione dei Governi, degli uomini di cultura, dei responsabili delle organizzazioni assistenziali sin dai primi anni della sua attività. Nel 1972 - ricorda il quotidiano pontificio - ebbe il premio della Fondazione Kennedy e il Premio Giovanni XXIII. Più recentemente, per l’esattezza nel 1978, il Premio Balzan che le fu assegnato a Roma nel marzo scorso a Roma nella sede dell’Accademia dei Lincei dal presidente della Repubblica Sandro Pertini”. Il giornale vaticano accenna anche ad una possibile lettura sulle motivazioni che - al di là dei già consistenti aspetti umanitari - stanno alla base della scelta operata dagli accademici norvegesi: “Il premio Nobel per la pace conferito ad una suora - è l’analisi dell’Osservatore Romano - potrebbe non essere in armonia con la tradizione politica. Ma non è così. Anche una suora - e che suora Madre Teresa! - può essere artefice della pace. Come bene, infatti, la pace non è solo opera dei politici, dei responsabili di Governo. È di tutti, anche dei più umili e impotenti finanziariamente e politicamente. La pace è un bene cui ha diritto tutta l’umanità. È un bene totale, quasi assoluto... la pace che Madre Teresa ha costruito è la pace del Vangelo, la pace di Cristo, quella, per intenderci, che è prioritariamente dono dello Spirito, dono di Dio a tutti coloro che non rifiutano il suo amore. Madre Teresa ha costruito questa pace ai margini del vivere civile, nei ghetti della miseria e della riprovazione. L’ha costruita con lo spirito del Vangelo, donandosi e amando nel silenzio e senza nulla chiedere. L’ha costruita recuperando alla dignità di persone migliaia di esseri umani ridotti a ‘spezzoni’, a ‘rifiuti’. Testimoni oculari sono rimasti sorpresi e conquistati dal suo apostolato di amore e di oblazione. La sua opera ha la benedizione di Dio.... La figura di Madre Teresa - continua il giornale vaticano - è certamente emblematica. Tuttavia non è né scissa dalla Chiesa né dalle istituzioni religiose fiorite nella Chiesa in ogni epoca, sotto l’impulso dello Spirito Santo, per iniziativa di tanti santi o persone di Dio... la sua operosità è una testimonianza di come la Chiesa sia ancora oggi capace di generare apostoli. Nel riconoscimento a Madre Teresa c’è l’esaltazione degli istituti religiosi che si dedicano con ardore e passione evangelica alla promozione umana e cristiana...nell’apostolato di Madre Teresa - conclude l’Osservatore - c’è infine l’impegno per la vita. Non si ha vera pace, lo ha ribadito con forza di recente Giovanni Paolo II, là dove si vìola un solo diritto umano. Quello della vita è un diritto primordiale su cui si confrontano gli uomini e le civiltà. Le posizioni di Madre Teresa contro l’aborto sono ratificate dal suo atteggiamento eroico, quasi epico. Dimenticare questo aspetto significa togliere alla personalità e all’opera di Madre Teresa uno dei connotati fondamentali. Nel significato del premio Nobel per la pace, anche se non specificato, è incluso questo aspetto. La pace, infatti, ha inizio proprio dal rispetto della persona umana e, in primo luogo, dal rispetto del diritto alla vita”.

È nata una nuova stella, la star dei poveri


Anche sugli altri giornali si leggono giudizi e commenti più o meno simili, specialmente sul piano della promozione umana e dell’opera caritativa di Madre Teresa e delle sue consorelle accanto agli ultimi: grazie al Nobel per la pace, secondo i mass media internazionali il mondo ha scoperto una nuova stella, la “star” dei poveri amata indistintamente da tutti, a partire dal suo paese adottivo, l’India, che al suo rientro organizza in suo onore tributi e festeggiamenti degni di un capo di Stato. E forse per non apparire meno riconoscente dei norvegesi, nel febbraio del 1980, appena tre mesi dopo la cerimonia di consegna del Nobel per la pace, il governo indiano premia solennemente Madre Teresa nel bastione dello storico Forte Rosso di Delhi. Prima di lei, un onore analogo era stato riservato solo a due altre grandi personalità dell’India, il premier Nehru e Indira Gandhi.
Per Madre Teresa, la cerimonia viene organizzata, significativamente, da una istituzione indù alla presenza delle più alte autorità dello Stato, del primo ministro, di esponenti del governo, rappresentanti politici, ambasciatori, manager e intellettuali. Al momento dei discorsi ufficiali, Madre Teresa, oltre a ringraziare i presenti “per il grande onore ricevuto”, spiega con uno dei suoi celebri aneddoti di vita il perché, secondo lei, l’opinione pubblica internazionale si sia appassionata così ardentemente alla sua opera di carità in difesa dei poveri tra i più poveri. La storia scelta riguarda un lebbroso che nei giorni seguenti all’assegnazione del Nobel per la pace aveva bussato alla porta della Casa Madre delle Missionarie della Carità di Calcutta per cercare di conoscerla.
“Era un lebbroso tremante - racconta la suora al cospetto dei leader indiani- gli domandai se aveva bisogno di qualche cosa da me. Volevo offrirgli del cibo e una coperta per proteggersi dalla rigida notte di Calcutta. Mi rispose di no. Mi mostrò il suo piattino delle elemosine, e disse in bengalese: ‘Madre, ho sentito dire dalla gente che lei ha ricevuto un premio, non so bene quale. Questa mattina ho deciso che qualsiasi somma oggi avessi ricevuto chiedendo la carità, stasera l’avrei data a lei. Ecco perché sono qui’. Trovai nel suo piattino delle elemosine 75 paise, ovvero 2 pence. Il dono era piccolo. È ancora oggi sulla mia scrivania, perché quel piccolo dono mi rivela la grandezza del cuore umano. È meraviglioso”.
Quando la suora conclude il suo discorso, molti volti sono rigati da lacrime, tanti occhi luccicano un po’ più del solito, l’emozione si taglia quasi a fette in ogni angolo della sala e nelle espressioni di tutti i presenti. La parabola vera del povero lebbroso che regala la sua elemosina per i poveri di Madre Teresa non può lasciare indifferente nessuno. Nemmeno la persona apparentemente più dura e lontana. Alla fine sarà lei stessa a sdrammatizzare l’intensità del momento con un sorriso spontaneo ed accattivante, e un lieve inchino in segno di ringraziamento, al quale gli ospiti rispondono con un grandissimo applauso.
Dopo l’India, anche altri importanti paesi, come le superpotenze Usa e Urss, vorranno onorare la missionaria Premio Nobel per la pace. Mosca le conferisce l’alta onorificenza della “Medaglia d’oro del Comitato sovietico per la pace”: l’occasione offre lo spunto a Madre Teresa di comunicare ai dirigenti dell’Urss di voler, “quanto prima”, aprire anche una Casa in Unione Sovietica e affidarla a un gruppo di Missionarie della Carità. Non passa molto tempo e dall’altra parte dell’Atlantico arriva la notizia che anche gli Stati Uniti d’America vogliono onorare Madre Teresa con una propria onorificenza, la “Medaglia Presidenziale della Libertà”. La cerimonia di consegna si svolgerà in seguito, a Washington, nella Casa Bianca, alla presenza del presidente americano Ronald Reagan. Il giorno della premiazione è il 20 giugno 1985. Reagan, nel suo indirizzo di saluto, definisce Madre Teresa “una eroina dei nostri tempi” e precisa che la Medaglia presidenziale della Libertà è un riconoscimento riservato fino ad allora solo a quei cittadini americani che per i loro meriti siano considerati “orgoglio del paese”. Con la fondatrice delle Missionarie della Carità per la prima volta l’alta onorificenza statunitense è assegnata ad una personalità non americana. È una eccezione alla rigida regola del premio che il presidente Reagan spiega in questi termini: “Madre Teresa, grazie alla sua opera accanto ai poveri di ogni paese, dimostra che la bontà di alcuni cuori trascende tutti i confini e ogni stretta considerazione nazionalistica. Ecco perché noi oggi abbiamo il grande onore di premiarla”.
Grazie al Premio Nobel per la pace, la piccola suora diventa una delle più conosciute personalità internazionali. Giornalisti, fotoreporter e scrittori faranno a gara per intervistarla, dedicarle biografie, fotografarla in mezzo ai suoi poveri, tra le Case del Moribondo, ma anche al cospetto di star internazionali che fanno a gara per incontrarla, starle per qualche minuto vicino. Dell’amicizia nata tra lei e i regnanti inglesi - ed in particolar modo con la principessa Diana - abbiamo già parlato nelle pagine precedenti. Tra i nomi del mondo dello spettacolo, molti attori e cantanti - come ad esempio Gina Lollobrigida, che la inviterà anche in una trasmissione televisiva, e la pop star Bob Geldof - le faranno visita nelle sue Case di accoglienza a Calcutta, come a Roma, o a New York.
L'attrice Gina Lollobrigida e Madre Teresa a Roma, in uno spettacolo di beneficenza trasmesso dalla Rai

Altri la inviteranno a partecipare a programmi di beneficenza, ai quali lei qualche volta in via del tutto eccezionale accetterà di andare. Altri ancora, come la coppia di cantanti Albano e Romina Power scelgono Madre Teresa come madrina per i loro figli. Anche questa è una richiesta frequente alla quale la Madre dirà di sì solo in casi particolari. Per Albano e Romina Power il sì arriva grazie ai buoni uffici di un sacerdote, monsignor Sergio Mercanzin, direttore del Centro Russia Ecumenica di Roma, cappellano pontificio per i profughi dei paesi dell’Est e amico della scrittrice Irina Alberti e di un altro importante premio Nobel, SolzŠenitzyn. “Quel giorno - racconterà in seguito don Mercanzin - nella casa di San Gregorio al Celio, Albano e Romina erano felicissimi di presentare la loro ultima creatura a Madre Teresa. La religiosa la prese in braccio e volle tenerla così per tutta la durata dell’incontro. I due cantanti le parlarono a lungo, le confessarono tutta la loro ammirazione per la sua opera accanto ai poveri e per questo affidarono la loro creatura sotto la sua simbolica protezione”. Altri, ancora, la citeranno nei testi di canzoni di successo destinate al grande pubblico: è quello che fa, ad esempio, uno dei più importanti rapper della canzone italiana, Jovanotti (Lorenzo Cherubini), che parlerà della fondatrice delle Missionarie della Carità in uno dei suoi più grandi successi, “Penso positivo”, dove, tra l’altro, in un verso canta le lodi di alcuni personaggi-simbolo e confessa da sognare un mondo di pace fatto sotto forma di “una grande Chiesa che parta di San Patrignano per arrivare a Madre Teresa, passando per Che Guevara, Malcom X e un prete di periferia...”.
La stessa attrazione per la figura di Madre Teresa sarà provata anche dai potenti della terra, che vedranno in lei - specialmente dopo il conferimento del Premio Nobel per la pace - un modello quasi unico di umanità, efficienza e coerenza evangelica. Madre Teresa, quindi, suo malgrado, diventa una stella di prima grandezza. Pur desiderando di essere considerata sempre e solo come una delle tante suore missionarie sparse per il mondo a servire i poveri, è sempre più inseguita dai giornalisti, ma anche dalle persone più anonime che sperano di vederla soltanto passare, magari scambiare con lei un saluto, o sentirla parlare dell’amore di Dio per i poveri, “per tutti i poveri della terra”.

Stella di Raidue


È un personaggio che, senza volerlo, fa presa sul pubblico, “buca” il teleschermo - come si dice in gergo - quando appare in tv. Se ne accorgeranno, in particolare, i dirigenti della Rai, l’ente radiotelevisivo italiano, che nel marzo del 1992 - 13 anni dopo il Nobel per la pace, un lasso di tempo vissuto dalla suora sempre in prima linea sul fronte della pace e della carità - le affideranno addirittura un programma di preghiere serali dopo il Tg2. L’idea è esplosiva. Non solo per lo spessore del personaggio e per la novità, ma perché Madre Teresa farà il suo esordio di “conduttrice” in un programma di massimo ascolto su Raidue, la cosiddetta rete laica, socialista per antonomasia. Con l’avvento della fondatrice delle Missionarie della Carità il palinsesto della laicissima Raidue viene rivoluzionato. La suora, a partire dal 23 marzo 1992, dopo l’edizione serale del Tg2 - quella di massimo ascolto - va in onda in una trasmissione di 20 minuti dal titolo semplice, semplice, “Madre Teresa. Preghiera”. Ogni puntata è dedicata ad un tema specifico individuato dalla religiosa nella quotidianità e presentato sotto forma di preghiera-invocazione a Dio. Per venti serate, dunque, Madre Teresa parla a milioni di italiani di: sorrisi, contadini, invalidi, future madri, esclusi, animali, autistici, musica e canto, disperati, donarsi agli altri, combattenti, non saper pregare, amore, orfani, ospitalità, rapporti perduti, presenza di Dio, moribondi, prigionieri, pace. Un successo. La performance televisiva di Madre Teresa resterà negli annali della Rai come una delle trasmissioni più seguite ed originali, che sarà ricordata anche per il coraggio dei dirigenti Rai e per la spontaneità con cui la religiosa riesce a parlare al grande pubblico televisivo italiano di tematiche tanto diverse e scomode in chiave di preghiera.
Allo stesso modo, Madre Teresa non lascia mai indifferente il lettore quando viene pubblicata una sua intervista, per la quale i pochi giornalisti che riescono a parlarle in prima persona sono costretti ad inseguirla in ogni angolo della terra, nelle tante Case delle Missionarie della Carità che lei come una piccola amabile trottola non si stanca mai di visitare giorno per giorno volando da un capo all’altro del mondo. Lei non si nega a nessuno, ma ad un patto: gli incontri, le eventuali interviste non sono concordabili previo appuntamento, chi vuole parlarle deve uniformarsi ai suoi orari impossibili, alle sue continue traversate transoceaniche, ai suoi impegni di Madre fondatrice delle Missionarie della Carità e di suora di Dio, che non rinunzia mai a rispettare gli orari delle preghiere e delle meditazioni.
Anche la Chiesa cattolica, naturalmente, la guarda sempre con crescente interesse. Paolo VI - come abbiamo visto nelle pagine precedenti - nutrì per lei una sorta di personale venerazione, tanto da essere stato il suo primo importante “sponsor”. Non da meno saranno i suoi successori: Giovanni Paolo I che, pur nutrendo grande rispetto per l’opera delle Missionarie della Carità, in 33 giorni di pontificato non avrà modo e tempo di incontrare la suora.

L’incontro con Wojtyla


Altrettanta venerazione arriva da parte di Papa Giovanni Paolo II, che non a caso nel 1980, quando il suo pontificato incomincia a muovere i primi importanti passi, la vuole come relatrice al Sinodo mondiale dei vescovi sulla famiglia che si svolge in Vaticano. Madre Teresa vi prende parte con convinto entusiasmo, anche se ancora una volta dovrà sacrificare il suo desiderio di anonimato sull’altare della inevitabile rinnovata notorietà che arriva quando prende la parola davanti ai rappresentanti di tutti i vescovi del mondo. Nel suo intervento tocca, ovviamente, tutti i più importanti temi che - a suo giudizio - stanno minando le fondamenta dell’istituto familiare, a partire dalla contraccezione, dall’aborto e dal crollo delle nascite, specialmente nei paesi occidentali. La sua analisi, però, va al di là della famiglia per andare ad investire anche alcune problematiche sacerdotali, prendendo in contropiede un uditorio fatto in prevalenza di vescovi. Per nulla impressionata da un’assemblea sinodale traboccante di ecclesiastici, Madre Teresa ricorda che la Chiesa cattolica ha bisogno di “maggiore santità da parte dei sacerdoti”, e che spetta agli stessi ministri di Dio un ruolo più incisivo e dinamico “per la promozione dei valori spirituali nella vita della famiglia”.
Parole, analisi e richiami che hanno in Giovanni Paolo II un attento interlocutore, un Papa - ma anche un uomo ed un sacerdote - che si accorge di essere con il trascorrere del tempo sempre più in grande sintonia con la suora dei poveri. Tra i due ben presto il rispetto reciproco si trasforma in amicizia sincera, che diventa di dominio mondiale nel 1986, quando Papa Wojtyla visita per la prima volta l’India. I momenti più toccanti del viaggio pastorale sono, infatti, l’incontro con Madre Teresa e la visita alla sua Casa del Moribondo di Calcutta, che il pontefice alla fine ricorderà come “il giorno più bello della mia vita”.

La prima volta di Wojtyla


L’incontro tra Wojtyla e Madre Teresa avviene nell’abitacolo della vettura che ha portato il pontefice - appena arrivato all’aeroporto di Dum Dum - nella Casa Madre di Calcutta. Madre Teresa gli va incontro, gli si inginocchia davanti e vorrebbe addirittura prostrarsi fino a potergli toccare i piedi. Papa Wojtyla si sottrae prontamente al gesto, la solleva quasi di peso, la bacia sulla fronte, stringendola forte al petto come un padre con la propria figlioletta, e la benedice. Tutto questo con sorrisi, commozione reciproca e tanta emozione. Il primo importante gesto di Madre Teresa è quello di presentare il Papa al capo spirituale del vicino tempio della dea Kalì, il sevayat. Dopo l’abbraccio tra i due leader religiosi, Wojtyla - quasi condotto per mano dalla suora - viene fatto accomodare in un palco eretto in suo onore per essere salutato ufficialmente e insignito con una ghirlanda di fiori indiani come segno di benvenuto secondo la tradizione del paese. Alla conclusione degli indirizzi di saluto, Giovanni Paolo II abbraccia ancora la suora e, per dimostrarle ancora una volta il suo paterno affetto, si toglie la ghirlanda e la pone intorno al suo collo, tra gli applausi dei presenti. È un momento di festa e di benvenuto che i due amici - il Papa venuto da Roma e la fondatrice delle Missionarie della Carità - , vivono in perfetta e spontanea letizia, senza essere condizionati da rigidi protocolli, coinvolgendo nella loro felicità tutti i presenti.
Altrettanto toccante e spontanea la visita del Papa alla Casa del Moribondo: vi trascorre quasi un’ora, seguendo con grande interesse le spiegazioni di Madre Teresa durante le soste davanti ai letti degli ammalati, soffermandosi a parlare con molti di essi, a benedirli, a prenderli per mano come un vecchio amico. Per tutta la durata della visita, più volte il pontefice elogia con forza l’opera delle Missionarie della Carità, manifestando tutta la sua ammirazione di pastore e di uomo: “Per quanti sono ricoverati qui, per i sofferenti ed i derelitti - afferma Giovanni Paolo II - Nirmal Hriday è un posto di speranza: questo luogo rappresenta una profonda testimonianza resa alla dignità di ogni essere umano”. Altrettanto sentite le parole di ringraziamento di Madre Teresa, che parla della presenza del pontefice come di un grande dono del Signore per lei, per le sue consorelle e per tutti i poveri assistiti dentro e fuori la Casa: “Lei, Santità - dice la suora - oggi qui ha toccato nell’intimo la vita di tutti e di ciascuno. Ha camminato in mezzo ai nostri malati, ha benedetto e toccato tutti, si è soffermato a parlare, si è informato sul funzionamento della Casa, ha abbracciato, accarezzato, sorriso. Siamo felicissimi che il Santo Padre tocchi i nostri poveri, che si sia informato sulle loro condizioni, che abbia parlato e si sia soffermato come un vecchio amico. Grazie per essere qui”. Il primo pellegrinaggio di papa Wojtyla in India diventa, quindi, una sorprendente occasione di conoscenza reciproca tra Madre Teresa e lo stesso pontefice, il quale dopo quella visita guarderà alle Missionarie della Carità e alla loro fondatrice sempre con paterna ammirazione.

Gli anni Ottanta


La prima visita di Papa Wojtyla in India - ci ritornerà per la seconda volta 19 anni dopo, nell’ottobre del 1999, in un pellegrinaggio segnato dalle contestazioni degli estremisti indù e da un coraggioso appello alla libertà religiosa lanciato da un pontefice, Giovanni Paolo II, visibilmente affaticato, colmo di acciacchi, ma ancora deciso a proseguire il suo pontificato itinerante nel nome di Cristo - segna definitivamente il lancio internazionale di Madre Teresa di Calcutta.
Il primo incontro in India tra Wojtyla e Madre Teresa durante la prima visita pastorale compiuta da Giovanni Paolo II nel 1986

Grazie al Premio Nobel per la pace e alla grande manifestazione di amicizia e di affetto espressa pubblicamente dal Papa nei suoi confronti, la piccola suora macedone diventa il più importante testimonial femminile della Chiesa cattolica. Ai suoi gravosi impegni legati alla conduzione delle tante opere di carità attivate nei cinque continenti, la suora ora è chiamata ad aggiungere un nuovo carnet di scadenze legate ad inviti a partecipare a conferenze, premiazioni, simposi internazionali - spesso su precisa delega papale -, incontri di studi per laici e religiosi. Lei non si tira mai indietro, dice a tutti di sì, convinta come è che ogni occasione è buona per diffondere la parola di Dio e parlare a nome dei poveri di tutto il mondo.
È questa la Madre Teresa che si affaccia ai primi albori degli anni Ottanta e che continuerà a camminare per le strade del mondo fino alla fine dei suoi giorni, malgrado il peso degli anni che incominciano a farsi sentire, gli acciacchi, la salute malferma e qualche lieve incidente che qualche volta la costringe a segnare il passo.
Già le suore di Nostra Signora di Loreto - la sua prima congregazione religiosa - le raccomandavano di riposarsi, di fare attenzione a non stancarsi troppo a causa della sua salute cagionevole. Le stesse raccomandazioni le fanno ora le sue collaboratrici ogni volta che inizia una nuova missione, o intraprende un nuovo viaggio per seguire il lavoro di una determinata Casa di accoglienza, oppure per aprirne una nuova, o partecipare alla professione di fede delle sue novizie, una celebrazione a cui la religiosa tiene molto.
“Il Signore mi ha fatto un grande regalo: mi ha dato una salute di ferro e io non posso che ringraziarLo operando sempre di più per alleviare le pene dei poveri e degli abbandonati”, è la pronta risposta della Madre ogni volta che qualcuno si “azzarda” a consigliarla di riposarsi un po’, o magari di rinunziare a un viaggio troppo lungo.
E infatti, anche se apparentemente Madre Teresa è l’immagine della fragilità fatta persona, è come se la parola riposo fosse stata cancellata dal suo vocabolario. Eppure, nel corso della sua lunga vita non sono mancati momenti di crisi per motivi di salute. Nei primi anni di attività delle Missionarie della Carità si era ammalata di malaria, per cui nei momenti di maggiore stress accusava sempre tanta stanchezza e sensazioni di sfinimento.
A Darjeeling nel 1964 si ferì alla testa in un pauroso incidente stradale: nel 1969, alla vigilia di un importante viaggio in Australia cadde violentemente dal letto ferendosi in modo abbastanza serio a un braccio. Malgrado l’incidente e i consigli dei medici che la pregarono di stare a letto, volle ugualmente partire anche con il braccio fasciato e dolorante. Nel 1974 accusò un colpo apoplettico, seguito agli inizi degli anni Ottanta da un abbassamento della vista e da disturbi di spondilite, per la quale la schiena incominciò a curvarsi in avanti.
Tra i tanti acciacchi accusati, quello che incomincia a far preoccupare seriamente i suoi medici curanti è una forte forma di affezione cardiaca scoperta nel corso di una viaggio negli Stati Uniti nel 1981.
Dopo la visita, i sanitari le prospettano un quadro clinico per niente roseo sperando di convincerla a tirare un po’ il fiato e, magari, a delegare alle sue più strette collaboratrici parte dei suoi impegni. “Ho una salute di ferro”, è la secca risposta di Madre Teresa a chi la consiglia di riguardarsi di più, anche alla luce dei nuovi problemi di salute riscontrati dai medici americani: “Non crediate che mi fermi per queste cose, fino a quando avrò la forza di camminare, andrò sempre avanti”.

Il cinquantenario della professione dei voti


Sorretta da tanta volontà e da una forza d’animo difficilmente riscontrabile in altre persone, Madre Teresa si presenta puntuale ad un altro importante appuntamento, il cinquantenario della professione dei voti religiosi che tutta la congregazione festeggia il 24 maggio 1981 con Messe di ringraziamento nella Casa Madre di Calcutta e in tutte le altre Case di accoglienza sparse nel mondo. È una giornata di grande festa che tutte le Missionarie della Carità, unitamente ai volontari laici, ai medici e ai tanti assistiti (malati, poveri, bambini ed adulti recuperati dalla strada), vivono intensamente in un ideale fraterno abbraccio con la loro Madre fondatrice. I festeggiamenti durano però un solo giorno, perché Madre Teresa è costretta a riprendere il suo peregrinare per il mondo chiamata dal Vaticano a partecipare a Roma, a nome della Santa Sede, ad un convegno internazionale sull’aborto, seguito da una nuova visita negli Usa - precisamente il 4 giugno 1981 - a Washington, nella Casa Bianca per stare accanto al presidente Ronald Reagan, che qualche giorno prima era stato ferito nel corso di un attentato per mano di uno squilibrato. La suora è accolta con grande affetto da Nancy Reagan, moglie del presidente, il quale nel vederla accanto al suo letto come una vecchia amica si commuove.
4 giugno 1981: Madre Teresa con Nancy Reagan alla Casa Bianca

Madre Teresa, o forse la sua semplicità di donna e di religiosa, fa questo effetto: commuove, fino alle lacrime, reca emozione in chi la guarda da vicino e in quanti possono stringere le sue mani, ascoltare la sua voce dal timbro sempre costante, leggermente basso, che si sprigiona dalla sua bocca come una piacevole cantilena. È la stessa emozione che coglie l’animo del presidente americano quando, dal letto d’ospedale, vede la bianca e minuta immagine di Madre Teresa.
I due si salutano come due vecchi amici. Per niente intimidita di essere al cospetto dell’uomo più potente della terra, la religiosa gli si siede vicino, si informa sul suo stato di salute, lo conforta con parole affettuose e, per rincuorarlo, gli ricorda il sacrificio di Cristo sulla croce, assicurandogli che “la sofferenza che sta patendo in seguito a questo attentato porterà il presidente ad essere più vicino a Gesù ed ai poveri”. È un incontro, quindi, fuori dai canoni dell’ufficialità e privo di vincoli diplomatici: la suora e la coppia presidenziale si parlano a lungo come vecchi amici e alla fine Reagan la ringrazierà commosso per il forte incoraggiamento ricevuto. In seguito, il presidente americano a chi gli chiederà cosa si fossero detti durante la visita di Madre Teresa, risponderà con una significativa battuta: “Io non ho detto nulla, io ho solo ascoltato le parole della Madre: è lei che mi ha parlato, incoraggiato e sostenuto con parole di grande affetto”.
Dopo la visita al presidente americano, via, tra gli emarginati di Harlem dove la suora inaugura una nuova Casa per il recupero dei tossicodipendenti; seguita da altre nuove Case di accoglienza nella Germania Est e in Brasile, dove ha anche l’opportunità di parlare alla settantaduesima Assemblea del Rotary Club International. Dai poveri tra i più poveri ai ricchi rotariani: come è nel suo stile, Madre Teresa parla con tutti, non si scompone mai, anzi, anche di fronte alla platea apparentemente più lontana dai problemi degli emarginati lancia appelli per i poveri, dà lezione di misericordia e invita tutti a farsi carico dei pesi degli ultimi. “Noi non abbiamo bisogno del vostro danaro - spiega tra l’altro ai delegati del Rotary International - abbiamo invece bisogno del vostro tempo libero: vogliamo che tutti voi doniate voi stessi ai poveri...penso che tutti voi, e io per prima, dovremmo cominciare a condividere ciò che abbiamo. Questo atteggiamento sarà certamente occasione di una migliore comprensione tra le nazioni”.
Dal Sudamerica all’Inghilterra, all’Irlanda del Nord dove nel giugno del 1981 tenta ancora una volta di contribuire alla pacificazione delle parti in lotta lanciando un ennesimo appello alla concordia tra le fazioni cattoliche ed anglicane.
Nel corso di un incontro presso una comunità ecumenica di nome “Corrymeela”, un centro impegnato a gettare semi di pace in Irlanda, legge un’importante poesia sull’amicizia e la concordia tra i popoli: è un componimento di un poeta indiano, Satih Kumar, contrassegnato da un fortissimo anelito di pace che Madre Teresa legge con grande passione nella chiesa di St. James di Piccadilly, a Londra, davanti ad un foltissimo pubblico formato da anglicani, cattolici, laici, giornalisti di numerose testate internazionali. Il testo di quella poesia - che riportiamo qui di seguito - sarà inserito dalla suora nella raccolta delle sue preghiere preferite: è un inno alla vita, alla verità e alla pace, e nello stesso tempo un appello a Dio guardato come il vero e unico Signore della pace: “Conducimi dalla morte alla vita, dalla falsità alla verità; conducimi dalla disperazione alla speranza, dal timore alla fiducia; conducimi dall’odio all’amore, dalla guerra alla pace. Fa’ che la pace colmi i nostri cuori, il nostro mondo, il nostro universo”.
L’estate dell’81, come appare evidente, vede Madre Teresa impegnata su tanti fronti e costretta ad affrontare lunghi e frequenti viaggi che col passare degli anni, e con l’aumentare degli acciacchi, diventeranno sempre più faticosi. L’avvento del decennio Ottanta dà il via ad uno dei periodi più intensi della sua attività missionaria. Tuttavia, il 3 luglio le arriva improvvisamente una ferale notizia, la morte del fratello Lazar. Non si vedevano da anni, e la suora avrebbe fatto l’impossibile pur di stargli vicino al momento del trapasso. Ma non le riesce. Il fratello muore colpito da un cancro ai polmoni nella sua casa di Palermo, in Italia. Madre Teresa sapeva da mesi che Lazar soffriva di quel terribile male.

La morte del fratello Lazar


La morte del fratello la coglie in contropiede, quasi impreparata anche se nei mesi precedenti lei stessa aveva scritto una preoccupata lettera ad una amica chiedendole, tra l’altro, di pregare per la salute del fratello. Eccone uno stralcio, dal quale emerge la grande preoccupazione della suora per la sorte del suo congiunto e il forte attaccamento alla vita di quest’ultimo: “Sono stata io - rivela Madre Teresa - a dirgli che aveva un tumore e che presto forse sarebbe andato a raggiungere la famiglia in cielo. E lui ha risposto semplicemente: ‘Se tu vuoi andare a raggiungere la famiglia, va’ pure; ma io per adesso vorrei ancora rimanere qui, in questo mondo”. In seguito sarà Madre Teresa stessa a far sapere - in un’altra lettera ad una amica - con quanta cristiana rassegnazione il fratello era morto, secondo quanto le era stato riferito dai familiari italiani di Lazar. “È stato meraviglioso, alla fine, quando ha detto: ‘Sì sono pronto ad andare’, dopo essersi confessato e aver pregato insieme. Prega per lui. Non ha un figlio maschio, il nome di famiglia muore con lui”.
Il tempo appena di asciugarsi qualche furtiva lacrima, di recitare una preghiera di suffragio per l’anima del fratello e via, col dolore nel cuore, di nuovo in viaggio. Dapprima a Calcutta per ricevere un importante riconoscimento economico dalla locale Università e poi, il 10 dicembre di nuovo a Roma per essere insignita di una laurea honoris causa in medicina all’Università cattolica del “Sacro Cuore”. Ed anche in questa circostanza - come ha sempre fatto in analoghe precedenti occasioni - non si lascia sfuggire l’opportunità di parlare dei poveri del mondo e di lanciare un nuovo, pressante appello contro l’aborto e in difesa della vita nascente, fin dall’attimo del primo concepimento.
“L’aborto non è che paura del bambino - argomenta Madre Teresa durante il discorso pronunziato alla cerimonia di conferimento della laurea -. Chi interrompe volontariamente una gravidanza ha paura di dover avere un’altra bocca da sfamare, di dover educare un altro bambino, di dover amare un altro bambino. Per questo il bambino deve morire: è un assassinio, un abominevole assassinio perpetrato, per di più, contro un essere piccolo, indifeso e innocente. L’aborto è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio e che va contro, in tutto e per tutto, il comandamento con cui nostro Signore ci ha proibito di uccidere”.

In viaggio nel mondo anche con gli acciacchi


Dal nuovo importante riconoscimento accademico ricevuto dall’Università Cattolica di Roma, ad una altrettanto nuova serie di inaugurazioni di Case di accoglienza e centri per ammalati, ben 26 in tutto il 1982, fondati sia nei paesi più a rischio del Terzo Mondo, sia in Occidente: nella prima parte del decennio Ottanta Madre Teresa è sempre sulla cresta dell’onda. Pur con tutti gli acciacchi che condizionano la sua malferma salute, riesce a far fronte ad una vasta gamma di impegni che la portano ad affrontare un numero sempre più crescente di viaggi da un continente all’altro. I suoi impegni - che come abbiamo visto in precedenza spesso e volentieri è chiamata a svolgere anche su richiesta del Vaticano - la portano ormai a trascorrere gran parte del suo tempo lontano dalla Casa Madre di Calcutta. A lungo andare questo suo frenetico peregrinare si trasforma in una sorta di handicap per la gestione diretta della congregazione, per cui nell’82 decide che in sua assenza la responsabilità della conduzione operativa delle attività dell’ordine debba essere di competenza di una sua delegata, la suora maltese Frederick, nominata per questo incarico Assistente generale delle Missionarie della Carità. Nel presentarla alle altre consorelle, Madre Teresa spiega che suor Frederick la rappresenta in tutto e per tutto durante i periodi di assenza da Calcutta e pertanto chiede che sia fatta oggetto della sua stessa filiale obbedienza. “Care sorelle - raccomanda la fondatrice delle Missionarie della Carità in un documento scritto per annunciare l’istituzione della figura dell’Assistente generale della congregazione - abbiate fiducia in suor Frederick, siatele sempre vicino. Aiutatela, specialmente nei momenti di maggiore difficoltà. Non abbiate paura. Semplicemente abbiate fiducia ed obbedite, e tutto andrà per il meglio”.
Potenziato il vertice della congregazione con l’istituzione di una nuova figura in grado di sostituirla nei momenti di assenza, eccola di nuovo in viaggio. Vola in Australia per fondare una nuova Casa di accoglienza, si reca in fretta e furia nel Bangladesh dove i locali governanti sono sul punto di cacciare le Missionarie della Carità perché accusate di infrangere le leggi del paese. Senza pensarci su due volte, appena arriva all’aeroporto, accompagnata dall’arcivescovo locale, si reca subito dal presidente, col quale, dopo un cortese colloquio, chiarisce ogni equivoco e convince le autorità della regione a rinnovare il permesso di soggiorno alle sue consorelle impegnate ad assistere i poveri del Bangladesh.
Con l’avvento del decennio Ottanta, evocare il nome di Madre Teresa di Calcutta, Premio Nobel per la pace 1979, significa indicare un personaggio internazionale universalmente riconosciuto come stabile punto di riferimento per il riscatto dei poveri e, nello stesso tempo, parlare di una religiosa diventata anche sinonimo di pace e fratellanza. È, in un certo senso, la suora di tutti, la donna capace di parlare indistintamente ai cuori di grandi e piccoli, di credenti e non credenti, di ricchi e poveri, ma anche di sconfitti e vincitori. Pertanto, le gerarchie cattoliche e il Vaticano incominciano a servirsi di lei anche come un testimonial universale da impegnare a nome della Chiesa nella diffusione dell’amore tra i popoli, negli interventi di condanna di ogni forma di violenza, a partire dalle guerre. Madre Teresa oltre ad essere la paladina del riscatto dei poveri, diventa anche l’immagine della pace nelle cui mani le alte sfere cattoliche amano affidare anche la memoria di antiche ferite nella speranza di poter costruire un futuro un po’ meno fosco. Eccola perciò nell’aprile del 1982 recarsi in Giappone, nella città-martire di Nagasaki vittima della bomba atomica lanciata dagli aerei americani il 9 agosto 1945, tre giorni dopo la distruzione atomica di Hiroshima. Due date drammatiche, due città-martiri che le offrono lo spunto per ricordare al mondo intero che con la guerra tutto è perduto, mentre con la pace tutto è possibile.

La condanna della bomba atomica


Non è la prima volta che Madre Teresa mette piede in Giappone: in questo lontano paese c’è già stata negli anni passati per fondarvi Case per i poveri e centri di accoglienza per ammalati bisognosi. In questa occasione, però, lo scopo è tutto diverso ed è intimamente legato al suo ruolo di testimonial della fratellanza naturalmente “ereditato” dal Premio Nobel per la pace. Questa volta, oltre a parlare del riscatto dei poveri, è chiamata a parlare del riscatto della pace universale e a condannare tutte le guerre, sia quelle di ieri sia quelle che ancora oggi insanguinano tanta parte del mondo.
Madre Teresa arriva a Nagasaki il 26 aprile 1982 e subito partecipa ad un incontro di preghiera dedicato al ricordo delle vittime di tutte le guerre e, in particolare, ai morti provocati dalle due bombe atomiche sganciate dagli aerei americani e che sconvolsero il Giappone nel 1945, provocando migliaia e migliaia di morti. “Nel ricordare i morti di Hiroshima e Nagasaki dobbiamo tutti pregare - esorta la suora - affinché mai più nessuna mano umana possa compiere un atto tremendo come quello che è stato compiuto qui”. In un altro incontro dedicato sempre alla “necessità” della pace e alla condanna della guerra - “di tutte le guerre” - recita la seguente preghiera: “Padre Eterno, in unione con le sofferenze e la Passione di Cristo che viene rinnovata ad ogni Messa, noi Ti offriamo le sofferenze e il dolore inflitti dalla bomba atomica in questo luogo a migliaia di persone, e Ti imploriamo, Padre Eterno, di proteggere tutto il mondo dalle sofferenze e dal dolore che una guerra nucleare infliggerebbe alla popolazione del Giappone e di tutto il mondo, alle nazioni già afflitte dalla paura, dalla diffidenza, dall’angoscia che tutte le pervade. Padre Eterno, abbi pietà di noi tutti”.
Dal Giappone a Beirut, in Libano, teatro di un altro lungo e sanguinoso conflitto “camuffato” da motivi religiosi, ma in realtà patrocinato da signori della guerra che fanno fatica a parlare di pace e di fratellanza. In questi mesi la capitale libanese è vittima di scontri e bombardamenti che stanno mettendo a dura prova la popolazione. I primi a soffrirne sono - manco a dirlo - i bambini, le prime vittime sacrificali, gli esseri più deboli chiamati a fare i conti con i fantasmi della morte generati da attentati, sparatorie, cecchinaggi, ma anche da mancanza di cibo e di medicinali. Su precisa richiesta di Papa Giovanni Paolo II, Madre Teresa viene incaricata di recarsi anche a Beirut per cercare di individuare qualche cosa da fare - un progetto di pronto intervento, una Casa di accoglienza - per portare in salvo almeno i più piccoli.
La suora risponde con slancio all’invito del pontefice. Tentare l’impossibile per cercare di portare in salvo bambini minacciati da guerre e calamità naturali è il tipo di missione che sente di più. Il Libano, poi, è diventato ormai un teatro bellico che non può non coinvolgere quanti hanno a cuore la causa della pace. Prima della partenza, il pontefice e la suora si incontrano nella residenza pontificia estiva di Castel Gandolfo. Madre Teresa assiste alla Messa celebrata dal Papa, il quale alla fine le raccomanda di andare a Beirut per cercare di portare sollievo alle sofferenze dei più piccoli e, nello stesso tempo, di vivere l’intera missione in terra libanese come “segno di solidarietà” per tutte le vittime della guerra. Raccomandazione che la fondatrice delle Missionarie della Carità accetta con entusiasmo. Ricevuta la benedizione di Papa Wojtyla, senza perdere ulteriore tempo, parte per il Libano portando con sé un’immagine della Madonna col Bambino benedetta dal pontefice e un cero pasquale che avrebbe accesso al suo arrivo a Beirut. Nella capitale libanese trascorre un’intera settimana, impegnata quasi tutta a raccogliere per le strade feriti e bambini abbandonati. Incurante delle raccomandazioni di chi le consiglia di non girare troppo e, specialmente, di non attraversare le linee di confine dei gruppi belligeranti, Madre Teresa si reca indifferentemente in tutti i quartieri cittadini per rendersi personalmente conto della situazione. Prima del suo arrivo a Beirut nessuno si sarebbe azzardato ad attraversare i confini delle varie zone in guerra: ben presto, però, la situazione cambia. Sull’esempio di Madre Teresa - che, senza apparente paura per la presenza di eventuali cecchini o per niente preoccupata di essere colpita accidentalmente da qualche ordigno, non esita a mettere piede nelle zone più pericolose della città per portare in salvo i bisognosi - , in città incomincia a formarsi una spontanea task force di volontari pronti a portare aiuto e conforto tra la popolazione nelle aree più critiche. Grazie a questa opera, a Beirut in pieno conflitto prende forma un’area di salvezza per bambini abbandonati e feriti gravi di qualsiasi credo politico-religioso, gestita dalle Missionarie della Carità. Appena si rende conto che le Missionarie della Carità impegnate in Libano possono continuare ad andare avanti anche senza la sua presenza, Madre Teresa lascia Beirut e riprende a viaggiare per il mondo. Il 19 agosto 1982 la vediamo in Messico, dove è stata invitata a parlare ad un simposio internazionale dedicato alla distribuzione del benessere nel pianeta; successivamente si reca di nuovo a Roma per parlare a un congresso di Collaboratori delle Missionarie della Carità; seguito subito da un meeting di preghiera ad Assisi dedicato agli otto secoli dalla nascita di S. Francesco d’Assisi. Dalla città del Poverello a St. Louis, negli Stati Uniti d’America, a una congresso dedicato alla “Difesa della vita”; e poi ancora a Dublino, in Irlanda, e a Glasgow, in Scozia, ad altrettanti convegni dedicati al tema della condanna dell’aborto e della difesa della vita dal primo concepimento fino alla sua conclusione naturale.

L’incidente a San Gregorio al Celio


Sfidando ancora la resistenza del suo esile fisico e delle malattie che col passare del tempo diventano sempre più noiose, agli inizi dell’autunno del 1982, Madre Teresa inaugura una nuova Casa di accoglienza nell’India nord-orientale - a Churhat - e una Casa del povero a Caracas, in Venezuela. Stesso ritmo e analoga abnegazione caratterizzeranno l’attività della suora Premio Nobel per la pace nel corso dei mesi successivi e per tutta la prima parte del 1983, fino ai primi giorni di giugno, quando Madre Teresa per motivi di forza maggiore è costretta, suo malgrado, a fermarsi a causa di un incidente. Accade il 2 giugno 1983, quando la suora, mentre si trova nella sede romana della Missionarie della Carità di S. Gregorio al Celio, cade improvvisamente dal letto e si ferisce un piede. Non si è mai riusciti a capire il perché di questo incidente, accaduto, per di più, in un luogo sicuro come può essere il letto. Evidentemente, la caduta avviene durante il sonno, forse in un attimo di agitazione causata da eccessivo stress o da qualche forma di disturbo che ha reso precario il suo equilibrio. Resta il fatto che la caduta le procura una ferita di una certa gravità per cui i sanitari decidono di ricoverarla alla clinica “Salvator Mundi” di Roma. Durante la degenza, i medici - oltre a curarle il piede - la sottopongono ad una lunga serie di visite dalle quali emerge tutto il suo precario stato di salute, a partire dal cuore. Anzi, qualche sanitario definisce “provvidenziale” la precedente caduta dal letto, perché - le spiegano - se non si fosse fermata in tempo quasi certamente sarebbe stata colpita da un infarto dalle conseguenze imprevedibili.
Di fronte a un quadro clinico così critico, i sanitari decidono di trasferirla dalla clinica “Salvator Mundi” al policlinico “A. Gemelli” dell’Università Cattolica di Roma, dove Madre Teresa trascorre un altro periodo di ricovero, seguito da una lunga convalescenza passata nella sede romana delle Missionarie della Carità. La suora è costretta, dunque, ad ubbidire agli ordini dei medici e a sottoporsi a un forzato riposo durante il quale i sanitari, pur rimettendola in sesto, si rendono conto che d’ora in avanti la religiosa non sarà più in grado di sopportare i ritmi lavorativi fin qui osservati. “Se si riguarderà e seguirà attentamente i nostri consigli, cara Madre, lei non avrà problemi per almeno una trentina d’anni”, le ripetono più volte i medici curanti. Parole sagge, ma destinate ad essere ascoltate solo in parte dalla diretta interessata, la quale - tanto per non smentirsi - “approfitta” proprio del lungo periodo di convalescenza per gettare le basi per la fondazione di un nuovo ramo delle Missionarie della Carità, il settore aperto ai consacrati, ai sacerdoti e ai religiosi.

Il ramo dei consacrati


È un progetto che covava nel cuore della Madre da diversi anni, precisamente dal 1978, quando nel corso di un incontro con un religioso americano, padre Joseph Langford, questi per la prima volta le confessa che avrebbe in animo di dar vita ad un movimento sacerdotale impegnato a diffondere gli ideali delle Missionarie della Carità.
Conclusa la convalescenza, Madre Teresa parla dell’antico progetto alle autorità vaticane e, nel corso di diversi incontri, anche con il Papa, il quale dà immediatamente la sua benedizione. Dopo poco meno di un anno, e ottenuti tutti i placet da parte delle competenti istituzioni pontificie, il nuovo ramo della congregazione vede ufficialmente la luce il 3 ottobre 1984 con il nome di “Padri Missionari della Carità”. Altro aspetto significativo, la sede della nuova comunità è nel Bronx, uno dei quartieri più a rischio di New York. I nuovi padri avrebbero iniziato la loro attività missionaria proprio in una delle aree più a rischio della metropoli americana, accanto ad alcolizzati e tossicodipendenti, per poi espandersi negli anni successivi in altre città americane e in Europa.
Ancora nel 1984 Madre Teresa mette in pista un altro progetto maturato definitivamente durante la convalescenza: una speciale sezione dell’Ordine aperta ai medici. Per questo, si rivolge a sanitari, primari e chirurghi che già da tempo collaborano con le Missionarie della Carità per invitarli a far parte del nuovo ramo di Collaboratori. La nuova struttura - aperta a medici di qualsiasi fede religiosa e di qualsiasi convinzione politica - in pochi anni crescerà in maniera considerevole tanto da essere presente con proprio personale medico e paramedico in quasi tutti i paesi dove operano le missionarie di Madre Teresa, specialmente nelle zone tormentate dalle guerre e dalla carestie.

Bob Geldof, l’Etiopia e... la Cina


Tra i tanti desideri che Madre Teresa non ha voluto mai cancellare completamente dal suo cuore, ce n’è uno che da anni non ha cessato mai di ardere e che a partire dal 1984 incomincia a diventare realtà: aprire una Casa anche in Cina. Un’idea rivoluzionaria e proibitiva a causa delle forti difficoltà che, tradizionalmente, vanificano ogni tentativo di dialogo con i governanti cinesi. Tra i primi ad essere informato dell’idea direttamente dalla suora fu Paolo VI nel 1969. Pur con tutta la buona volontà di Papa Montini, il progetto resta nel cassetto.
Dopo 15 anni ecco di nuovo Madre Teresa tornare alla carica. Il 14 aprile 1984 ne parla per la prima volta col cardinale segretario di Stato della Santa Sede, Agostino Casaroli, quasi a voler chiedere un robusto conforto diplomatico col quale poter almeno attenuare le inevitabili difficoltà legate all’idea di fondare una sede delle Missionarie della Carità per aiutare i poveri della Cina. In precedenza, la suora si era recata diverse volte a parlare del progetto con i rappresentanti dell’ambasciata cinese di Nuova Delhi. Alla fine di ogni colloquio - durante i quali Madre Teresa aveva illustrato nei minimi dettagli come aveva in animo di organizzare una sede delle missionarie in Cina - aveva sempre ricevuto risposte non proprio incoraggianti del tipo: “In Cina, cara Madre, non ci sono poveri e quei pochi che sono in difficoltà possono contare sugli aiuti statali”. Per niente scoraggiata, la Madre in seguito torna alla carica e, nel complimentarsi con i governanti cinesi per il fatto di non avere a che fare nel loro paese con eccessivi problemi di povertà, prospetta loro la fondazione di una Casa di accoglienza specializzata per persone depresse e sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Persone quindi non necessariamente povere ed abbandonate, ma malati, affetti per di più da uno dei disturbi psico-fisici tra i più pericolosi. L’idea fa breccia e costituirà la base di una possibile intesa tra governanti cinesi e Missionarie della Carità, grazie alla quale nel giro di pochi mesi Madre Teresa avrà la possibilità di intraprendere un viaggio in Cina in vista dell’apertura di una nuova Casa di accoglienza.
Ma prima di poter spiccare il volo verso la Cina, la religiosa sarà chiamata a visitare la Polonia su invito del cardinal primate, Joseph Glemp e il 31 ottobre 1984 prenderà parte in India ai solenni funerali della sua amica Indira Gandhi assassinata da un sicario. Durante la cerimonia di cremazione delle spoglie della Gandhi, la suora - accanto alle delegazioni guidate dalle più alte personalità politiche della terra - prega per la sua anima (“Possa riposare in pace per sempre”), mentre il corpo posto su una pira di legno lungo il fiume Jumna viene lentamente bruciato dalle fiamme secondo il costume indiano.

L’incontro con Geldof


Dal dramma dell’India, ferita a morte in una delle sue figure più rappresentative, al dramma dell’Etiopia per la quale in questi mesi si prospetta nuovamente lo spettro della fame dovuto a carestia e siccità. Motivo per cui Madre Teresa - malgrado i problemi al cuore e alla spina dorsale - decide di trascorrere il Natale 1984 ad Addis Abeba, accanto alle consorelle che là stanno combattendo una guerra impari contro la malnutrizione e le malattie che hanno colpito le fasce più deboli della popolazione, a partire dai bambini. La situazione in Etiopia in quei giorni è talmente drammatica che un gruppo di rock star internazionali capitanate dal cantante Bob Geldof lancia un disco, “Do they know it’s Christmas?”, i cui proventi - circa sei milioni di sterline - vengono tutti destinati a combattere la carestia che minaccia le popolazioni etiopiche.
Madre Teresa e il cantante Bob Geldof ad Addis Abeba, nel Natale del 1984

Bob Geldof e Madre Teresa hanno anche modo di incontrarsi in quei giorni di permanenza ad Addis Abeba: il cantante le regala una copia del disco come segno di profonda riconoscenza e di ammirazione per la sua incessante opera di promozione umana sia in Etiopia che nel resto del mondo; la suora a sua volta si complimenta con Bob Geldof per aver mobilitato tante rock star per la causa dei poveri etiopici. “Ciò che lei fa - spiega Madre Teresa a Geldof - io non lo posso fare, e ciò che posso fare io non può farlo lei. Ma se questo è chiaro nel nostro cuore e nella nostra mente, il volere di Dio è che noi ce la facciamo insieme per alleviare le sofferenze di questi nostri fratelli”.
Altrettanto sentita la risposta del cantante, il quale nel manifestarle tutta la sua felicità per averla incontrata, la definisce “madre e speranza di tutti i poveri, incarnazione del bene morale universale, punto di riferimento morale per quanti hanno a cuore i problemi dei bisognosi”.
Bob Geldof e Madre Teresa: la strana coppia recatasi in Etiopia per combattere con armi differenti e complementari - la musica e l’amore per i poveri - carestia, fame e malattie di ogni genere. Non si sa quanti frutti riuscirà in futuro a produrre una simile inedita alleanza: certo è che i due grandi personaggi riusciranno a trasformare quel Natale 1984 in una sorprendente stagione di attesa e di speranza, coinvolgendo milioni di persone in tutto il mondo non solo sul dramma in corso in Etiopia, ma su un tema tanto rivoluzionario quanto sconosciuto ai più, come l’amore per i poveri e gli emarginati, l’aiuto disinteressato per gli ultimi e gli abbandonati.

L’arrivo a Pechino


Madre Teresa, però, seguendo il suo naturale istinto non si ferma a contemplare il lavoro fatto. A maggior ragione non fa mai in modo di mettersi in mostra per cercare di ascoltare il suono degli applausi dopo aver lanciato un progetto o fondato una nuova Casa di accoglienza. Quando getta un seme e, dopo poco, vede che questo seme incomincia a dare i primi segni di vita, va subito oltre, guarda altrove dove sente di poter trovare altri poveri da aiutare. Come fa subito dopo il viaggio in Etiopia di quel Natale 1984. Ed infatti, non passa nemmeno un mese ed ecco spuntare all’orizzonte un altro viaggio atteso da anni, la Cina. In precedenza - come abbiamo già visto - aveva parlato di questo sogno con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo II e con il suo segretario di Stato cardinale Agostino Casaroli, ricevendo da tutti benedizioni ed incoraggiamenti ad andare avanti, anche di fronte agli inevitabili ostacoli a cui una impresa del genere sarebbe andata incontro.
Il sogno si avvera il 20 gennaio 1985, quando Madre Teresa, su invito ufficiale dell’Associazione Cattolica Patriottica Cinese - la Chiesa cinese riconosciuta dalle autorità statali e non dal Vaticano - può finalmente sbarcare in Cina. Ci arriva dopo un lungo viaggio che la porta a visitare le tante Case di accoglienza aperte dalle Missionarie della Carità in altri paesi dell’Estremo Oriente, come nelle Filippine e in Corea.
Al suo arrivo a Pechino, solerti funzionari le chiedono se per caso avesse con sé qualche messaggio da parte del Vaticano da consegnare alla Chiesa patriottica. È una classica domanda-trabocchetto posta alla religiosa per metterla alla prova e, magari, scoprire se avesse intenzione di aprire qualche canale segreto tra i cattolici cinesi (clandestini fedeli al Papa, patriottici...) e Roma. Se per caso la Madre avesse risposto affermativamente, c’è da scommettere che una simile eventualità non sarebbe stata gradita ai governanti di Pechino, anzi è certo che sarebbe stata giudicata come un vero e proprio tradimento. Per questo, Madre Teresa, senza scomporsi troppo e con estrema naturalezza, alla domanda del funzionario cinese risponde semplicemente: “No, io vengo da Calcutta e non ho messaggi da parte di nessuno”. Superato questo primo importante ostacolo diplomatico, la suora ha il via definitivo alla visita e diventa, automaticamente, la seconda alta personalità cattolica ad essere stata invitata ufficialmente in Cina. Prima di lei, lo stesso permesso era stato concesso solo al cardinale filippino Jaime Sin.
La visita dura quattro intensissimi giorni: Madre Teresa si reca presso comunità religiose, vede centri di accoglienza per anziani, viene ospitata in una casa per anziani presso una comune di Pechino. “Dio vi benedica tutti”, scrive nel registro delle visite. Ha anche la possibilità di assistere ad una Messa celebrata da un vecchio sacerdote della Chiesa patriottica. È uno dei momenti più belli ed intensi della visita. Nel suo diario personale in seguito la suora annoterà: “In chiesa c’erano pochi giovani, ma in compenso era molto affollata di adulti. La santa Messa si celebra ancora in latino, alla vecchia maniera. La gente recita ancora il rosario durante la santa Messa, ma non ho mai visto altrove un simile atteggiamento di adorazione e di umiltà nel ricevere la comunione”.

La breccia cinese


La breccia aperta in un paese lontano e difficile come la Cina conferma una verità che il periodo a cavallo tra il 1984 e il 1985 vede delinearsi anche a livello statistico, e cioè che Madre Teresa - al di là del pur importante Premio Nobel per la pace - è una vera e propria superpotenza della giustizia e della carità capace di attraversare confini ritenuti invalicabili, di dialogare con interlocutori all’apparenza difficili, di presentarsi sempre e comunque con la sua immagine di suora cattolica votata al Cristo dei poveri. È una specie di testa di ponte che la Chiesa cattolica - vale a dire il Vaticano - usa per le missioni impossibili e per potenziare la già consistente presenza missionaria cristiana in tutto il mondo. C’è però una novità rivoluzionaria nel messaggio di Madre Teresa che fa delle sue missionarie una congregazione unica ed originale: le suore dal sari bianco e celeste non vanno solo tra i poveri del Terzo Mondo, scelgono indifferentemente di servire i bisognosi dell’Africa, dell’America Latina, ma anche dell’Europa o degli Usa. Grazie alla loro opera, l’opinione pubblica internazionale si accorge che il tarlo della povertà e dell’abbandono non attacca solo i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, ma anche le città del ricco Occidente. Ecco quindi Madre Teresa operare - come abbiamo visto nei capitoli precedenti - in Inghilterra, come in Irlanda, in Australia, a New York, a Roma, ma anche - e lo vedremo più dettagliatamente nelle pagine seguenti - all’interno della Città del Vaticano dove le Missionarie della Carità su invito di Papa Giovanni Paolo II apriranno una casa per i barboni romani denominata significativamente. “Casa dono di Maria”.
Volendo, comunque, quantificare la presenza delle Missionarie della Carità nel mondo a metà degli anni Ottanta, è utile rifarsi alle cifre che di tanto in tanto la stessa fondatrice diffonde: nelle oltre 400 Case aperte in varie parti del mondo vengono conservate razioni settimanali di cibo necessarie a sfamare circa 107.000 persone; attraverso i centri di assistenza le cucine distribuiscono cibi cotti per circa 52.000 ospiti; nelle Case del Moribondo sono ospitate circa 14.000 persone prive di tutto e completamente indigenti, oltre la metà delle quali riescono a salvarsi, bisognosi che senza l’aiuto delle Missionarie della Carità sarebbero andati certamente incontro a una morte sicura. I bambini ospiti nelle 103 Shishu Bavan ammontano a circa 6.000: sono in genere piccoli raccolti dalla strada, abbandonati dai genitori o orfani di vittime di guerra. Ma il miracolo dei miracoli compiuto da Madre Teresa riguarda la cura dei lebbrosi, che, stando alle statistiche diffuse dalle Missionarie della Carità fino a tutto il 1985, toccano i quattro milioni tra quanti sono assistiti sia nelle Case di accoglienza sia attraverso le cliniche mobili attivate dai volontari e dai collaboratori medici della congregazione.
L’assistenza quotidiana ai lebbrosi occupa un posto veramente importante nel cuore di Madre Teresa, forse perché in questi malati le Missionarie della Carità vedono il Cristo dei Vangeli, quel Cristo minato nella carne e nelle ossa proprio come si presentano ora i tanti fratelli colpiti nella carne e nelle ossa dalla terribile lebbra. Spesso lo confessa la stessa fondatrice, che con puntuale frequenza ama raccontare aneddoti legati alle tante storie vissute accanto ai suoi amici lebbrosi. Si tratta di storie belle e meno belle, vicende di vita vissuta tra stenti, abbandoni e rare speranze, ma che dimostrano sempre con quanto amore la suora guarda a questi fratelli colpiti da un male tanto crudele. Tra le tante, Madre Teresa ama ricordare la vicenda di due genitori lebbrosi costretti a privarsi del loro bimbo appena nato. È una storia struggente che non può lasciare indifferente nessuno e che la suora racconta nei suoi diari con espressioni semplici e penetranti che vanno diritte al cuore e lasciano il segno in chi ascolta: “Un giorno - ecco il racconto così come prende forma dalle sue parole - osservai un padre ed una madre malati di lebbra coricati di fianco al loro figlio appena venuto alla luce. Tenevano la loro creatura - ricorda Madre Teresa - in mezzo a loro ed entrambi guardavano il piccino, avvicinando a lui le mani e ritraendole immediatamente per avvicinarglisi di nuovo, come se lo volessero baciare, e facendosi subito indietro per non toccarlo. Non mi scorderò mai la tenerezza dell’amore di quella madre e di quel padre verso la loro creatura! Io presi il bambino e potei osservare i due che seguivano il loro figlio con lo sguardo pieno di tenerezza, finché non scomparimmo dalla loro vista. Che strazio, che dolore provarono quei due genitori per quella separazione! Fu molto penoso per loro rinunciare in quel modo al loro figlio appena nato, ma, dato che lo amavano più di quanto amassero se stessi, trovarono la forza necessaria per farlo”.
“Va comunque detto - continua la suora - che ai genitori malati di lebbra è consentito vedere i propri figli: ciò che a loro non è consentito è di toccarli perché potrebbero infettarli e trasmettere loro il male. È commovente vedere il grande sacrificio che devono compiere i nostri genitori affetti da lebbra per il bene dei loro figli, affinché questi non vengano contagiati dalla loro stessa malattia; è un sacrificio che, sono certa, tocca anche Dio in modo particolare...”
La Madre, quando parla di questi malati, diventa ancora più tenera, più dolce, si sente ancora più materna del solito e chi le sta vicino lo sente, se ne accorge, e ne riceve un beneficio che non ha prezzo. Il lebbroso si sente nuovamente persona; il tossicodipendente o l’omosessuale - ma anche l’eterosessuale - colpito dall’Aids si sente accolto, curato, non più emarginato a causa di giudizi moralistici sommari o per dichiarazioni di impotenza; la consorella, o il volontario laico, il medico, vedono in lei la personificazione dell’amore verso una delle categorie di ammalati tra le più isolate della storia. Tanta lezione di vita, alla lunga non può che generare buoni frutti. Cosa che puntualmente si verifica nei centri di accoglienza dei lebbrosi, retti dalle Missionarie della Carità in India, dove questi malati hanno la possibilità di riscattarsi facendo dei lavori di artigianato o aiutandosi vicendevolmente.

I malati di Aids, la “nuova” carità


L’opera caritativa delle Missionarie di Madre Teresa alla fine degli anni Settanta viaggia dunque a pieno regime e con l’avvento della seconda metà del decennio successivo, gli anni Ottanta, la congregazione si prepara a far fronte ad altre forme di emarginazione che stanno prendendo piede in quasi tutti i paesi - sia ricchi che poveri - a causa di un’altra terribile malattia, sconosciuta fino a pochissimi anni prima, l’Aids. Dalla cura della lebbra alla lotta alla nuova peste di fine secolo - come in genere viene definito questo nuovo male che miete vittime in tutti i continenti - per una realtà come le Missionarie della Carità il passo può apparire breve e spontaneo. Lo è ancora di più per una figura come Madre Teresa, abituata da anni ad affrontare qualsiasi tipo di sfida, anche quelle che all’apparenza possono sembrare impossibili. E l’assistenza ai malati di Aids è una di queste: specialmente in un momento in cui quasi tutte le istituzioni tradiscono tutta la loro impreparazione nei confronti di una malattia nuova, spietata, dai connotati indecifrabili e che colpisce soggetti deboli come i tossicodipendenti, gli omosessuali avvezzi ad avere rapporti sessuali a rischio, o quanti sono soliti vivere una vita sessuale con partner occasionali e senza le dovute cautele.
Madre Teresa, di fronte ad una situazione così drammatica, senza farsi condizionare da giudizi moralistici sulle cause che starebbero alla base della diffusione dell’Aids decide di agire, e subito scende apertamente in campo accanto a quanti sono stati colpiti dai sintomi del male, specialmente ai malati terminali per i quali pensa istintivamente ad organizzare speciali Case di accoglienza, nuclei abitativi ad hoc dove ospitarli, curarli, garantire loro tutta l’assistenza necessaria, sia sanitaria che umana, grazie all’opera delle Missionarie della Carità e, all’occorrenza, di medici e volontari specializzati.

Negli Usa la prima casa per i malati di Aids


Il primo passo in questa direzione lo compie nel 1985 rispondendo positivamente all’invito di un medico americano, il professor Richard Di Gioia, uno dei primi specialisti impegnati nell’assistenza ai malati di immunodeficienza acquisita. Madre Teresa e il dottore si conoscono da anni. Spesso si sono incontrati negli Usa e hanno sempre tenuto viva la loro amicizia tramite un fitto rapporto epistolare. In una lettera del 1985, Di Gioia le chiede, tra l’altro, di far visita ad alcuni malati di Aids che sono in cura da lui in un ospedale di Washington. Madre Teresa, disattendendo ancora una volta le raccomandazioni dei suoi medici curanti, sempre più preoccupati delle sue precarie condizioni di salute, parte subito per la capitale americana. Sente che dietro quell’invito si cela un nuovo scenario socio-caritativo a cui nessuno - e tantomeno le Missionarie della Carità - deve mostrarsi insensibile. Nella capitale americana entra immediatamente in contatto con i malati di Aids in cura - ma forse si dovrebbe dire “parcheggiati” in attesa della morte - presso l’ospedale dell’Università “George Washington”. Constata in prima persona che il nuovo male non guarda in faccia a nessuno e che i più esposti sono i giovani. Si rende conto, inoltre, che tra i più esposti ed emarginati, i malati di Aids carcerati sono quelli ancora più a rischio perché non sono in grado di essere assistiti adeguatamente. Ecco quindi che Madre Teresa, con l’aiuto del professor Di Gioia, decide di fondare una prima Casa per malati di Aids in uno dei più sofisticati e variopinti quartieri di New York, Manhattan. I primi ospiti della Casa saranno alcuni carcerati affetti dal male, ai quali le autorità giudiziarie concederanno la possibilità di uscire dall’istituto di pena grazie ad una petizione avanzata da Madre Teresa direttamente al governatore di New York, Mario Cuomo, e al sindaco Koch. “Vi prego - implora la suora durante i colloqui avuti con i rappresentanti delle istituzioni americane - in nome di Dio lasciate che queste persone muoiano in pace; fate in modo che questi fratelli abbiano la possibilità di essere assistiti, curati fino all’ultimo e accompagnati all’appuntamento col Signore con un sorriso. Sono solo fratelli che soffrono, facciamoli almeno morire in pace”. Prima di Madre Teresa le autorità americane non avevano mai concesso ai carcerati malati di Aids di lasciare la prigione per potersi curare altrove. Di fronte alle preghiere della suora - ed alla grande carica umana con cui Madre Teresa perora la causa dei carcerati malati di Aids - il clima cambia, le porte delle prigioni - anche di penitenziari tristemente famosi come Sing Sing - si aprono e per i reclusi affetti dall’Aids prende forma la concreta possibilità di essere assistiti in ambienti più protetti e, particolare di non secondaria importanza, più umani.
La prima Casa per malati di Aids - che Madre Teresa vuole significativamente chiamare “Dono dell’amore” - viene fondata in alcuni ambienti ricavati in una canonica, messi a disposizione da una parrocchia al Greenwich Village che Madre Teresa e i suoi amici americani inaugurano nel Natale del 1985.
All’apertura presenziano autorità civili, religiose - capitanate dal primate cattolico statunitense, il cardinale John O’Connor - e, naturalmente, i primi ospiti della Casa, specialmente quelli che sono stati abbandonati dalle proprie famiglie dopo aver contratto l’infezione. Nel breve discorso di saluto, Madre Teresa mette in relazione le vicissitudini di “questi fratelli colpiti dal male respinti da amici e familiari” e le difficoltà a cui andò incontro la Madonna quando, in compagnia di Giuseppe, non trovò che una stalla dove far nascere Gesù Cristo perché nessuno volle accoglierli in casa. Attualità e ricordi evangelici in un mix di “felice coincidenza” - ricorda la suora - resa ancora più tenera dall’Avvento delle festività natalizie con le quali “il nostro Signore ogni anno ci porta i doni dell’amore e della festa”.

“Non vogliamo processare nessuno di questi fratelli”


“Questi sono i giorni in cui - continua ancora Madre Teresa nella Casa per i malati di Aids del Greenwich Village - Gesù è nato per portare gioia, pace e amore, e desideravo che anche loro, i nostri fratelli ammalati, nascessero alla gioia, alla pace e all’amore”. La grande ricorrenza natalizia per le Missionarie della Carità - ricorda la suora - deve essere sempre un momento in cui “i cuori si aprono per dare amore e felicità a tutti, specialmente ai più bisognosi: senza questa apertura il Natale sarebbe un’altra cosa”. E gli ammalati di Aids, vale a dire i nuovi emarginati, gli esclusi della società del benessere, gli abbandonati da tutti, devono essere tra i primi a ricevere tali amorevoli attenzioni senza esclusioni preconcette o condanne moralistiche. “Non siamo qui - avverte infatti Madre Teresa - per fare il processo a questa gente, per decidere se sono colpevoli o innocenti. La nostra missione è aiutarli, fare sì che i loro ultimi giorni siano più tollerabili”. Con queste parole, la fondatrice delle Missionarie della Carità indica, sostanzialmente, la strada da seguire di fronte alle nuove forme di emarginazione provocate dalla diffusione dell’Aids: approcci, modi di pensare e di agire che ogni persona di buon senso è chiamata a mettere in pratica tutti i giorni, ma che per un cristiano diventa addirittura un obbligo morale vincolante, non solo a Natale, ma in qualsiasi momento dell’anno. Parlando infatti a un simposio dedicato alle nuove problematiche legate alla immunodeficienza acquisita al “National Council for International Health”, la fondatrice delle Missionarie della Carità, forte delle prime esperienze maturate alla Casa “Dono dell’amore” di New York, spiegherà che la maggiore sofferenza di chi si accorge di essere stato infettato dall’Aids è “la sofferenza del cuore e della solitudine, è il rendersi conto di essere stati abbandonati, di non essere voluti, amati, è l’accorgersi che all’improvviso si è stati scartati dalla famiglia, dalla società, in ultima analisi, dalla vita”.
I primi ospiti della Casa di New York sono 14 carcerati malati di Aids: sono curati e assistiti da 6 Missionarie della Carità che hanno seguito uno specifico corso di preparazione. Nella Casa, oltre all’assistenza sanitaria, possono studiare, svolgere attività, seguire volontariamente lezioni di catechismo. Il tasso di mortalità dei primi tempi, però, è molto elevato e le suore a volte hanno la sensazione di avere a che fare con gli stessi problemi che si avvertono nelle tante Case del Moribondo che la congregazione ha fondato in tante parti del mondo. Case dove la morte è all’ordine del giorno. Ma non per questo si scoraggiano. Anzi, fin dai primi giorni di attività della Casa, Madre Teresa si rende subito conto che occorre fondare una seconda residenza per malati di Aids, magari non a New York, ma a Washington. L’idea però non viene subito accettata dall’opinione pubblica della capitale statunitense, condizionata da un crescente numero di abitanti che teme che la presenza di ammalati di Aids in determinati quartieri possa rappresentare un pericolo per i “cittadini sani”. Di fronte a simili discutibili pregiudizi - nei quali non è per niente difficile individuare venature di ignoranza, mista a razzismo ed egoismo - Madre Teresa non si scompone minimamente: anzi si convince ancora di più della necessità di fondare altre Case per malati di Aids, non solo per dare rifugi sicuri ai pazienti, ma per educare quella consistente parte della popolazione che vede nell’immunodeficienza acquisita una sorta di castigo divino e nelle persone infette dal male “esseri” da cancellare da ogni contesto civile, sociale e umano.
Forte di queste convinzioni, per vincere le resistenze incontrate tra i quartieri di Washington, Madre Teresa il 13 giugno 1986 bussa alla porta della Casa Bianca per andare a parlare del problema dei malati di Aids al presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan. L’incontro è positivo: il presidente - che ama presentarsi, insieme alla moglie Nancy, come grande amico ed estimatore di Madre Teresa - dà subito la sua disponibilità affinché le Missionarie della Carità possano aprire una seconda Casa per malati di Aids negli Usa. Reagan si trova subito in perfetta sintonia con la richiesta della suora. Non potrebbe essere altrimenti, anche perché non avrebbe argomenti sufficientemente convincenti per contrastare una richiesta così bella e motivata.

“Signor presidente, è doveroso aiutare i malati di Aids”


“Signor presidente - è l’esordio della suora appena arrivata al cospetto di Reagan - stiamo cercando un posto piacevole dove le persone affette dall’Aids possano essere accolte, ricevere dell’amore e combattere il proprio isolamento e la propria solitudine. Queste persone sono nostri fratelli ed è doveroso aiutarli. Lasciarli nell’abbandono, magari anche a causa di egoismi e pregiudizi, sarebbe un peccato imperdonabile. Signor presidente, aiutiamoli!”. E il “Signor presidente” aiuta: davanti ad una simile convincente richiesta, Reagan non può che dire di sì e spazzare via, di conseguenza, tutte quelle forme di resistenza che stavano compromettendo la nascita di una nuova Casa per malati di Aids nella capitale americana.
Ottenuto il placet della Casa Bianca, nel giro di qualche settimana la suora può aprire una Casa per malati di Aids anche a Washington: la sede viene individuata in un vecchio convento, il San Giuseppe, ex orfanotrofio ed ex sede Caritas messo a disposizione dell’arcivescovo James Hickey. Rispetto alla Casa “Dono dell’amore” di New York, a questo secondo centro assistenziale - che Madre Teresa battezza “Casa della pace” - , oltre ai malati di Aids, possono essere accolti anche donne e bambini alle prese con altri problemi sanitari. L’inaugurazione avviene l’8 novembre 1986: all’iniziativa si associano anche alcuni ospedali, mettendo a disposizione le loro strutture sanitarie e il personale medico e paramedico disposto a collaborare volontariamente con le missionarie. L’iniziativa però continuerà ad essere osteggiata da una parte degli abitanti del quartiere contraria alla presenza di un presidio anti-Hiv nella zona. Qualcuno organizzerà manifestazioni di protesta, altri inoltreranno denunce alle autorità competenti accusando la nuova “Casa della pace” di essere una struttura sanitaria non autorizzata. Niente da fare: l’utilità della Casa non sarà minimamente intaccata dagli avversari delle suore, per cui ben presto altre strutture analoghe saranno aperte da Madre Teresa a San Francisco nel giugno del 1988 e nel marzo successivo ad Addis Abeba, poi a Los Angeles e a Denver, nel Colorado.
Sono anni di attività frenetica che vedono le Missionarie della Carità in prima linea nell’assistenza ai malati di Aids, un virus ancora in gran parte sconosciuto, e per il quale la ricerca scientifica ancora non ha approntato un vaccino utile almeno a frenarne la diffusione. Madre Teresa e le sue consorelle non si scompongono. Come negli anni passati hanno preso di petto i problemi assistenziali legati alla lebbra, alla fame, all’abbandono totale dei poveri tra i più poveri, così ora sentono che i fratelli colpiti dal terribile virus sono in sostanza i nuovi samaritani che bisogna aiutare ad ogni costo. In attesa che la scienza partorisca la medicina giusta capace di circoscrivere e debellare il nuovo morbo di fine secolo, le Missionarie nelle “Case della pace” accolgono, assistono, danno amore, curano, accompagnano con sollecitudine fraterna i moribondi, distribuiscono speranze e si raccolgono in preghiera per implorare Dio di aiutare “tutti i fratelli che soffrono a causa dell’Aids”.

Il tributo dell’immunologo


Tanta abnegazione non può non suscitare grande ammirazione e sentimenti di riconoscenza da parte dell’opinione pubblica, anche da quei settori apparentemente più distratti e lontani. Gli addetti ai lavori, specialmente quelli che sono in prima linea nella lotta all’Aids, ne sono entusiasti, anche perché - dicono - l’esempio di Madre Teresa e delle sue Missionarie della Carità rappresenta una concreta risposta a quanti non sanno come affrontare il drammatico problema dell’assistenza ai malati terminali, anche in conseguenza della grande impreparazione che ancora esiste nei confronti di questa malattia a vari livelli. Per tutti, vale il giudizio espresso nei confronti della suora Premio Nobel per la pace da un immunologo di fama, il professor Fernando Aiuti, presidente dell’Anlaids, un’associazione all’avanguardia per la lotta all’Aids. “Ho conosciuto Madre Teresa - scriverà Aiuti in un commento pubblicato sul quotidiano ‘Il Messaggero’ - qualche anno fa a Roma. Sono stati sempre brevi incontri, ma molto intensi e costruttivi. Questi incontri erano finalizzati a cercare una collaborazione tra l’Anlaids e le Missionarie della Carità. Abbiamo realizzato una Casa alloggio a Roma e altre a Napoli e a Bari. Sono stati per me incontri di una grande importanza e straordinari sotto il profilo umano. Madre Teresa - scriverà ancora il professor Aiuti - era una donna con uno sguardo al cielo e uno in terra, una persona con un grande senso pratico della vita, con un’energia incredibile nel portare avanti problemi anche a tarda sera dopo centinaia di incontri con personaggi potenti, con umili e malati.... Lei non delegava ad alcuno i suoi progetti, era sempre presente e controllava tutti i particolari. Anche negli incontri ai fini della collaborazione con l’Anlaids è stata sempre lei a decidere e a firmare di persona... ha voluto essere presente il primo giorno in cui è arrivata una malata di Aids con il suo bambino, ed ha voluto dare alla Casa il nome “Dono dell’Amore”, a Roma in via dei Fratelli Maristi... la sua più grande preoccupazione era per i bambini malati di Aids e il suo dramma era legato alle donne sieropositive che possono infettare i loro figli, alle donne che erano e sono costrette a prostituirsi per un pezzo di pane in India, in Thailandia o in qualsiasi altro paese in via di sviluppo...ho sentito anche gridare al nostro congresso nel dicembre 1995 a Roma con forza la sua vergogna nei confronti di un turismo sessuale che avviene con la compiacenza anche di molti politici che decidono le cose importanti nel mondo occidentale...”. Quanto alle varie forme di lotta e prevenzione all’Aids, il professor Aiuti ricorda nel suo tributo che Madre Teresa un giorno gli aveva riferito che “la via laica e la via religiosa, pur avendo percorsi diversi possono avere obiettivi comuni in grado di essere raggiunti insieme più facilmente”.
Nella seconda metà degli anni Ottanta il mondo scientifico, e non, è chiamato a misurarsi con il diffondersi del grande male di fine secolo e le Missionarie della Carità, grazie alla spinta della loro fondatrice, sono in grado di fornire anche il loro contributo in questo delicato settore. Ma sono anni in cui Madre Teresa - tra la fondazione di una Casa anti-Aids e l’inaugurazione di un nuovo centro di accoglienza - trova anche il tempo di fare lunghi viaggi transoceanici per volare in Africa (nell’ottobre del 1986 a Khartum, in Sudan), per pregare per le vittime di tre anni di guerra civile e per aiutare le altre consorelle impegnate a curare feriti e ammalati; va a Cuba per incontrarsi con Fidel Castro e gettare le basi per potenziare la presenza delle Missionarie della Carità nell’isola caraibica; vola ancora in Austria, in Polonia per partecipare ad una cerimonia di professione di voti di un gruppo di consorelle; si reca in Unione Sovietica - visita anche questa eccezionale e carica di significato - dove va a portare la sua solidarietà alle vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl: per l’occasione viene anche insignita di una medaglia d’oro da parte del “Comitato Sovietico per la pace”. Come vedremo, è un viaggio dalla doppia lettura - umanitaria e “politica” - destinato a generare nei mesi successivi abbondanti frutti nel grande giardino della Chiesa cattolica universale.

Ambasciatrice al Cremlino


Il viaggio a Mosca viene infatti caricato di un altro aspetto, che va al di là del solo aspetto umanitario a favore delle vittime di Chernobyl, ancora più delicato e assai caro alle alte sfere della Santa Sede: la Madre - su riservato incarico della curia pontificia - deve sondare discretamente gli umori del Cremlino alla luce delle aperture politiche annunciate dal leader sovietico Mikhail Gorbaciov, il padre della perestroika, che avrà il coraggio di avviare lo storico rinnovamento del sistema socio-politico dell’Urss.
Incarico che la suora svolge egregiamente in quanto, senza far trapelare nulla, durante la visita, oltre a recarsi a rincuorare le vittime della tragedia di Chernobyl, incontra anche rappresentanti del Cremlino ed emissari di Gorbaciov (la suora non ammetterà mai ufficialmente di aver parlato anche con il segretario-presidente sovietico, anche se sono in molti nel suo entourage a sospettarlo e ad ammetterlo a mezza voce). Come risultati concreti, Madre Teresa “incassa” dai dirigenti del Cremlino il via libera per l’apertura di una nuova Casa di assistenza per poveri ed ammalati: una concessione non da poco per un paese come l’Urss dove il potere comunista non ha mai ammesso apertamente l’esistenza di alti tassi di povertà tra la sua popolazione e che ha sempre avocato agli organismi statali l’onere di provvedere al sostentamento delle fasce più deboli della società.
Con l’arrivo di Madre Teresa in Urss prende forma - nel suo piccolo, che poi tanto piccolo non è - un evento rivoluzionario, il placet governativo alle Missionarie della Carità ad operare per i poveri tra i più poveri a partire, in primo luogo, dalle vittime di Chernobyl.
Di tutto questo, la suora - conclusa la visita a Mosca e nei centri colpiti dalla tragedia termonucleare - riferirà direttamente al Papa. Quasi come una diplomatica pontificia in pectore rientra infatti subito in Vaticano, senza fare altre tappe, per essere ricevuta immediatamente da Giovanni Paolo II. Dopo l’udienza papale - sulla quale come è sempre accaduto in passato le fonti ufficiali pontificie osserveranno un rigoroso silenzio -, in una intervista esclusiva concessa al quotidiano “la Repubblica”, Madre Teresa annuncia che le Missionarie della Carità “grazie all’autorizzazione avuta dal presidente sovietico Gorbaciov presto apriranno in Urss una nuova Casa di accoglienza per i poveri”; quanto ai contenuti della sua visita a Mosca, la suora racconta di essere stata “a contatto con le autorità sovietiche e religiose di quel grande paese, nella cui popolazione ho notato che c’è sempre un grandissimo desiderio di Dio, come ho avuto modo di illustrare al Santo Padre nel corso dell’udienza che mi ha concesso al mio rientro a Roma”. “Le mie consorelle - aggiunge ancora nell’intervista a ‘la Repubblica’ - sono pronte a partire per l’Unione Sovietica: come hanno fatto altrove, anche in questo paese daranno il loro aiuto ai poveri, ai bisognosi e agli ammalati”. L’intervista all’inviato di “la Repubblica” fa il giro del mondo: è, nel suo genere, un documento storico, perché dalle parole di Madre Teresa, per la prima volta, si ha la concreta sensazione che stia finalmente nascendo un dialogo - sebbene indiretto ed ancora allo stato embrionale - tra il Cremlino (la culla del comunismo mondiale) e il Vaticano. È un documento giornalistico raccolto quasi per caso, in quanto l’incontro tra la suora e il cronista - accompagnato da monsignor Sergio Mercanzin, il direttore del Centro Russia Ecumenica, che in precedenza aveva fatto da tramite tra Madre Teresa e la coppia Albano-Romina Power - avviene senza nessun preavviso, in una stanzetta della sede delle Missionarie di San Gregorio al Celio, alla fine della Messa di prima mattina (quella delle ore 6). Quando il giornalista di “la Repubblica” e don Mercanzin arrivano nella sede del Celio, il cielo è ancora scuro. Il sole sorgerà mentre Madre Teresa e le sue consorelle sono raccolte in preghiera circondate da un silenzio quasi irreale nella grande e spoglia stanza nella quale è stata ricavata la cappella.
Alla conclusione della Messa, la suora, prima di parlare del suo viaggio in Urss, parlerà a lungo col giornalista, si informerà della sua famiglia e dei suoi figli, e gli consegnerà delle immaginette della Madonna di Lourdes raccomandandosi di donarle ai suoi familiari: “Mi raccomando, dai la Madonnina ai tuoi figli, è importante parlare della Madonna e di Gesù ai bambini...”. Solo dopo queste raccomandazioni, racconterà del suo viaggio in Urss e del calore riscontrato sia nei nuovi dirigenti del Cremlino che nella popolazione, “dove, malgrado gli anni passati, c’è sempre fame di Dio”.
Non è per niente azzardato affermare che, se nei mesi successivi tra la Santa Sede e il Cremlino si avvierà un dialogo profondo che porterà nel giugno del 1989 alla prima storica visita in S. Pietro di un presidente sovietico e segretario del Pcus - Gorbaciov - e alla apertura delle relazioni diplomatiche tra il Vaticano e l’Urss, un po’ di merito debba essere riconosciuto anche alla discreta opera mediatrice portata avanti con le autorità sovietiche dalla fondatrice delle Missionarie della Carità, la suora delle missioni impossibili e della concretezza che continua a piacere sempre di più a Papa Wojtyla.
Gli anni Ottanta si avviano verso l’epilogo con una Madre Teresa itinerante più che mai: malgrado gli acciacchi e il peso dell’età, la suora va, non sta mai ferma, viaggia senza sosta per portare pace e solidarietà dove c’è bisogno, dove i poveri chiedono di essere aiutati e la presenza delle Missionarie della Carità è salutata come un dono del Signore dai credenti o come un insperato gesto di umana solidarietà da non credenti, fedeli di altre religioni, indifferenti. La suora con le spalle sempre più curve, con gli occhi sempre più stanchi anche a causa di una serie di disturbi che le bloccano parzialmente la vista e con un cuore che spesso e volentieri fa le bizze, si trascina da una parte all’altra del mondo, abbatte mura, scavalca steccati, sradica pregiudizi, dialoga indifferentemente con timorati di Dio e agnostici, atei e anticlericali, senza, tuttavia, rinunziare alla sua identità cristiana.

Una “casa dono di Maria” anche in Vaticano


Ma c’è un posto a Roma dove mai Madre Teresa avrebbe immaginato di poter fondare una Casa per i poveri, il Vaticano. Un sogno - anche questo quasi impossibile - a lungo accarezzato segretamente e qualche volta lanciato, quasi per scherzo, ad alcuni alti esponenti della gerarchia vaticana con frasi del tipo “mi piacerebbe poter portare un giorno i miei poveri qui, in Vaticano, a pregare sulla tomba di S. Pietro, vicino alla casa del Papa”. Oppure: “come sarebbe bello poter accudire gli ultimi tra gli ultimi che gravitano intorno al Vaticano e magari poter pregare insieme a loro all’ombra della basilica vaticana”. Frasi e desideri di una suora un po’ sognatrice e un po’ utopista, ma che ha saputo fare proprio dei sogni e delle utopie le sue armi vincenti nella battaglia di tutti i giorni ingaggiata contro la povertà e l’emarginazione. Frasi e desideri che - come semi caduti per caso in campi abbandonati germogliano e danno frutti insperati - piano piano incominciano a fare breccia nei piani alti della Curia vaticana fino a penetrare con discrezione nell’appartamento papale, dove c’è un “padrone” di casa che come ben sappiamo nutre per Madre Teresa un affetto ed una fiducia smisurati. Fatto sta che un bel giorno del maggio 1987 la suora riceve dal Vaticano una graditissima notizia: “Il Santo Padre - le viene riferito da un prelato - desidera che lei apra una Casa dentro le mura vaticane per ospitarvi i poveri della zona”. La prima reazione della suora è un mix di sorpresa e meraviglia: “Come? Abbiamo capito bene? Il Santo Padre vuole che le Missionarie della Carità aprano una Casa in Vaticano? È un onore troppo grande: mai avremmo immaginato di poter essere fatte oggetto di una attenzione così grande da parte del Santo Padre. Servire i poveri tra i più poveri in Vaticano è un onore ed una grazia troppo grande”. “Certo, Madre - le viene fatto garbatamente notare dal rappresentante della Curia pontificia - è proprio così: il Santo Padre desidera che lei e le sue Missionarie della Carità vi occupiate dei poveri e dei barboni che gravitano intorno al Vaticano in una Casa di accoglienza che sarà costruita dentro le mura pontificie”.
Tutto vero: Giovanni Paolo II, che come vescovo di Roma ben conosce i disagi dei poveri tra i più poveri che vivono nella capitale (barboni, immigrati privi di lavoro, ammalati, giovani tossicodipendenti, anziani soli...), vuole che anche il Vaticano dia un segnale concreto sul fronte della solidarietà cittadina. Naturale, quindi, che abbia pensato a una figura come Madre Teresa di Calcutta per allestire una Casa di accoglienza in Vaticano dove ospitare gratuitamente un certo numero di bisognosi. Grazie alla spinta papale e alla entusiastica disponibilità delle Missionarie della Carità, l’edificio - battezzato Casa “Dono di Maria” - viene costruito in un’area confinante con il palazzo dell’ex Sant’ Uffizio. Vi possono essere ospitati permanentemente un’ottantina di senza fissa dimora e distribuiti circa un migliaio di pasti caldi al giorno. L’accesso è libero. “Tutti i barboni ed i vagabondi sono benvenuti, indipendentemente dalla loro religione di appartenenza - spiegano i delegati pontifici incaricati dal Papa di realizzare la Casa in collaborazione con Madre Teresa -; non vogliamo che la gente dorma sotto i ponti del Tevere o nella stazione. I poveri ed i bisognosi d’ogni fede, e quelli che non ne hanno alcuna, saranno benvenuti”.

Di nuovo in viaggio e di nuovo malata


La costruzione della nuova Casa delle Missionarie della Carità in Vaticano decolla nel giro di qualche settimana dopo una toccante cerimonia della posa della prima pietra alla presenza delle più alte cariche pontificie, a partire dal segretario di Stato cardinale Agostino Casaroli. Giovanni Paolo II, in precedenza, aveva dato la sua benedizione apostolica al progetto della nuova struttura di accoglienza che la stessa Madre Teresa si era preoccupata di illustrargli nel corso di una udienza.
La Casa “Dono di Maria” sarà costruita in circa un anno di lavoro. Sarà infatti inaugurata nel 1988. Nel frattempo Madre Teresa riprende a viaggiare per il mondo, anche se per le sue condizioni di salute sarebbe meglio per lei restare a riposo. Vola ancora una volta a New York per recare conforto al sindaco Edward Koch colpito da un ictus; approfitta della sosta newyorkese per sottoporsi ad un lieve intervento chirurgico agli occhi. Senza completare la convalescenza, eccola di nuovo in cammino alla volta del Nepal, sconvolto il 21 agosto 1988 da un terribile terremoto: per aiutare le popolazioni colpite appronta un piano di intervento con le consorelle del posto ed inaugura una nuova Casa per il ricovero dei feriti. A novembre decide di abbattere un altro storico (e inquietante) muro, il Sudafrica, il paese da anni chiuso al mondo a causa delle leggi razziali che hanno dato vita ad un sistema sociale rigidamente suddiviso in bianchi e neri, e dove le ricchezze sono tutte in mano alla minoranza bianca mentre la povertà grava sulla stragrande maggioranza nera. Incurante dell’embargo a cui il Sudafrica è sottoposto da quasi tutte le democrazie occidentali, Madre Teresa sbarca a Pretoria su invito dell’arcivescovo cattolico George Daniel e getta le basi per la fondazione di una serie di Case di accoglienza per i poveri sudafricani. Sarà forse anche per queste iniziative che nei mesi successivi il regime razzista sudafricano crollerà ai piedi del campione della lotta all’apartheid Nelson Mandela tornato in libertà dopo oltre 20 anni di prigione e che, in seguito, svolgerà un ruolo di primo piano per la causa della pacificazione nazionale nelle vesti di presidente della Repubblica.

In Sudafrica con solidarietà e contro l’apartheid


La presenza di Madre Teresa in Sudafrica fa discutere molto. Alle tante parole di approvazione si uniscono anche quelle di chi critica la religiosa per non aver apertamente gridato la sua condanna dei governanti sudafricani e per non essersi pronunciata subito contro il regime razzista di quel paese. Senza scomporsi - alle critiche in fondo Madre Teresa è abituata da sempre - la suora risponde che la sua presenza in Sudafrica non ha nessun valore politico: “Le Missionarie della Carità sono venute qui per stare vicino ai poveri, nelle baraccopoli, tra i bisognosi delle periferie. Non sapevo che esistesse l’apartheid - ammette con estrema sincerità la Madre - non mi interesso mai di politica perché non ne ho la competenza. Ma quel che so è che siamo una congregazione religiosa, che ci è stato fatto un invito a cui abbiamo risposto perché vogliamo esercitare anche qui il nostro amore attivo a fianco dei poveri tra i più poveri per l’amore di Cristo ed in stretta osservanza del nostro carisma, facendo né più né meno quello che abbiamo già fatto per i fratelli bisognosi degli altri paesi”. Quanto alle accuse circa una sua presunta “tiepidezza” nel condannare il razzismo, spiega che la sua contrarietà a qualsiasi forma di esclusione - e il razzismo è certamente una delle peggiori, se non la peggiore - è totale: “L’ho sempre detto e continuerò a dirlo. Bianchi, neri, gialli, verdi o di qualsiasi altro colore, noi siamo tutti figli di Dio, siamo stati tutti creati per fare grandi cose, per amare ed essere amati”. Per essere ancora più chiara su questo delicato argomento, in un incontro nella città di Durban, per essere capita da tutti, racconta un episodio realmente accadutole e che dimostra come le Missionarie della Carità, grazie alle loro opere di carità tra i poveri, siano in grado di debellare qualsiasi forma di esclusione e divisione tra la popolazione, al di là del colore della pelle, della religione professata e delle convinzioni politiche. Protagonista dell’aneddoto è una donna indù che decide di aiutare una famiglia di musulmani. “Un giorno ero in una casa di indù, a Calcutta, per portare del riso ad una famiglia in difficoltà. C’era una mamma che appena ci vide ci ringraziò molto: finalmente poteva dar da mangiare ai figli. Ad un certo momento la donna scomparve improvvisamente e, dopo un po’ di tempo, tornò con solo la metà del riso che le avevamo portato. Le chiesi: ‘Cosa avete fatto del riso?’. Mi rispose: ‘Ho diviso quel che mi avevate dato con una famiglia musulmana, sono nostri vicini’. Quella donna conosceva i bisogni dei suoi vicini. Non le importava che fossero musulmani, o che la sua stessa famiglia fosse tanto affamata: questo è amare fino a soffrirne. Ed è quello che noi Missionarie della Carità, insieme ai nostri fratelli poveri, facciamo in tutti i luoghi del mondo dove la Divina Provvidenza ci spinge ad andare. E naturalmente anche in Sudafrica”.
Fatta decollare la presenza delle Missionarie nell’estremo sud del continente africano, via in Armenia per portare conforto ed aiuto alla locale popolazione colpita da un tremendo terremoto che il 7 dicembre 1988 causa la morte di circa 500 mila persone. Anche qui Madre Teresa fonda una nuova Casa di accoglienza dove fa ricoverare i feriti più gravi per sottoporli alle cure delle sue consorelle che l’hanno seguita nel viaggio. Dialoga con tutti, poveri ed autorità, va in udienza dal patriarca armeno, riceve una medaglia per le sue attività umanitarie dal “Comitato Armeno per la Pace”. Il 19 dicembre, dopo circa due settimane di duro lavoro accanto ai terremotati, Madre Teresa ha l’opportunità di incontrarsi anche con Nikolai Ryzkhov, il primo ministro sovietico in visita alle zone colpite dal sisma. Ryzkhov dialoga a lungo con la suora insieme ad altri due importanti dirigenti politici armeni, il ministro degli Esteri e il segretario del partito comunista. L’incontro è cordiale e sembra che tutti - ministri, Madre Teresa, Missionarie della Carità arrivate in Armenia - si conoscano da anni. Madre Teresa illustra con estrema semplicità ai suoi interlocutori il motivo della sua presenza in Armenia, anche perché quasi tutti non le nascondono la meraviglia di averla incontrata in un’area martirizzata che, più che di suore, avrebbe bisogno di servizi tecnici, squadre di specialisti, ospedali attrezzati per il pronto intervento. Per non parlare poi della ricostruzione delle città danneggiate dal sisma, per le quali la presenza di urbanisti e architetti sarebbe salutata come manna dal cielo. “Come mai è arrivata qui, Madre?” Si sente chiedere la suora durante i suoi colloqui. E lei, senza scomporsi: “Sono venuta qui, insieme alle mie consorelle, per aiutare i poveri. Non ho portato né oro, né argento, ma spero di offrire l’aiuto dei miei volontari nel processo di assistenza e di riabilitazione che è stato messo in moto per alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite dal terremoto”.
Dopo il colloquio con gli alti dirigenti sovietici ed armeni, a Madre Teresa viene concesso il permesso di aprire una Casa di accoglienza dove avrebbero operato quattro Missionarie della Carità e un sacerdote cattolico: una novità storica per l’Armenia, un paese che da oltre una settantina d’anni non aveva visto in attività nessuna istituzione ecclesiale e religiosa cattolica. Anche questo può essere additato come uno dei tanti “sogni impossibili” diventati improvvisamente realtà grazie alla forza profetica di Madre Teresa di Calcutta.
Malgrado la frenetica attività, i continui viaggi che la portano a stare sempre in prima linea sul fronte della solidarietà, la suora non può ignorare che il tempo passa e che per tutti - e quindi anche per lei - il momento degli addii non si farà attendere molto. A parte l’età e la stanchezza fisica, la suora sa che i crescenti problemi di salute non le permetteranno a lungo di governare adeguatamente una congregazione religiosa come la sua, diventata ormai una realtà viva e attiva in tantissime parti del mondo.

Il tempo degli addii


Ad ottant’anni compiuti - questa è l’età di Madre Teresa all’inizio degli anni Novanta - la fondatrice delle Missionarie della Carità incomincia quindi a pensare a come uscire di scena. In verità, anche in precedenza ci aveva pensato più volte, specialmente quando gli acciacchi ed i problemi di salute l’avevano costretta a stare forzatamente a letto. Ma sostituire una personalità forte ed unica come Madre Teresa non è impresa da poco, anche se va ricordato che lei non ha fatto mai nulla per apparire la “padrona assoluta” della sua congregazione. Ma, avendola fondata ed essendo diventata uno dei più importanti personaggi internazionali - come del resto ha “certificato” l’Accademia di Norvegia assegnandole il Premio Nobel per la pace - , per le sue consorelle è un’impresa proibitiva individuare tra di loro chi potrà sostituirla alla guida delle Missionarie della Carità. Il problema si è posto, tecnicamente, ad ogni Capitolo generale della congregazione convocato, a partire dagli anni Ottanta, per scegliere democraticamente la nuova Madre Superiora secondo le regole sancite dalle Costituzioni che prevedono al massimo un doppio mandato per una stessa consorella al vertice dell’Ordine. Madre Teresa, fin dalla fondazione della congregazione, è sempre rimasta lì, saldamente al suo posto di guida, appoggiata entusiasticamente da tutte le missionarie e con la benedizione vaticana. In via del tutto eccezionale è stata sempre eletta per acclamazione anche dopo il secondo mandato.
Ma ad ottant’anni compiuti e con una salute malferma, per la suora macedone il tempo di tirare i classici remi in barca è ormai maturo. Madre Teresa, come ha fatto negli ultimi anni in vista dei Capitoli generali dell’Ordine, anche all’inizio del 1990 presenta le dimissioni alle autorità vaticane chiedendo di essere sostituita. In passato tale richiesta era stata sempre respinta dalla Curia pontificia: questa volta no.

Colpo di scena: Madre Teresa si dimette


Il colpo di scena arriva l’11 aprile 1990 quando la Santa Sede e il vertice della congregazione annunciano in un comunicato congiunto che le dimissioni di Madre Teresa sono state accolte. È uno choc per tutti: in primo luogo per la diretta interessata che - pur essendo consapevole di non essere più in grado fisicamente di sopportare il peso della gestione diretta dell’Ordine - non sa immaginarsi in un ruolo diverso da quello fino ad allora svolto. Lo choc, però, dura poco, perché, come vedremo, non sarà facile individuare la suora che sarà chiamata ad assumere una pesante eredità e che per forza di cose dovrà sempre misurarsi con la storia di Madre Teresa di Calcutta.
Il nome della nuova Madre Superiora dell’Ordine arriverà infatti solo dopo qualche anno. Anche se il fisico di Madre Teresa non sarà più quello di prima e le malattie la condizioneranno sempre di più. Uno dei momenti più drammatici che tiene col fiato sospeso tutto il mondo si ha il 3 settembre 1989 - pochi mesi prima l’accettazione da parte della Santa Sede della dimissioni della suora - quando la Madre accusa forti dolori al cuore e allo stomaco, ed è costretta ad un delicato ricovero nella clinica Woodlands di Calcutta, dove lei stessa, convinta di essere ormai prossima alla morte, chiederà l’unzione degli infermi. Tra i tanti messaggi che arrivano alle Missionarie della Carità, particolarmente gradito è quello inviato da Papa Giovanni Paolo II, sempre sollecito e attento a tutto ciò che riguarda Madre Teresa. “Informato della sua improvvisa malattia - scrive tra l’altro il pontefice nel suo messaggio - le scrivo sollecitamente per assicurarle le mie preghiere e le sono spiritualmente vicino. Affidandola all’intercessione della nostra amatissima Madre, Maria, Aiuto dei malati, le impartisco la mia speciale benedizione apostolica come segno di forza e di conforto nel Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo”. Appena letto il messaggio, Madre Teresa - pur essendo alle prese con i suoi dolori al petto e allo stomaco - prende carta e penna e risponde con un altro messaggio altrettanto sentito e pieno di calore verso il Santo Padre. “Santità - scrive tra l’altro la suora - grazie per le sue parole e per la sua sollecita benedizione; le offro, Santo Padre, tutti i miei sacrifici”. Tra gli altri messaggi che arrivano al capezzale di Madre Teresa, quelli del presidente dell’India R. Venkataraman e del primo ministro Rajiv Gandhi, che si recherà anche a farle visita in ospedale. La suora sarà dimessa dalla clinica dopo un intervento per il posizionamento di un pace-maker. Un altro intervento simile sarà effettuato nel novembre 1989 in un secondo ricovero ospedaliero. Dopo una lunga convalescenza, Madre Teresa sarà dimessa finalmente a Natale e potrà far ritorno alla Casa Madre tra le sue consorelle che festeggeranno le festività natalizie e di fine d’anno con inni e lodi al Signore per aver permesso alla loro fondatrice di lasciare l’ospedale sana e salva.
I due interventi al cuore lasciano comunque il segno. Madre Teresa è la prima a rendersi conto di non essere più in grado di continuare a guidare la navicella delle Missionarie lungo le strade del mondo. Forte di questa convinzione e col cuore gonfio di tristezza, in prossimità del Capitolo generale dell’aprile del 1990 scrive una lettera-appello a tutte le sue consorelle per invitarle a scegliere una nuova Superiora. La lettera è indirizzata a tutte le componenti della congregazione, Missionarie della Carità, Fratelli Missionari, Padri e Collaboratori. Come una autentica madre, la suora Premio Nobel per la pace nel momento in cui annuncia il distacco pensa principalmente a tutti i suoi figli. “Con questa mia - scrive Madre Teresa - giungano ad ognuno di voi la mia preghiera e la mia benedizione, nonché il mio amore e la mia gratitudine per tutto quello che siete stati ed avete fatto in tutti questi quarant’anni, per condividere la gioia di amarvi l’un l’altro e di amare i più poveri dei poveri. La vostra presenza e l’opera che avete svolto in tutto il mondo per la gloria di Dio e il bene dei poveri è stato un miracolo vivente ed operante dell’amore di Dio e vostro. Dio ha mostrato la Propria grandezza usando la nullità, e dunque restiamo sempre tali, una nullità, per dare a Dio mano libera nell’usarci senza consultarci. Accettiamo qualsiasi cosa che Egli ci dia, diamo qualsiasi cosa che Egli ci dia e qualsiasi cosa ci prenda con un gran sorriso.
All’approssimarsi del Capitolo generale, il mio cuore è pieno di gioia e di attesa delle cose meravigliose che Dio farà tramite ognuno di voi se accettate con gioia la persona che il Signore ha scelto perché sia vostra Superiora generale. Meravigliose sono le vie del Signore se Gli permettiamo di usarci come Lui vuole”.

La lettera spirituale alle consorelle


La lettera-appello - che da molti sarà considerata come una sorta di lettera-testamento spirituale - fa il giro di tutto il mondo tra le tante Case di accoglienza fondate dalle Missionarie della Carità che all’inizio del decennio Novanta ammontano a circa 3.100 sorelle professe, 454 sorelle novizie e 140 sorelle candidate. Vista la grande domanda di ragazze disposte a prendere i voti, noviziati nel frattempo sono sorti in Polonia, a Calcutta, Manila, Roma, S. Francisco, Tabora (Tanzania) e New York, sede di un noviziato per contemplativi. Complessivamente le missionarie di Madre Teresa al gennaio del 1990 reggono circa 400 Case in 90 paesi. Non è da meno il ramo maschile della congregazione, i Missionari della Carità, per i quali sono in funzione noviziati a Calcutta, a Vaijayawada, nell’India meridionale, a Manila, a Seul, Los Angeles e Manchester. I Fratelli della Carità hanno 380 religiosi professi presenti in 82 comunità distribuite in 26 paesi. Quanto ai Collaboratori, agli inizi del 1990 ammontano a circa 3 milioni i volontari che in vario modo danno una mano direttamente e indirettamente alle Missionarie di Madre Teresa.
La prima a meravigliarsi di una simile presenza intorno alla sua congregazione è proprio lei, la fondatrice dell’Ordine, che proprio in vista del definitivo addio e nel momento di lasciare finalmente le redini della responsabilità alla nuova Superiora generale che prenderà il suo posto, lascerà scritto nel suo supposto “testamento” spirituale un commento carico di ringraziamento a Dio e di speranza per il futuro cammino delle missionarie tra i poveri del mondo. Eccone un ampio stralcio: “Non credevo - confessa la suora - che la nostra opera sarebbe cresciuta così in fretta o che avrebbe raggiunto le dimensioni che ha raggiunto. Non ho mai avuto dubbi che sarebbe vissuta, ma non pensavo in questa forma. Dubbi non ne ho mai avuti, perché avevo in me questa convinzione che se Dio la benediceva sarebbe prosperata. Umanamente parlando, sarebbe stato impossibile, questo è fuori discussione, perché nessuno di noi aveva, né ha, l’esperienza per farla prosperare. Nessuno di noi ha i requisiti che il mondo richiede e ricerca. Questo è il miracolo di tutte le nostre piccole Sorelle, e di tutta la gente che ci sostiene e cammina con noi in tutto il mondo. Dio li usa, essi non sono che degli strumenti, semplici, nelle sue mani. Ma sono convinti, anche loro. Sino a che ognuno di noi sarà convinto in cuor suo, ce la faremo, tutti. E l’opera continuerà a prosperare”.
Tutto pronto, quindi, per la definitiva uscita di scena di Madre Teresa? Macché! Malgrado l’accorato appello della suora e anche di fronte al placet del Vaticano emesso in merito alle dimissioni, il Capitolo generale del settembre del 1990 non riesce ad esprimere il nome della nuova Superiora generale. La situazione al vertice della congregazione resta quindi forzatamente congelata, anche perché sono le stesse suore a non voler accelerare più di tanto l’avvento del definitivo pensionamento della Madre che continua, così, ad esercitare con grande piacere il suo ruolo di guida dell’Ordine. E lo fa nel vero senso del termine con la stessa energia e l’intatta originaria determinazione. Passata la convalescenza e superata la crisi cardiaca, tra il 1990 e il 1991, Madre Teresa riprende perciò a viaggiare e a fondare nuove Case per poveri ed ammalati, nell’ex Unione Sovietica (due Case a Mosca, due in Armenia ed una in Georgia), a Cuba (dove la presenza delle suore viene raddoppiata col beneplacito di Fidel Castro), in Cecoslovacchia (due Case), in Romania, dove vengono organizzate Case per curare bambini affetti dall’Aids, e persino in Albania, a Tirana, dove apre due Case e una a Shkodra attrezzata per accogliere bambini abbandonati perché affetti da problemi mentali e handicap fisici. L’arrivo in Albania, la sua terra d’origine, per Madre Teresa è particolarmente significativo. In precedenza non le era stato mai concesso di aprire Case di accoglienza nelle città albanesi a causa del duro veto imposto dalle leggi comuniste. Grazie al crollo del regime, la situazione cambia e nei primi mesi del 1990 Madre Teresa può finalmente varcare i sospirati confini della patria e ritornare nei suoi luoghi natii. Il primo colloquio avuto col presidente Ramiw Alia è cordiale e, tutto sommato, molto formale. Alla richiesta della Madre di voler aprire Case per i poveri albanesi, il presidente risponde che non gli è permesso concedere placet in questo senso “perché - le spiega - Madre, io non posso infrangere la legge”. Evidentemente, anche se il vecchio regime comunista è stato abbattuto, l’ordinamento legislativo in vigore nel paese è ancora quello vecchio e non prevede che i privati - come sono suore, missionari e sacerdoti - si interessino dell’assistenza dei poveri. Senza farsi scoraggiare dalle parole del presidente, la suora gli risponde con un deciso “allora, io per aiutare poveri, bisognosi e bambini ammalati sono pronta ad infrangere la legge”. Di fronte a tanta ostinata abnegazione e sincera volontà di dare effettivamente una mano ai problemi di povertà ed abbandono in cui versa l’Albania, le autorizzazioni arrivano nel giro di qualche giorno e la prima Casa delle Missionarie della Carità attivata nella sua terra natia può essere inaugurata nel marzo del 1991.

Quell’appello a Bush e a Saddam


Durante gli ultimi giorni del 1990 il mondo intero è col fiato sospeso per l’ormai imminente avvio della guerra del Golfo tra le forze dell’Occidente - Usa in testa - e l’Iraq di Saddam Hussein, in seguito alla forzata annessione del Kuwait da parte del regime iracheno. Madre Teresa, come il Papa e come tanti altri personaggi noti e meno noti, è in prima linea per scongiurare il conflitto. Pur essendo alle prese con problemi di salute - proprio in questi giorni la suora è colpita, tra l’altro, da una noiosissima tosse che la debilita molto - e di successione al vertice della congregazione, nel gennaio del 1991 per cercare di bloccare i venti di guerra provenienti dal Golfo lancia - tramite lettera - un appassionato appello al presidente americano George Bush e al leader iracheno Saddam Hussein, senza però ottenere granché. È una lettera colma di carità e di passione cristiana che Madre Teresa scrive di getto e che fa recapitare ai due presidenti il 2 gennaio. Anche se il conflitto nel Golfo - come vedremo - farà il suo corso, è doveroso ricordare lo sforzo fatto dalla suora la cui lettera resta - al di là del risultato - un autorevole manifesto contro tutte le forme di violenza, contro tutte le guerre, contro ogni sentimento di sopraffazione e di annullamento di un uomo da parte di un altro uomo. La suora la scrive per scongiurare il conflitto nel Golfo, ma vale la pena leggerla, perché quelle parole non cesseranno mai di suonare come monito ed esortazione per qualsiasi uomo di buona volontà che voglia combattere con la sola forza delle parole gli istinti bellici di grandi e piccoli signori della guerra.
La lettera viene scritta nell’ultimo scorcio del 1990 e datata 2 gennaio 1991, quando tutto il mondo segue con il fiato sospeso l’evolversi della critica situazione sorta tra l’Iraq e quasi tutte le forze occidentali in seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno. “Cari presidente Bush e presidente Saddam Hussein - fin dall’esordio, il tono dello scritto è quasi confidenziale, ed entrambi i leader politici sono posti sullo stesso piano e trattati con analoga fraterna sollecitudine - mi rivolgo a voi con le lacrime agli occhi e l’amore di Dio nel cuore per supplicarvi a nome dei poveri e di coloro che diventeranno tali se scoppierà la guerra a cui tutti guardiamo con paura e orrore. Vi supplico con tutto il cuore di prodigarvi per la pace di Dio e per la vostra riconciliazione. Tutti e due avete le vostre ragioni da far valere e il vostro popolo a cui badare, ma vi prego, prima, di prestare ascolto a Colui che venne al mondo per insegnarci la pace. Voi avete il potere e la forza di distruggere la presenza di Dio e la sua immagine. I Suoi uomini, le Sue donne, i Suoi bambini. Vi prego, ascoltate la volontà di Dio. Ci ha creati perché ci amassimo attraverso di Lui e non perché ci distruggessimo con l’odio. È probabile che a breve termine ci saranno vincitori e vinti in questa guerra a cui tutti guardiamo con timore, ma nulla può, né potrà mai, giustificare le sofferenze, il dolore e le perdite causate dalle vostre armi. Mi rivolgo a voi nel nome di Dio, quel Dio che tutti amiamo e che è Uno solo, per supplicarvi di risparmiare gli innocenti, i nostri poveri e quelli che diventeranno tali a causa della guerra. Molti soffriranno in particolar modo perché privi di vie di scampo. Vi prego in ginocchio per loro. Soffriranno, e quando questo avverrà, sarà nostra la colpa per non avere fatto tutto ciò che era in nostro potere per proteggerli e amarli. Vi supplico per coloro che resteranno orfani, vedovi e soli perché i loro genitori, i loro sposi, i loro fratelli e bambini saranno uccisi. Vi prego: salvateli! Vi supplico per coloro che resteranno invalidi e sfigurati: sono figli di Dio. Vi supplico per coloro che rimarranno senza casa, senza cibo e senza amore. Vi prego, pensate a loro come ai vostri figli. In ultimo, vi supplico per coloro a cui verrà tolto il dono più prezioso di Dio, la vita. Vi imploro di salvare i nostri fratelli e le nostre sorelle, che ci sono stati dati da Dio perché li amassimo e ne avessimo cura. Non è per distruggerli che ci sono stati dati. Vi imploro, vi imploro, fate che la vostra mente e la vostra volontà divengano la mente e la volontà del Signore. Voi avete il potere di portare nel mondo la guerra o di costruire la pace”.

Vi prego di scegliere la via della pace


“Io, le mie sorelle e i nostri poveri preghiamo per voi. Il mondo intero prega perché apriate i vostri cuori all’amore di Dio. Potete vincere la guerra, ma quale ne sarebbe il costo in termini di vite umane, devastate, mutilate e annientate? Faccio appello a voi, al vostro amore, al vostro amore per Dio e per il prossimo. Nel nome di Dio e nel nome di coloro che renderete poveri, non distruggete la vita e la pace. Fate invece che l’amore e la pace trionfino e che i vostri nomi vengano ricordati per il bene che avrete fatto, per la gioia che avrete donato e l’amore che avrete condiviso.
Pregate per me e per le mie sorelle perché possiamo servire e amare i poveri che appartengono a Dio e da Lui sono amati, così come noi e i nostri poveri preghiamo per voi. Preghiamo affinché amiate e proteggiate ciò che Dio vi ha affidato con tanta fiducia. Possa Dio benedirvi ora e sempre. Madre Teresa”.
Parole profonde, dettate dal cuore e dall’animo che non producono i frutti sperati, ma che lasciano ugualmente un segno. Come dimostra il fatto che dopo qualche mese dall’invio della lettera, a Madre Teresa arriverà un invito ufficiale da parte di Saddam Hussein ad aprire Case di accoglienza per poveri e ammalati a Baghdad e in altre città irachene.
È un invito che arriva al quartier generale delle Missionarie della Carità di Calcutta insieme ad altri inviti assolutamente impensabili solo pochi mesi prima: alle tre nuove Case aperte in Romania e in altri paesi dell’ex Unione Sovietica, si uniscono le richieste avanzate per i poveri dell’estremo Oriente. È la stessa Madre Teresa che lo fa sapere alle sue più strette collaboratrici: “Proprio in questi giorni è stata aperta una Casa in Cambogia e ci vogliono anche nel Vietnam, oltre alle nuove richieste che arrivano dalla Romania e da Washington...e siamo state invitate anche in Cina! È il Signore che ci sta aiutando, è il Signore che ci chiama per recare aiuto e conforto in paesi così lontani e dove gran parte della popolazione, oltre a soffrire i mali della povertà più estrema, è costretta a patire le conseguenze di anni di conflitti”.

La prima casa a Baghdad


Come succede con l’Iraq, dove è molto probabile che la presenza delle Missionarie della Carità sia stata caldeggiata dalle stesse autorità locali nella speranza che con la presenza delle consorelle di Madre Teresa l’opera di risanamento delle ferite della guerra del Golfo possa avere una più spedita accelerazione. A Baghdad - dove le Missionarie organizzano subito Case di accoglienza e unità mobili per curare i feriti sparsi nelle campagne - Madre Teresa e il primo nucleo di suore scelte per restare in Iraq sono accolte con calore ed entusiasmo dalle autorità civili e religiose. I ministri della Sanità e degli Affari sociali le danno il benvenuto a nome del governo e delle più alte autorità nazionali.
A Baghdad, il ministro della Sanità, Mohammed Sai, le fa presente le critiche situazioni mediche in cui versa gran parte della popolazione. Per cui chiede a Madre Teresa di pensare principalmente ai bambini feriti, agli orfani e agli abbandonati. In un primo momento le autorità mettono a disposizione della suora un elegante edificio abbandonato nel centro della città. Ma Madre Teresa lo rifiuta: come è suo costume lo giudica troppo di lusso. Alla fine accetta di accasarsi in un vecchio convento domenicano abbandonato da anni. Con l’aiuto di volontari e di alcune persone di buona volontà, lo stabile viene subito ripulito e reso accogliente: e diventa così la prima Casa delle Missionarie a Baghdad aperta per dare rifugio a orfani, bambini mutilati e piccoli abbandonati.
Dimenticandosi completamente dei suoi problemi di salute, specialmente di un cuore sempre più affaticato, Madre Teresa in questi giorni iracheni vive come una seconda giovinezza: è sempre in prima linea ad assistere, a dare indicazioni, a distribuire cibo, medicinali, sorrisi e speranze. Cammina, instancabilmente, da mattina a sera, tra i suoi assistiti, visita i poveri nelle loro case segnate dalla guerra, dà agli altri tutte le sue energie. E per questo, durante una visita alla città di Babilonia forse anche per il troppo caldo, avverte dei disturbi ed è costretta a fermarsi per qualche giorno, tra la preoccupazione delle sue consorelle.
Ma lei non si impressiona. Durante la sosta, decide di passare il tempo scrivendo delle lettere nelle quali racconta alle altre consorelle del gran lavoro assistenziale che stanno facendo tra i poveri dell’Iraq. In una lettera si chiede, tra l’altro, “chi avrebbe mai pensato che le Missionarie della Carità sarebbero venute in questi luoghi a proclamare la Parola di Dio attraverso opere d’amore?”. “Mai avrei pensato - aggiunge la suora in un’altra lettera - che la nostra presenza in Iraq avrebbe dato così tanta gioia a migliaia di persone colpite dal conflitto. C’è così tanta sofferenza ovunque. Tra le nostre sorelle alcune conoscono l’arabo, per cui non è poi molto difficile lavorare qui”.
Nei suoi scritti da Baghdad non mancano riflessioni sulla guerra e sulle tante sofferenze che la parte più debole della popolazione - i poveri tra i più poveri - devono subire in conseguenza dei conflitti fratricidi. “Guardavo le terribili sofferenze ed i frutti della guerra - commenta ancora Madre Teresa in un’altra riflessione - e pensavo che la stessa cosa può accadere a causa di parole e azioni dettate dalla carità e che noi non distruggiamo edifici, ma il fulcro stesso dell’amore, della pace e dell’unità, e in tal modo distruggiamo il meraviglioso edificio della nostra società, costruita con così tanto amore da nostro Signore. So che tutti amate la Madre e che fareste qualsiasi cosa per mostrare il vostro amore e la vostra gratitudine. Non vi chiedo che una cosa: siate dei veri Missionari della Carità, e saziate in tal modo la sete di Gesù per l’amore delle anime, lavorando per la salvezza e la santificazione della vostra comunità, della vostra famiglia, dei poveri che servite. Preghiamo”.

In Iraq per alleviare le ferite della guerra


Anche le ferite della guerra diventano, dunque, agli occhi della suora, motivo di analisi e di approfondimento per l’opera missionaria della sua congregazione. Ieri i conflitti mediorientali, oggi le piaghe causate dai bombardamenti sul Golfo. Domani, chissà.... Pur sperando sempre di poter arrivare al giorno in cui la parola guerra sia definitivamente bandita dalla faccia della terra, Madre Teresa dall’eremo iracheno, dove è costretta a fermarsi per rimettersi dalle troppe fatiche affrontate in quei giorni, non si stanca mai di incitare le sue Missionarie della Carità a farsi carico delle vittime, dei feriti, dei bambini ammalati o abbandonati.
Tutto questo, mentre le sue condizioni fisiche diventano ogni giorno sempre più precarie. Il 26 dicembre 1991, durante una permanenza a Los Angeles dove inaugura un’altra Casa, ha una nuova crisi e durante il ricovero i sanitari le diagnosticano una forte polmonite da batteri in conseguenza della quale accusa anche un nuovo infarto. In seguito viene ricoverata in un ospedale di San Diego, in California, per essere sottoposta ad un intervento di angioplastica alle coronarie ostruite dopo l’infarto. Resta in clinica circa 3 settimane, durante le quali, mentre è sotto la tenda dell’ossigeno, riceve tantissimi messaggi di auguri da personaggi noti e meno noti. Il Papa le telefona per farle gli auguri e per impartirle la sua benedizione apostolica per una pronta guarigione. Passano una ventina di giorni e la suora viene dimessa dall’ospedale.
Apparentemente sembra essere in ripresa, ma è debole e non è più in grado di affrontare lunghi viaggi. Prima di far ritorno a Calcutta trascorre, infatti, un periodo di convalescenza a Roma a partire dal febbraio 1992. Ma è una convalescenza apparente: durante la permanenza a Roma collabora attivamente con le sue consorelle per far decollare la nuova Casa “Dono di Maria” in Vaticano. I romani, con il suo primo cittadino, il sindaco Francesco Rutelli, ne sono commossi e per questo incominciano ad accarezzare l’idea di nominarla cittadina onoraria di Roma. L’idea si concretizzerà - e a furor di popolo, vale a dire con il sì di tutte le forze politiche presenti in Campidoglio - quattro anni dopo, il 21 maggio 1996, nella storica cornice dell’aula Giulio Cesare.

La visita di Lady D


Verso la fine di febbraio 1992, Madre Teresa dovrebbe far ritorno a Calcutta dove ha, tra l’altro, un appuntamento con la sua amica Diana di Inghilterra, la quale - allarmata per le notizie rimbalzate nel Regno Unito sui suoi recenti ricoveri-- vuole vederla di persona per sincerarsi delle sue condizioni di salute. Ma è troppo stanca e debilitata e deve rinunciare al viaggio. La principessa vola ugualmente a Calcutta dove è accolta nella Casa Madre con grande gioia dalle altre consorelle. Nel viaggio di ritorno in Inghilterra Lady D, il 19 febbraio, fa una breve sosta a Roma, nell’Istituto della Missionarie della Carità sulla Casilina, dove ha finalmente modo di trascorrere un po’ di tempo accanto a Madre Teresa. L’incontro è strettamente riservato: la suora e Lady D si intrattengono prima nella Casa, lontane da occhi ed orecchie indiscreti. Quasi certamente la principessa ha modo di sapere dalla diretta interessata del suo stato di salute. Dopo la chiacchierata a quattr’occhi, la principessa viene festeggiata nel giardino dalle 40 missionarie della Casa, che le appendono al collo una ghirlanda di garza rosa e le mostrano uno striscione con la scritta “Benvenuta, carissima principessa”. L’incontro termina con un momento di preghiera che la principessa Diana e Madre Teresa condividono nella cappella dell’istituto: cinque intensissimi minuti trascorsi con le mani giunte, in ginocchio e senza scarpe davanti alla statua della Madonna. Alla fine i saluti, baci e abbracci e la promessa reciproca di rivedersi “presto”. E infatti, la principessa e la suora si incontreranno di nuovo il 9 settembre 1992, nella Casa delle Missionarie della Carità di Kilburn, a Londra. Sembra che l’invito questa volta sia stato fatto dalla suora, preoccupata, a sua volta, del difficile momento che la principessa Diana sta vivendo a livello familiare. L’esito dell’incontro non sarà reso pubblico.

Una nuova caduta


La suora non riferirà mai a nessuno la natura dei colloqui avuti con Lady D, anche se non sono pochi i giornali che sostengono che la frequenza degli incontri tra la principessa e la suora Premio Nobel per la pace sia da mettere in relazione alla crisi coniugale esplosa tra Diana e il principe Carlo. Ma si tratterà solo di supposizioni. Per mettere fine a queste illazioni, dalla Casa Madre di Calcutta, Madre Teresa farà emettere un comunicato di smentita destinato alla stampa internazionale sulla quale erano apparse notizie circa una presunta critica della suora nei confronti del principe Carlo di Inghilterra.
Alla vigilia di una nuova serie di viaggi in Nord Europa, altra caduta, questa volta durante una sosta a Roma, dove Madre Teresa scivola in bagno e si frattura tre costole. Breve ricovero ospedaliero, breve convalescenza e, a sorpresa, di nuovo in Inghilterra a fondare una nuova Casa di accoglienza e in Irlanda a parlare a un convegno internazionale sull’aborto, organizzato dal Movimento per la vita. Malgrado gli acciacchi, traditi anche da un tono di voce affaticato e a tratti lento, nel suo intervento ancora una volta scende apertamente in campo in difesa della vita nascente fin dal primo concepimento, richiamando all’ordine credenti, non credenti e le stesse autorità irlandesi. “La vita è il più grande dono che Dio ha fatto all’uomo e per nessuna ragione al mondo deve essere soppressa. Impegniamoci seriamente - raccomanda la suora - per fare in modo che in questo splendido paese che è l’Irlanda non ci siano bambini non desiderati, promettiamo alla nostra Signora, che tanto ama l’Irlanda, che non ci sarà più un solo aborto in questo paese. Promettiamo che non ci saranno più divorzi”.
Dopo Dublino, fa altre tappe a Belfast e a Edimburgo, in Scozia; a giugno apre a Londra una nuova Casa di 35 stanze destinate ai poveri senza fissa dimora a St. George Road, a Southwark. In occasione dell’inaugurazione, Madre Teresa trova anche il tempo di fare una nuova visita alla principessa Diana nella residenza di quest’ultima, a Kensington Palace. Conclude la sosta nel Regno Unito con un incontro con gli studenti di Oxford dove - benché visibilmente affaticata - parla per quasi tre quarti d’ora e risponde anche ad una serie di domande. Al termine della conferenza, lascia a piedi l’Università e durante il percorso viene quasi travolta da centinaia di persone che vogliono toccarla, chiederle come sta, farle festa. Lei risponde a tutti, ringrazia, distribuisce sorrisi e strette di mano, senza riuscire a nascondere il suo cattivo stato di salute. Tutti notano che soffre e che cammina a fatica, e per questo vogliono vederla da vicino, forse spinti da un’inconscia forma di timore che non ci potrà essere un’altra volta.
Conclusa la visita in Inghilterra, ritorna in India e nell’agosto del 1993, mentre si trova a Delhi, invitata dalle autorità locali che le vogliono conferire un altro importante riconoscimento, viene nuovamente ricoverata per congestione polmonare e dispnea in seguito ad un attacco di malaria. Durante il ricovero, i medici la strappano ancora una volta dalla morte intervenendo sull’aorta ostruita. Altra lunga convalescenza ed altra miracolosa ripresa, anche se ormai appare fin troppo evidente che Madre Teresa non è più in grado di guidare come Superiora generale una grande famiglia come le Missionarie della Carità.

Madre Teresa non vuole gettare la spugna


Lei naturalmente non vuole gettare la spugna. Ad ogni ricaduta, ad ogni ricovero risponde sempre con una immediata sorprendente ripresa, pur rendendosi conto che ormai non può più fare affidamento sulle energie di un tempo.
Forse, temendo anche lei qualche brutta sorpresa dal suo malconcio organismo, il 30 settembre 1993 scrive una lunga lettera a tutti i Collaboratori dell’Ordine, quasi a voler lasciare loro dotazione le sue ultime volontà. Il passo è dettato anche dalle preoccupate notizie che, negli ultimi tempi, le arrivano in merito a un certo clima di crisi che è andato via via maturando tra i vari rami della congregazione, specialmente nelle sedi fondate nella lontana periferia. In altri tempi, Madre Teresa sarebbe intervenuta in prima persona, si sarebbe recata lei stessa a parlare con gli interessati con visite improvvise: avrebbe, in sostanza, affrontato a viso aperto qualsiasi problema e, certamente, lo avrebbe risolto con la sua tradizionale determinazione. Ma ora non può più farlo, a 83 anni compiuti in ospedale e con un fisico che spesso e volentieri è chiamato a fare i conti con ricadute, interventi chirurgici, acciacchi vari, giramenti di testa, memoria sempre più precaria, Madre Teresa deve “accontentarsi” di scrivere una lettera-appello, nella quale riesce tuttavia a delineare, punto per punto, la strada futura lungo la quale i Collaboratori dovranno incamminarsi per restare fedeli al carisma delle Missionarie della Carità. Anche questa è una lettera che merita essere ricordata per il suo alto significato morale e per la concretezza operativa che, ancora una volta, è possibile cogliere dalle parole di Madre Teresa: è il documento di un leader che, invece di pensare ai propri malanni, tenta disperatamente di far sentire la sua materna voce ai tanti figli disseminati nel mondo, in particolar modo a quelli che magari vivono momenti di incertezza e hanno quindi bisogno di sentire il richiamo della vecchia madre. “Volevo raccogliere tutti voi a Calcutta - è l’inizio della lettera - per dire ciò che ho nel cuore in merito ai miei Collaboratori. Adesso non è possibile. Che la benedizione del Signore sia con tutti voi e vi aiuti ad accettare questa mia decisione presa dopo molte preghiere, pene, sofferenze. Sono molto grata per lo splendido lavoro fatto da ciascuno di voi. Questi 25 anni sono stati meravigliosi per Dio. Voglio ringraziare in particolare tra voi quelli che erano con me fin dall’inizio, in particolare la signora Ann Blaikie. Gesù disse ‘l’hai fatto a me’, la tua ricompensa sarà grande nei cieli”.
“Cari Collaboratori - continua Madre Teresa - per mantenere il vostro spirito di Collaboratori, dovrete soltanto rimanere in stretto contatto con le Missionarie della Carità e tra di voi, ovunque voi siate. Voglio che lavoriate con le Sorelle, Fratelli e Padri, direttamente, facendo quel lavoro umile che comincia nelle vostre case, quartieri, parrocchie, città; e ove non ci sono Missionarie della Carità voglio che lavoriate nello stesso spirito ovunque voi vi troviate.
È questo ciò che trasformerà il mondo. Se pregate, Dio vi darà un cuore puro, il cuore puro può vedere il volto di Dio nel povero che servite. Adesso che i tempi sono cambiati e le Sorelle sono in 105 paesi nel mondo non abbiamo bisogno dei Collaboratori come una organizzazione con consiglio di amministrazione, funzionari, collegamenti e conti bancari. Non voglio che si spenda denaro per bollettini o viaggi di Collaboratori. Se vedete qualcuno raccogliere danaro a mio nome, impediteglielo: in ogni caso tutto il danaro datovi per Madre Teresa o per le Missionarie della Carità deve immediatamente ed interamente essere dato alle Missionarie della Carità.
Rispettando queste tre regole apparterrete alla famiglia delle Missionarie della Carità e sarete Collaboratori di Madre Teresa. Ma io non voglio che i Collaboratori continuino ad esistere in quanto organizzazione. Ho scritto a tutti i vescovi del mondo che io ho preso questa decisione. Rimaniamo uniti nel cuore di Gesù attraverso Maria come famiglia spirituale. Il mio dono è quello di permettervi di condividere con noi il lavoro di Dio, di portare l’amore di Dio nello spirito della preghiera e del sacrificio. Mi appello a voi ancora una volta. Siate ciò che la Madre vi chiede di essere in ogni paese e città: semplici Collaboratori che aiutano le Sorelle a portare Gesù ai poveri. Avrete la mia benedizione e la mia più profonda gratitudine se farete ciò che chiedo. Cerchiamo di essere tutti un cuore pieno di amore nel cuore di Gesù, pieno di amore per Maria e attraverso il cuore immacolato di Maria, fonte della nostra gioia. Ripetiamo: Maria Madre di Gesù, che tu sia anche Madre nostra. Ognuno di voi è nelle mie preghiere quotidiane. Che siamo tutti un cuore pieno di amore, preghiamo”.

Di nuovo operata


Leggendo queste parole appare fin troppo evidente la grande forza d’animo di Madre Teresa, una donna che anche di fronte al male riesce a combattere fino in fondo, non si perde d’animo mai, e anche se avverte che le forze ormai incominciano a farle difetto sente nel più profondo della sua anima la responsabilità di far giungere la sua voce a tutti i Collaboratori.
È quasi una lotta contro il tempo: da una parte gli incalzanti problemi di gestione di un ramo dell’ordine i cui membri mal sopporterebbero di diventare dall’oggi al domani orfani della loro fondatrice; dall’altra l’opera destabilizzante degli acciacchi che tornano a farsi sentire il 17 settembre 1993 con un nuovo intervento chirurgico. Questa volta i chirurghi devono intervenire per inserirle nell’aorta un catetere. Ancora una volta tutto il mondo si ferma alla notizia della nuova operazione. Tra i tanti messaggi che arrivano al suo capezzale, il più sollecito e tempestivo, come sempre, è quello di Giovanni Paolo II che la benedice e le fa gli auguri di una “pronta ripresa perché, cara Madre, il mondo intero ha bisogno di Lei”.
Parole profetiche quelle di papa Wojtyla: nel giro di qualche settimana, Madre Teresa è di nuovo in piedi e qualcuno incomincia a parlare di lei come di un autentico miracolo vivente. Lascia l’ospedale e, per di più, senza dare il minimo ascolto ai medici curanti, riprende a viaggiare verso mete nemmeno tanto vicine. Alla fine di ottobre 1993 sbarca infatti in Cina per tentare di aprire, a Shanghai, una Casa per i poveri. Il mese dopo è di nuovo a Roma per prendere parte ad una celebrazione di professione di fede di un gruppo di consorelle; poi va in Polonia e dal 3 febbraio 1994 eccola di nuovo negli Usa, a Washington, per prendere parte alla “Colazione nazionale di preghiera”, il tradizionale incontro annuale che si svolge all’Hotel Hilton alla presenza delle personalità più rappresentative degli Usa e del presidente Bill Clinton accompagnato dalla moglie Hillary. Nel suo intervento, a sorpresa, Madre Teresa affronta il delicato tema dell’aborto, una materia che da tempo tiene vivo il dibattito politico americano, spaccato tra chi si batte per mettere definitivamente fuori legge chi interrompe volontariamente la gravidanza e chi - come la coppia Clinton - non respinge aprioristicamente una legislazione che regolamenti la materia. Incurante di equilibri politici e sensibilità diplomatiche, Madre Teresa apre la delicata parentesi sull’aborto e va direttamente al cuore del problema: “Vorrei che partisse da qui - esorta la suora - un segno di aiuto al più debole dei deboli, il bambino non nato. L’aborto oggi è il grande nemico della pace, perché è una guerra contro il bambino, la diretta uccisione di un bambino innocente, assassinato dalla stessa madre. Se accettiamo che una madre possa uccidere il proprio figlio - sostiene la suora, ripetendo uno dei suoi concetti-denuncia a lei più cari - come possiamo dire agli altri di non uccidersi l’un l’altro? In India ho salvato dall’aborto più di 3.000 bambini”. Infine, rivolgendosi simbolicamente a tutte le mamme in procinto di abortire, lancia un appassionato appello: “Non uccidete quel bambino, datelo a me, lo voglio io, sono pronta a prendere qualsiasi bambino e a darlo a una coppia sposata”. Un grande applauso segna la conclusione del discorso di Madre Teresa, al quale la coppia Clinton si unisce solo con un sorriso di circostanza. Malgrado le differenze di vedute, Hillary Clinton stringe subito amicizia con la suora, con la quale - pur non essendo completamente in sintonia in materia di interruzione volontaria della gravidanza - pianifica un progetto di adozioni a distanza per bambini poveri. L’amicizia tra le due donne si consolida ulteriormente l’anno successivo, quando Hillary Clinton e la figlia visiteranno per alcuni giorni le Case di accoglienza delle Missionarie della Carità di Nuova Delhi.
Il sogno impossibile di aprire una nuova Casa in Cina si riaffaccia nel marzo del 1994 quando - sempre disattendendo i consigli dei medici curanti che vorrebbero che non si affaticasse più come ai vecchi tempi - vola a Shanghai su invito del vescovo locale e a Beijing dove si incontra con i responsabili dell’assistenza ai bambini portatori di handicap: l’idea è di aprire quanto prima un centro di accoglienza per questi piccoli. Ma, malgrado la buona volontà dell’anziana suora, malgrado la sua forte determinazione nel voler dare quanto prima una risposta di carità alla parte della popolazione cinese più debole e indifesa, e malgrado ancora le tante promesse fatte dai dirigenti locali, il progetto non si concretizzerà.

“Teresa, angelo dell’inferno”


La prima metà degli anni Novanta non è contrassegnata solo da viaggi o da problemi di salute. In particolare dal 1992 al 1994, Madre Teresa torna ad essere fatta oggetto di numerose premiazioni e riconoscimenti di altissimo prestigio. Più o meno nello stesso periodo in cui sulla stampa inglese vengono pubblicati una serie di reportages e qualche libro dai quali traspare una certa critica al suo modo di fare assistenza. C’è persino qualcuno che la definisce piuttosto sbrigativamente “Angelo dell’inferno”, accusandola, tra l’altro, di essere una sorta di braccio armato del Vaticano e della Chiesa cattolica in generale sul fronte delle povertà più estreme, dove andrebbe a caccia di conversioni forzate. Accuse velenose e risibili alle quali Madre Teresa reagisce mediante l’unico modo possibile con cui può reagire una autentica figlia della Chiesa, perdonando i suoi denigratori. “Possa Dio perdonarlo - dice infatti un giorno la suora commentando le accuse formulate nei suoi confronti da un giornalista della tv inglese - perché non sa quello che sta facendo. Pregate affinché quest’uomo capisca ciò che ha fatto, perché Gesù ha detto che qualsiasi cosa facciate alla persona meno importante, la farete a Lui”.
In compenso, in questi anni le critiche vengono sistematicamente sommerse da una lunga serie di riconoscimenti internazionali: nell’agosto del 1992 le viene assegnato a New York il “Knights of St. Columbus Gaudium et Spes”, accompagnato da un altro premio in danaro (52 mila sterline) conferitole dal cardinale John O’Connor. Non è da meno l’altro riconoscimento, ricevuto nello stesso mese di agosto, quando il Royal College of Surgeons islandese la nomina proprio membro onorario. Nel successivo mese di dicembre 1992, riceve dall’agenzia culturale Unesco delle Nazioni Unite il premio per l’educazione alla pace con la seguente motivazione: “Per aver coronato una vita consacrata al servizio dei poveri, alla promozione della pace, alla lotta contro le ingiustizie ricevute”. Il premio consiste in un assegno di 50 mila dollari che Madre Teresa destina immediatamente alla costruzione di una nuova Casa per portatori di handicap in una località alla periferia di Calcutta.

Ancora premi e riconoscimenti


Passa appena una manciata di giorni e nel gennaio del 1993 arriva per Madre Teresa un altro riconoscimento pontificio, il premio “Ecclesia et Pontefice” per la sua attività accanto ai poveri tra i più poveri e per la sua appassionata opera a favore della pace, secondo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù Cristo.
Premi, professioni di voti solenni da parte delle sua consorelle, apertura di nuove Case di accoglienza: non passa giorno che sul tavolo di Madre Teresa non arrivi un invito, non le sia segnalato un caso, un problema. Lei risponde a tutti, ha per ogni domanda, anche la più piccola e apparentemente insignificante, una risposta, un suggerimento. Quando può, raccoglie le sue residue forze e va, anche se deve sfidare un equilibrio che diventa ogni giorno più precario e che la porta sovente incontro a cadute accidentali perfino durante le ore di riposo. Come succede, ad esempio, in India nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile 1996 quando cade improvvisamente dal letto e si frattura una clavicola. Altra corsa in ospedale attraverso il traffico caotico di Calcutta, altro ricovero e altra convalescenza forzata.
Madre Teresa ricoverata nell'ospedale di Calcutta alla fine del 1996

Ma la sosta dura poco. Appena si riprende, vola a Roma, negli Usa e in Irlanda, dove si sloga una caviglia cadendo da uno scalino che non aveva visto. Per qualche giorno è costretta a muoversi servendosi di una sedia a rotelle. Ritorna di nuovo a Calcutta, dopo aver fatto tappa, ancora una volta, a Roma e in Gran Bretagna. A Calcutta, nuova ricaduta: il 23 agosto viene ricoverata di nuovo e per diversi giorni è tenuta in vita attraverso un respiratore artificiale nella clinica Woodlands Nursing Home. Ancora una volta il mondo trema. Potenti della terra, capi di Stato e anonimi uomini della strada le si stringono idealmente intorno. Ancora una volta la Casa Madre di Calcutta è presa d’assalto da fotoreporter, giornalisti e da un mare di messaggi augurali, tra i quali spiccano quelli del Papa e della principessa Diana. Giovanni Paolo II telefona personalmente al vescovo di Calcutta per esprimere i suoi auguri di pronta guarigione. Anche Lady D, non potendo recarsi in India, invia un suo appassionato messaggio. “Calcutta prega mentre Madre Teresa lotta per la vita”, titola a tutta pagina il quotidiano indiano “The Telegraph”. Dello stesso tenore i servizi di tutti gli altri mass media nazionali ed internazionali. Il dottor S.K. Sen, direttore della clinica Woodlands Nursing Home e membro dell’équipe medica che segue da anni la Madre, afferma che la missionaria “ha dimostrato una grande forza per la sua età, 86 anni”, che la suora compirà martedì prossimo. “Abbiamo sospeso i preparativi per i festeggiamenti - fanno sapere le Missionarie della Carità - e ci siamo dedicate alla preghiera per una pronta guarigione della Madre”.
Dopo tre giorni di crisi, con febbre alta, respirazione forzata e bollettini medici allarmanti, ecco l’ennesimo miracolo: la suora si riprende e subito chiede di poter far ritorno a casa. Dopo una serie di analisi e di cure forzatamente imposte dai medici - tra cui una tac con la quale verrà individuata una macchia al cervello - il 25 settembre 1996 Madre Teresa esce dall’ospedale.
Il rientro a casa è come al solito festoso. Il fatto che la suora non possa camminare più come un tempo, per le sue consorelle conta, apparentemente, poco. L’importante è averla di nuovo in mezzo a loro. E c’è da dire che il calore delle consorelle diventa per lei un efficace toccasana. Si riprende ancora una volta, giusto il tempo di concedere qualche intervista, dedicata al suo stato di salute, e di assistere ai preparativi del nuovo Capitolo generale della congregazione in programma per il 7 ottobre e dal quale dovrà essere eletta la religiosa che prenderà il suo posto come nuova Superiora delle Missionarie della Carità. Questa volta dal Capitolo dovrà uscire necessariamente un nome, contrariamente a quanto avvenne sei anni prima quando un analogo Capitolo non fu in grado di indicare chi doveva sostituire Madre Teresa al vertice della congregazione. Questa volta non ci potranno essere tentennamenti, anche perché le condizioni di salute della fondatrice non promettono nulla di buono. Ed infatti il 22 novembre successivo, dovrà essere ricoverata di nuovo in seguito ad una serie di fortissimi dolori al petto provocati da un arresto cardiaco. Appena pochi giorni prima del nuovo ricovero, i più importanti giornali del mondo avevano fatto a gara per intervistarla. In una intervista, rilasciata a Tiziano Terzani per il Corriere della Sera - forse una delle ultime volte che la Madre fondatrice delle Missionarie della Carità affida lucidamente il suo pensiero ad un giornalista - fa un po’ il punto della sua vita di missionaria e dichiara di sentirsi “pronta” a una eventuale nuova chiamata del Signore. Al giornalista che, con fare bonariamente provocatorio, le chiede se dopo tanti anni di attività missionaria per caso avesse qualche dubbio sulle cose fatte, risponde decisa: “Come si possono avere dubbi su quel che si fa? Il lavoro fin qui fatto è tutta opera Sua...”: è dunque tutta opera di Dio. Ad un’altra domanda scomoda circa la pretesa delle Missionarie della Carità di dare più peso alle preghiere che alle medicine per alleviare i dolori e le malattie, risponde con altrettanta decisione: “Sì, non siamo delle infermiere, non siamo delle assistenti sociali, siamo delle suore. E i nostri centri non sono degli ospedali in cui la gente viene curata, sono Case in cui la gente che nessuno vuole viene amata”.
Altra domanda “impertinente” imperniata, questa volta, su un’affermazione fatta un giorno dalla stessa Madre Teresa in merito a Galileo: “Lei, Madre - le ricorda Terzani -, un giorno ha affermato che se ci fosse ancora da scegliere tra la Chiesa e lo scienziato pisano, sceglierebbe la Chiesa: non è questo un rifiuto della scienza che è oggi la grande fede dell’Occidente?”. Per niente intimidita, la suora risponde così: “Allora, perché l’Occidente lascia morire la gente per le strade? Perché? Perché tocca a noi a Washington, a New York, in tutte queste grandi città aprire dei posti per dar da mangiare ai poveri. Diamo cibo, vestiti, rifugio, ma soprattutto diamo amore, perché sentirsi rifiutati da tutti, sentirsi non amati è ancora peggio che aver fame e freddo. Questa è oggi la grande malattia del mondo. Anche di quello occidentale”.

“Se una madre uccide il figlio...”


Nella stessa intervista, torna a condannare severamente ancora una volta l’aborto, definito drasticamente “il male”. “Se una madre - lamenta la suora Premio Nobel per la pace - è capace di uccidere il proprio figlio, che cosa impedisce a noi di scannarci l’uno con l’altro? Niente!”. Quanto alle cause della povertà, Madre Teresa spiega che è tutta colpa dell’uomo: “Dio - è il suo ragionamento - ha creato noi e noi abbiamo creato la povertà. Il problema si risolverà solo quando noi avremo rinunziato alla nostra ingordigia”. Nell’intervista si parla anche del futuro delle Missionarie della Carità: “È tutto nelle mani di Dio”, spiega la Madre, “e per questo non mi preoccupo: Lui provvederà, Lui ha scelto me e allo stesso modo sceglierà qualcuno che continuerà il lavoro”. Infine, la morte: “Non ho paura di morire, perché dovrei ? - confessa candidamente la suora - Ho visto tantissima gente morire e nessuno attorno a me è morto male”.
Queste parole fanno un po’ da sfondo all’ennesimo ricovero ospedaliero di Madre Teresa, che resta confinata in una stanza al primo piano del centro di ricerca Birla di Calcutta, specializzato in malattie cardiache. La nuova degenza dura fino al 19 dicembre 1996, giorno in cui fa nuovamente ritorno a casa giusto in tempo per partecipare alle festività natalizie, le ultime della sua vita terrena. Ma non ci saranno per lei grandi festeggiamenti perché sarà costretta a stare a letto a causa di una serie di forti dolori alla schiena. Durante le settimane trascorse in ospedale, dove è stata sottoposta ad un intervento di angioplastica, ha comunque ugualmente potuto “dialogare” col mondo esterno rilasciando, in via del tutto eccezionale, una intervista ad un altro giornalista italiano, Gabriele Romagnoli del quotidiano “La Stampa”. La Madre, con sorprendente lucidità, risponde a tutte le domande del cronista manifestando un forte desiderio di ritornare subito al lavoro (“Voglio ritornare tra i miei poveri”) e un attaccamento alla vita difficilmente riscontrabile in ammalati reduci da una lunga serie di interventi chirurgici come lei. “Madre, come sta?” Le chiede in apertura di intervista il giornalista della “Stampa”. “Meglio - risponde la suora - sono pronta a lasciare l’ospedale, ma i medici non sono pronti a lasciarmi andare. Li ho ringraziati per quello che hanno fatto, Dio renderà loro merito per aver curato un loro simile, ma è tempo che io riprenda il mio posto e il mio servizio”. “I medici mi hanno convinto - continua la suora spiegando perché abbia accettato di sottoporsi alle cure - che solo così avrei potuto tornare alla mia opera. Se mi trovo qui, ora, è perché la Provvidenza mi ci ha condotto. Ogni cristiano segue il suo calvario. Non sono io l’artefice del mio destino. Quello che adesso chiedo nelle mie preghiere è che possa tornare al più presto dove mi trovavo prima, tra i poveri e gli agonizzanti”. Nel parlare, poi, della vita e della morte, di quanti hanno perso la vita tra le sue braccia ed il “privilegio” di continuare a vivere, la suora risponde: “La vita è, deve essere, sacrificio, perché la mia vita è sacrificio, perché chiunque abbia incontrato la sofferenza può continuare serenamente il cammino solo se si dedica ad alleviarla. Non c’è altra regola per dare un senso all’esistenza che questa: sacrificio, sacrificio, sacrificio. È questa la capacità che il mondo moderno ha perduto, è questa la via per trovare in se stessi il conforto, per non smarrirsi. Solo una esistenza dedicata agli altri, al Dio che si incarna in ognuno di loro, può dare la pace. A quelli che pregano per me io dico grazie, ma dico di ricordarsi, prima ancora, di rivolgere le loro suppliche in favore dei più poveri tra i poveri. Ringrazio i medici che mi stanno curando, ma vorrei potessero farlo per ciascuno dei miei assistiti, che ognuno di loro potesse uscire di qui e andare a visitare almeno uno dei bisognosi di Calcutta prima di venire da me”.
Come nella precedente intervista al “Corriere”, in questa nuova intervista non si mostra per niente impressionata dall’idea della morte. “Essa, la morte, verrà - conclude Madre Teresa - quando il mio compito sarà terminato, quando l’esempio sarà dato. So che sarà così, che la Provvidenza saprà valutare e allora non posso che attendere serenamente”.

Il definitivo addio


Il desiderio di ritornare dalle sue consorelle espresso nell’intervista alla “Stampa”, come abbiamo visto, viene pienamente esaudito: Madre Teresa ritorna a casa e può trascorrere, pur afflitta da dolori alla schiena e con un cuore che perde sempre più colpi, insieme alle sue consorelle il suo ultimo Natale. Subito dopo le festività, di fronte a una ripresa fisica che tarda ad arrivare, il suo diretto superiore, l’arcivescovo di Calcutta, monsignor Henry D’Souza, annuncia che la Madre non potrà essere più la Superiora delle Missionarie della Carità. È un annuncio storico, doloroso, che nessuno avrebbe mai voluto né dare, né ascoltare. Continuare a far finta di niente, ragiona l’arcivescovo, sarebbe stato pericoloso per la diretta interessata e per la stessa sopravvivenza della congregazione. L’arcivescovo si rivolge direttamente alle suore elettrici per ricordare che questa volta non si dovrà ripetere la storia del 1990, quando di fronte alle dimissioni annunciate da Madre Teresa, il Capitolo non fu in grado di esprimere il nome della sua sostituta e la situazione al vertice dell’Ordine fu come congelata. Malgrado i problemi di salute ed i frequenti ricoveri, l’anziana fondatrice fu quasi costretta a riprendere in mano le redini dell’Ordine. E va pure detto che lei lo fece con entusiasmo e senza risparmio. Questa volta non sarà più possibile ripetere un fatto del genere: Madre Teresa - ricorda l’arcivescovo - ha dedicato tutta la sua vita ai poveri ed ora merita un giusto riposo. Il suo fisico non è più in grado di reggere l’enorme peso legato alla carica di Superiora generale dell’Ordine. Oltre all’esortazione dell’arcivescovo di Calcutta, alle suore capitolari arriva anche un messaggio di Papa Giovanni Paolo II che invita le religiose “a lasciarsi guidare dalla volontà di Dio nelle loro decisioni”. È forse il segnale definitivo che Madre Teresa deve necessariamente essere sostituita da una consorella più giovane. La scelta, come si vedrà, non sarà delle più semplici. In primo luogo, le delegate (123 religiose elettrici in rappresentanza di circa 4.000 Missionarie della Carità presenti in 600 Case distribuite in 122 paesi) fanno fatica ad immaginare la loro congregazione priva della guida della loro fondatrice. Per molte di esse Madre Teresa significa automaticamente Missionarie della Carità, ma significa anche Madre, amica, consigliera, confidente, persona in grado di coniugare azione e preghiera, teoria e pratica, il tutto regolato da un amore infinito verso i poveri tra i più poveri; la congregazione senza Madre Teresa - temono in molti - sarà destinata a diventare un’altra cosa. A questa realtà va aggiunto, poi, il grande carisma che da sempre circonda il nome della suora Premio Nobel per la pace: chiunque sarà chiamata a prendere il suo posto dovrà, inevitabilmente, misurarsi con una personalità tanto forte, autorevole e complessa come è Madre Teresa. Altre ragioni che impediscono alle delegate capitolari di esprimersi con scioltezza vanno ricercate nel cuore di ciascuna di loro, dove da sempre alberga un sentimento immenso e indistruttibile per la loro Madre fondatrice: per molte delegate è sufficiente averla ancora al vertice della congregazione anche senza l’energia di un tempo; altre si contentano di vederla così com’è, a letto, su una sedia a rotelle, ma rifiutano istintivamente di immaginarla lontana dalla congregazione. Ragioni del cuore e dell’istinto che, però, devono arrendersi di fronte alla legge del tempo: a 87 anni e con un fisico ferito da acciacchi e interventi chirurgici, Madre Teresa deve per forza maggiore essere sostituita.

L’avvento di suor Nirmala


Dopo mesi e mesi di indecisione, il gran giorno arriva. Il nome della suora chiamata a sostituire al vertice della congregazione l’antica fondatrice viene reso noto il 13 marzo 1997, un giovedì: il voto espresso all’unanimità dalle 123 delegate sancisce che la nuova Superiora generale delle Missionarie della Carità chiamata a succedere a Madre Teresa è suor Mary Nirmala Joshi, una sessantatreenne nepalese a lungo responsabile del ramo contemplativo della congregazione. L’elezione a guida delle Missionarie la raggiunge mentre è a letto alle prese con una noiosa febbre di origine malarica. Solo un piccolo contrattempo che non scalfisce minimamente la gioia - sua e di tutte le altre consorelle - scaturita dall’avvenuta nomina. Nessuno saprà con esattezza cosa in cuor suo suor Nirmala pensi al momento di accettare l’importante incarico. Stando ai racconti delle sue consorelle, che in quei giorni di forzata degenza l’accudiscono, appena viene informata dell’esito dell’elezione il suo primo pensiero è di ringraziamento a Dio, subito seguito da un’espressione di filiale affetto per Madre Teresa (“La nostra dolce Madre, sarà sempre per tutte noi guida e punto di riferimento irrinunciabile”) e una fraterna richiesta rivolta alle consorelle: “Se pregherete per me, il Signore farà sì che io svolga un buon lavoro sull’esempio della nostra Madre fondatrice per l’aiuto ai poveri tra i più poveri, i derelitti, gli abbandonati”.
Ma chi è veramente suor Nirmala? Chi è questa suora sulle cui spalle all’improvviso cade tutto il peso di un’eredità così importante e delicata? Con che stato d’animo accetta di succedere ad un personaggio come Madre Teresa di Calcutta, con la cui ombra dovrà, necessariamente, misurarsi per tutto il resto della sua vita?
Suor Nirmala è nata il 23 luglio 1934 a Duranda, in India, nei pressi della città di Ranchi, nello Stato di Bihar, da una famiglia induista originaria del Nepal appartenente alla più illustre casta indiana, quella sacerdotale dei bramini. Il suo vero nome è Kusum, che significa “fiore”: è la primogenita di dieci fratelli, di cui otto maschi. Malgrado la fortissima identità religiosa della famiglia d’origine, si converte al cattolicesimo nel 1958, all’età di 24 anni.
Suor Nirmala

Come tutte le consorelle che accettano di servire i poveri, entrando nella grande famiglia delle Missionarie della Carità, suor Nirmala ha fatto sempre della discrezione e della riservatezza uno dei tratti caratteristici della sua vita di religiosa. Di lei si è sempre saputo poco, al di là dell’importante ruolo svolto per anni come responsabile del ramo contemplativo della congregazione. È una suora, quindi, abituata ad una vita strettamente riservata, fatta di preghiere, meditazione, studi della parola di Dio. Il padre - un militare di carriera - era un nepalese ed aveva sposato un donna indiana. Da bambina, la futura Superiora generale delle Missionarie della Carità viene perciò allevata nella fede indù, la conversione al cristianesimo arriverà dopo. A causa degli impegni di lavoro del padre, spostato in continuazione da una città all’altra per motivi di servizio, Nirmala passa i primi anni della sua vita in frequenti viaggi. Ha studiato a Patna, nel locale corso di scuola superiore, ma quando incontra Madre Teresa, su indicazione di quest’ultima, va a completare gli studi all’Università di Calcutta dove consegue la laurea in Giurisprudenza. Insieme ad un’altra sorella si converte al cattolicesimo, mentre tutto il resto della famiglia resta legato alla fede indù. Professati i voti solenni nelle Missionarie della Carità, per tanto tempo è stata l’ombra fedele di Madre Teresa, accompagnandola in tanti viaggi all’estero, specialmente quando l’anziana fondatrice dell’ordine incomincia ad accusare il peso degli anni e delle malattie.

Madre Teresa benedice suor Nirmala


Tra le sue consorelle è stata sempre vista con affetto e simpatia, anche per quel suo modo di fare discreto e mai prevaricante, tipico delle religiose claustrali, anche se per lei sarebbe sbagliato parlare di clausura o di vita strettamente monastica. La sua caratteristica vincente è il carattere e le sue qualità umane sono in prevalenza improntate a umiltà, lealtà, compassione per gli altri, specialmente per i più deboli. La nuova Superiora generale delle Missionarie della Carità è, inoltre, dotata di una qualità che la rende ulteriormente simpatica agli occhi delle sue consorelle: è una persona che parla poco e ascolta molto. La riservatezza ed il rispetto per gli altri l’hanno sempre fortemente contraddistinta a tal punto da non essere mai stata inserita tra le possibili “candidate” alla successione di Madre Teresa. La sua elezione - sancita per di più all’unanimità - viene salutata con entusiasmo da parte di tutti i componenti della congregazione, sia laici che religiosi, che non disdegnano di leggere questa sua nomina al vertice dell’ordine come un indecifrabile “segno” divino.
La prima a benedire l’elezione di suor Nirmala è Madre Teresa che, dopo il Capitolo e spogliata definitivamente del peso della carica di Superiora generale, incomincia a dare sorprendenti segni di ripresa. Per tutte le sue consorelle sarà sempre la insostituibile Madre, ma il peso della gestione dell’Ordine dal 13 marzo 1997 cadrà definitivamente sulle spalle di Suor Nirmala, la quale - pur essendo una religiosa contemplativa - appena insediata al vertice della congregazione fa subito capire di essere dotata di un carattere forte e deciso. Per una fortuita coincidenza, nella sua prima uscita pubblica da Superiora generale dà l’impressione di non essere in sintonia con i desideri di Madre Teresa, la quale spera che l’“esordio” della nuova responsabile della congregazione possa coincidere con un importante viaggio in Cina. Suor Nirmala, invece di puntare subito verso la Cina sceglie il caldo sole dell’Africa. Non è un atto di disubbidienza: è solo un caso legato alle enormi difficoltà che in genere comporta organizzare una visita in Cina e alla necessità di visitare una nuova Casa delle Missionarie della Carità aperta a Nairobi. Al suo arrivo, la neo Superiora dell’Ordine viene accolta con tutti gli onori dovuti da parte delle autorità e con grande calore. Appena mette piede nella nuova sede delle Missionarie, in tanti la salutano chiamandola Madre. Un sacerdote termina il suo indirizzo di saluto dicendo “Madre Nirmala, benvenuta a Nairobi e in Africa”. A lei, però, non piace essere oggetto di tanta attenzione. In particolare, non le piace quell’appellativo di “Madre” appiccicato al suo nome di battesimo. “Cari fratelli, care consorelle, per favore - si schermisce la religiosa appena ha la possibilità di prendere la parola per ricambiare il saluto di benvenuto - chiamatemi solo sorella perché noi abbiamo solo una Madre, Madre Teresa. È lei la nostra guida materna, il nostro esempio, solo lei deve essere chiamata Madre da tutti i suoi figli. Grazie a lei, io sono una vostra sorella e mi piace essere sempre chiamata così”.
L’esordio pubblico di suor Nirmala, grazie anche alla sua spontanea sincerità, fa subito breccia nei cuori di tutto quel variopinto mondo di missionarie, missionari, volontari, collaboratori, laici che gira intorno alla congregazione. E Madre Teresa ne è felice. Col passare dei giorni si sente più rilassata. Gli acciacchi si fanno sempre più leggeri. Riprende a camminare, a leggere, a scrivere lettere e a vivere i normali ritmi della vita conventuale. Si sente apparentemente guarita e perciò - anche senza il peso della carica di Superiora generale - incomincia a fare quello che ha sempre fatto negli anni precedenti: viaggiare, visitare le sedi periferiche, parlare alle consorelle, incontrare grandi personaggi, anonimi questuanti, poveri bisognosi di vederla da vicino e di sentire la sua parola. I medici le chiedono di soprassedere, di non affaticarsi perché il cuore ormai non è più in grado di sopportare ulteriori stress; la schiena, poi, è sempre più curva e la vista non è delle migliori. Niente da fare.

Gli ultimi viaggi di Madre Teresa


Con l’approssimarsi della seconda metà del 1997, Madre Teresa sente di dover riprendere il cammino per il mondo. È come se una misteriosa forza interna le dicesse di fare presto, di muoversi, di non perdere tempo. Non sa, Madre Teresa, che quella forza interna la sta spingendo verso l’ultima breve stagione di viaggi con la quale concluderà la sua grande avventura terrena.
Ecco quindi che il 16 maggio arriva di nuovo a Roma per assistere alla professione di fede di un gruppo di consorelle. Dopo la celebrazione, accompagnata da suor Nirmala, va naturalmente in Vaticano dal suo amico Papa Wojtyla. I due non lo sanno, ma sono gli ultimi momenti che trascorreranno insieme.
Papa Wojtyla saluta Madre Teresa al termine di una celebrazione nella Basilica di S. Pietro

Madre Teresa, alla vista del pontefice, si sente ulteriormente spinta a guardare al futuro: non pensa come una persona anziana di 87 anni, alle prese con delicati problemi di salute. I due, tra le tante cose che si dicono, abbozzano un progetto con cui poter aiutare le tante ragazze costrette alla prostituzione lungo le strade di Roma e persino nei pressi del Vaticano. È un progetto ambizioso che Madre Teresa non potrà portare a termine. In quei giorni, inoltre, pur avendo ripreso a camminare, ha bisogno di essere sottoposta frequentemente a respirazione artificiale - in determinati periodi anche tre volte al giorno - ; eppure non vuole fermarsi. Vorrebbe recarsi in Polonia, ma i medici non glielo permettono. Riesce però a partire per gli Usa dove il Congresso americano la onora con una medaglia d’oro per i suoi “notevoli e costanti contributi - si legge nella motivazione - alle attività umanitarie e caritatevoli”. Ormai tutto il mondo sa delle sue precarie condizioni di salute e spesso si diffondono, improvvisamente, voci su suoi presunti ricoveri. Cosa che puntualmente avviene anche durante la sua ultima visita a New York, nella sede della Missionarie della Carità del Bronx. Ma come in passato, anche questa volta è lei che smentisce tutti quando appare alle porte della Casa del Bronx mano nella mano con la principessa Diana di Inghilterra che - allarmata dalle voci sulla sua salute - si è precipitata negli Stati Uniti per starle vicino. Le due donne si mostrano felici e sorridenti, e non si sottraggono agli assalti dei fotografi. La principessa Diana la guarda con passione e filiale affetto: si vede che quando è insieme a Madre Teresa si sente felice, è diversa, e sembra persino aver dimenticato i gravi problemi familiari che la tormentano da anni. Le due donne prima di lasciarsi, si abbracciano davanti alla porta della Casa, si stringono la mano, Madre Teresa fa un cenno di benedizione. Dopo di che Lady D va via. Non sanno che non si vedranno mai più perché un tragico destino nel giro di qualche settimana le rapirà entrambe, accomunandole nel loro ultimo cammino nell’aldilà: la principessa alla fine di agosto, in seguito ad un incidente stradale a Parigi; Madre Teresa - come vedremo - in un letto dell’ospedale di Calcutta il 5 settembre 1997.

L’ultimo pensiero per Lady Diana


Conclusa la visita negli Usa, ritorna in India, dove circondata dall’affetto delle sue consorelle il 27 agosto festeggia l’ottantasettesimo compleanno, mentre le notizie sul suo stato di salute incominciano a diventare di nuovo preoccupanti. Ma la felicità del compleanno sarà presto offuscata dalla terribile notizia della tragica morte di Lady D. La notizia arriva a Calcutta mentre Madre Teresa è alle prese con un ulteriore aggravamento del suo stato di salute: non per questo si sottrae all’invito rivoltole dalla stampa a tracciare un breve ricordo della principessa scomparsa. “Eravamo amiche - commenta con gli occhi colmi di lacrime in una breve dichiarazione ripresa dalle televisioni di tutto il mondo - la principessa nutriva un grande amore per i poveri, per i bisognosi, per i bambini abbandonati, per le vittime di tutte le guerre, e questo suo amore ci univa tanto. Pregherò per lei in modo speciale”. Queste parole saranno trasmesse dalle tv di tutto il mondo e sarà l’ultima volta che Madre Teresa parlerà in pubblico. Colpisce il fatto che l’ultimo pensiero pubblico espresso dalla suora Premio Nobel per la pace, dalla religiosa paladina dei diritti dei poveri tra i più poveri, sia stato dedicato alla principessa Diana, la quale - stando a quanto si saprà in seguito - sarà collocata nella sua bara con avvolta alle mani una corona del Rosario che le era stata regalata da Madre Teresa durante uno dei tanti precedenti incontri. Segni indecifrabili, coincidenze, misteri: come altrettanto misteriosa è la coincidenza della data della morte della stessa Madre Teresa, il 5 settembre 1997, la vigilia dei solenni funerali di Lady D. Gli ultimi giorni di vita della suora non sono dei più tranquilli. Tutto il mondo si ferma, giorno dopo giorno, ad ascoltare i bollettini medici dell’ospedale di Calcutta. Tutti sperano che anche questa volta ce la faccia a superare la crisi. Ma non sarà così.
Madre Teresa durante il suo ultimo ricovero ospedaliero


La morte della Madre e il dolore di papa Wojtyla


La notizia che nessuno al mondo - credenti e non credenti - avrebbero voluto mai ascoltare si diffonde da Calcutta all’alba del 5 settembre 1997: quando i medici annunciano che Madre Teresa è morta nel corso della notte stroncata da un attacco cardiaco. La morte - fanno sapere sanitari, missionarie e collaboratori - ha sorpreso la suora Premio Nobel per la pace mentre si stava preparando a pronunciare (ironia della sorte) una orazione funebre, la mattina seguente, in suffragio della sua amica, la principessa Diana, in concomitanza della celebrazione dei funerali in programma a Londra. La notizia della tragica scomparsa dell’amica principessa l’ha sconvolta. Per molti versi, il dispiacere di aver perso un’amica in maniera così crudele e drammatica in alcuni momenti fa dimenticare a Madre Teresa i suoi problemi di salute. La sera del 4 settembre, il pensiero della suora è tutto rivolto alla commemorazione di Lady D che avrebbe dovuto tenere il mattino seguente. Ma non ce la farà: durante la notte, per un singolare disegno del destino, Madre Teresa raggiungerà nell’aldilà la sua amica principessa.
Eppure durante la serata precedente la morte le condizioni generali sembravano, tutto sommato, in ripresa. Prima di andare a letto, Madre Teresa aveva infatti cenato. Le erano stati serviti una zuppa e un toast, che lei aveva consumato senza eccessivi problemi. Aveva, inoltre, recitato le preghiere e chiacchierato brevemente con chi le era vicino. A qualcuno aveva confessato che il persistente dolore alla schiena le dava più fastidio del solito, ma che era certa che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, come già avvenuto in precedenza.
Dopo qualche ora, la morte, in maniera quasi inaspettata, dopo una brevissima agonia contrassegnata da un respiro diventato via via sempre più affannoso. Madre Teresa china leggermente il capo sul cuscino, tenta di dire ancora qualche parola. Prima dell’ultimo respiro chi le è vicino riesce a captare la sua ultima frase, “Non riesco più a respirare”, dopodiché Madre Teresa chiude gli occhi per addormentarsi serenamente. E non si sveglierà mai più.
Stando al bollettino medico finale emesso per certificare l’avvenuta morte, la fondatrice della Missionarie della Carità non è stata in grado di superare l’ultima grave crisi cardiaca a causa di un “acuto mal funzionamento del ventricolo sinistro”.
Senza soffermarsi molto a cercare di capire tutti gli aspetti legati alla fredda spiegazione scientifica dei medici curanti, le sue consorelle, appena appresa la notizia della morte, escono dal convento di Calcutta ed annunciano ai presenti - una grande folla di poveri, curiosi, giornalisti e fotoreporter - che la Madre non c’è più. Un mesto tocco della campanella posta all’ingresso della Casa accompagna l’annuncio.
Tra le primissime reazioni raccolte tra la gente assiepata davanti al convento, quella di una donna sintetizza, simbolicamente, i sentimenti con cui la notizia viene accolta tra gli strati più umili e poveri della città: “Madre Teresa è morta, non è più in mezzo a noi: è una perdita irreparabile. L’India oggi ha davvero perso sua madre”.
Papa Wojtyla - immediatamente informato - è tra i primi a raccogliersi in preghiera appena si diffonde la notizia della morte della donna che resterà consegnata per sempre alla storia come la Madre di tutti i poveri. La sala stampa della Santa Sede fa immediatamente sapere che il Santo Padre si è chiuso nella sua cappella privata nella residenza estiva di Castel Gandolfo per pregare per l’anima della fondatrice delle Missionarie della Carità. Nel primo comunicato, il Vaticano parla di “profondo dolore del Santo Padre per la perdita di Madre Teresa” e di “grande commozione”. In attesa della commemorazione pubblica che Giovanni Paolo II farà il giorno successivo, a Calcutta giungono i messaggi di cordoglio di tutti i potenti della terra, compresi quelli di esponenti di altre religioni, di vescovi e cardinali. Per l’arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, “Madre Teresa era una donna di Dio che segnava la presenza della Chiesa presso i poveri e gli emarginati. Il suo grande carisma ha trascinato molti e trascinerà ancora a vedere e contemplare i segni di Dio in ogni uomo, anche nel più povero”. Da Londra, il cardinale Basil Hume, primate della Chiesa cattolica di Inghilterra e del Galles, parla di Madre Teresa e ricorda la principessa Diana, sottolineando la “coincidenza” di due lutti che ha legato fino alla fine due amiche e due personaggi amati dal pubblico, specialmente dalle fasce sociali più popolari. “È piacevole pensare - commenta il cardinale inglese - che Madre Teresa, che era in grande amicizia con la principessa Diana, sia andata così presto a unirsi a lei”. Entrambe, nota il primate Hume, “in modi diversi si sono prodigate a favore delle persone bisognose”.
Sulla stessa lunghezza d’onda del primate cattolico inglese, il commento “a caldo” dell’arcivescovo anglicano di Canterbury, George Carey, secondo il quale “Madre Teresa è stata una vera e ispirata servitrice del Vangelo di Gesù Cristo. La sua influenza è andata oltre la tradizione cristiana e ha toccato i cuori di tutto il mondo”. Per l’arcivescovo Carey, la più alta personalità della Chiesa anglicana, “in Madre Teresa una profonda e forte spiritualità si combinava con l’applicazione pratica della fede. Sono sicuro che queste sono le qualità che hanno indotto la principessa Diana e altri a dimostrarle un così grande affetto”.
Superato il comprensibile momento di smarrimento iniziale, misto a dolore, provato all’arrivo in Vaticano della notizia della morte di Madre Teresa, il Papa alla preghiera dell’Angelus di domenica 7 settembre torna a ricordare in pubblico l’amica scomparsa. Le parole di Wojtyla sono colme di affetto e riconoscenza per la grande testimonianza di umana carità che la suora ha saputo dare nel corso di tutta la sua vita. La commemorazione papale fa immediatamente il giro del mondo, mentre a Calcutta, davanti alla Casa Madre delle Missionarie della Carità migliaia e migliaia di persone ordinatamente portano l’estremo saluto alla salma della suora prima dei solenni funerali di Stato ai quali è prevista la presenza di quasi tutti i più importanti uomini di Stato, compreso il presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e, in rappresentanza di Giovanni Paolo II, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato della Santa Sede.

All’Angelus il tributo di Giovanni Paolo II


“Mi è caro ricordare in questo momento di preghiera - rammenta Papa Wojtyla nell’Angelus del 7 settembre - la carissima sorella Madre Teresa di Calcutta, un esempio eloquente per tutti, credenti e non credenti. Molte volte ho avuto modo di incontrarla ed è viva nella mia memoria la sua figura minuta, piegata da un’esistenza trascorsa al servizio dei più poveri tra i poveri, ma sempre carica di un’inesauribile energia interiore: l’energia dell’amore di Cristo. Madre Teresa - continua Papa Wojtyla - ci lascia la testimonianza dell’amore di Dio che, da lei accolto, ne ha trasformato la vita in un dono totale ai fratelli” visti da lei “nei poveri, negli abbandonati, nei moribondi”. Il Santo Padre si sofferma anche sulla celebre frase, “servire i poveri tra i più poveri”, coniata da Madre Teresa all’inizio della sua avventura missionaria e diventata una sorta di eloquente epitaffio di tutta la sua congregazione: “Lei serviva i poveri tra i più poveri per servire la vita: Madre Teresa non perdeva occasione per sottolineare in ogni modo l’amore per la vita. Sapeva per esperienza che la vita acquista tutto il suo valore, pur in mezzo a difficoltà e contraddizioni, quando incontra l’amore”.
“Missionaria della Carità - continua il Papa - questa è stata Madre Teresa, Missionaria della Carità di nome e di fatto, offrendo un esempio così trascinante da attirare a sé molte persone disposte a lasciare tutto per servire Cristo, presente nei poveri. E seguendo il Vangelo si è fatta ‘Buon Samaritano’ di ogni persona che ha incontrato, d’ogni esistenza in crisi, sofferente e disprezzata. Nel grande cuore di Madre Teresa un posto speciale era riservato alla famiglia, ed anche per questo amava insegnare che ‘una famiglia che prega è una famiglia felice’. Ancora oggi le parole di questa indimenticabile Madre dei poveri mantengono intatti la sua forza e il suo insegnamento. Ringrazio Dio per averci dato questa donna”.

“Ringraziamo Dio per il dono di Madre Teresa”


Papa Wojtyla conclude la sua commemorazione, rinnovando lo stesso ringraziamento al Signore “per averci donato una donna come Madre Teresa” che appena 24 ore prima aveva pronunziato davanti ad una folla di circa 6.000 volontari della sofferenza riuniti a un meeting al Palaghiaccio di Marino. Inutile negare che dalle parole di Giovanni Paolo II traspare con forza una Madre Teresa già potenzialmente venerata come una santa, la santa dei poveri del 2000, anche se per arrivare a tanto la Chiesa anche per lei avrà necessariamente bisogno dei suoi tempi tecnici così come sono scanditi dalle regole del Codice di Diritto Canonico alla voce “beatificazione”. Sarà comunque lo stesso Papa Wojtyla, a pochi mesi dalla morte della suora, ad autorizzare con quasi 5 anni di anticipo - con un’iniziativa senza precedenti - l’insediamento del tribunale diocesano per l’avvio della discussione della causa di beatificazione di Madre Teresa. Secondo le norme ecclesiali, un processo di beatificazione può essere avviato solo dopo i primi 5 anni dalla morte del futuro possibile beato. Per la fondatrice delle Missionarie della Carità, Giovanni Paolo II deciderà diversamente, “accorciando” di fatto la fase processuale di ben 5 anni, forse nella speranza di poter elevare la missionaria dei poveri agli onori degli altari nella cornice dell’anno giubilare del 2000.
Se i cristiani piangono e se tra i cattolici - a poche ore dalla morte - già si parla di Madre Teresa in termini di venerazione, anche tra gli esponenti delle altre religioni la commozione è grande. Particolarmente colpiti sono gli ebrei italiani, che la ricordano con affetto e riconoscenza con il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Elio Toaff, con Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e membro dell’Unione delle comunità europee. Per tutti, il giorno dopo la scomparsa parla Giuseppe Laras, rabbino capo della comunità ebraica di Milano e docente di filosofia ebraica all’Università Statale. “Madre Teresa - ricorda Laras in una intervista al “Corriere della Sera” - è sempre stata una figura che mi ha commosso e che ho ammirato. Perché ha scelto di vivere la sua vita per gli altri, in contesti molto difficili. E di fronte ad una situazione di egoismo violento, quale è spesso quella del nostro mondo contemporaneo, lei ha rappresentato la risposta opposta, di riferimento davvero rivoluzionario. Quando ricevette il Premio Nobel per la pace, non mi capitò di dire a me stesso, come talvolta mi era capitato e mi capita: beh, forse c’era qualcun altro che quel premio lo meritava di più”. Per il rabbino Laras, Madre Teresa è stata un esempio mirabile di carità e di convivenza religiosa, e tiene a restare fuori dal piccolo coro di quanti qualche volta l’hanno accusata di “proselitismo forzato” tra i poveri. “Madre Teresa - commenta il rabbino - è stata una figura bella, uno stimolo e un riferimento per tutti coloro che vogliono spendersi nella socialità, un esempio da emulare nel campo della carità umana. Dunque, una figura che interessa tutti: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti...”. È del tutto fuori luogo, afferma ancora Laras, parlare di “proselitismi forzati”, o di “imperialismo culturale”: “Sono parole grosse: io non ho mai notato in Madre Teresa cose del genere. Non ho mai notato che nella vita e nell’opera di Madre Teresa vi fosse una strumentalizzazione in termini di religiosità. Questo non esclude che altri abbiano cercato di strumentalizzarla, o che lei stessa, come può accadere a ciascuno di noi, abbia potuto farlo senza rendersene conto. Ma la verità che resta è che questa donna ha seminato carità senza particolari interessi di parte, al di là della religione a cui apparteneva, e anche al di là di ogni eventuale tentativo di strumentalizzazione”.
Dello stesso tenore i tributi di altri leader religiosi: da parte di tutti l’ammissione unanime di aver visto in Madre Teresa di Calcutta un’alta personalità cattolica priva di qualsiasi voglia di proselitismo, un tributo non da poco in un’epoca quasi sempre pronta a farsi tentare da divisioni e scontri ideologici.

L’omaggio dei potenti


Anche il mondo politico internazionale si china davanti alla morte della missionaria. “Mi mancano le parole per esprimere il mio dolore per la scomparsa di un’apostola per la pace e dell’amore”, dice il primo ministro indiano Indar Kumar Gujral, che aggiunge sconsolato: “L’India piange, Madre Teresa non è più con noi. Il mondo e specialmente l’India oggi sono più poveri. La sua vita è stata dedicata a portare amore, pace e gioia alla gente della quale generalmente ci si dimentica”. Per gli italiani, parla il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Di fronte a un mondo dove ancora la violenza, l’odio razziale ed etnico esplodono facendo innumerevoli vittime innocenti, la figura della piccola grande suora, che ha consumato la vita per i più abbandonati, i reietti, i senza nome, i senza vita, risalta come vincitrice per aver vissuto fino alla consumazione della legge eterna dell’amore. Una vita, quella di Madre Teresa - conclude Scalfaro - totalmente occupata dagli altri, dai più miseri, per i quali è stata una grande speranza e un incredibile conforto”.
Anche il governo italiano esprime il suo cordoglio con il presidente del Consiglio Romano Prodi: “Colpito e commosso, certo di rappresentare i sentimenti dell’intero popolo italiano, in questo momento - dichiara Prodi in una nota emessa da Palazzo Chigi - non posso che ricordare di Madre Teresa il suo luminoso esempio di amore per il prossimo e di vivente carità”. Per Roma, che aveva nominato Madre Teresa sua cittadina onoraria, parla il sindaco Francesco Rutelli: “Porto sempre con me questa catenina che lei mi ha donato”, dichiara “a caldo” a chi gli chiede un commento sulla scomparsa della missionaria. Rutelli, oltre ai suoi ricordi personali, rammenta quanto grande sia il legame che unisce Madre Teresa e le Missionarie della Carità alla città di Roma, “la quale non a caso ha voluta onorarla come una sua concittadina”.
Commozione e ricordi anche dall’altra parte dell’Atlantico, con il presidente americano Bill Clinton che, appena informato della morte di Madre Teresa, rammenta i loro diversi incontri, le tante Case di accoglienza da lei fondate in America, per concludere affermando che era semplicemente “una persona eccezionale”. Il premier inglese Tony Blair, nell’esprimere il suo cordoglio, ricorda anche lo stretto legame di amicizia che legava Madre Teresa e Lady D. “In una settimana già caratterizzata dalla tragica scomparsa della principessa Diana, il mondo è rattristato per la morte di una delle sue più compassionevoli servitrici. Madre Teresa - ricorda ancora Tony Blair - ha dedicato la vita ai poveri e il suo spirito continuerà a vivere come ispirazione per tutti noi”.
La morte della missionaria Premio Nobel per la pace fa fermare anche una manifestazione internazionale come la Mostra del Cinema di Venezia, che le dedica una serata e un lungo appassionato applauso. La sua figura viene ricordata, in particolare, dal produttore cinematografico di origine indiana Ismail Merchant, nel corso di una serata del festival dedicata al tema dell’indipendenza dell’India. “La sua vita - spiega Merchant - è stata una fonte di grandissima gioia. Noi tutti pregheremo per la sua anima come lei ha sempre pregato per tutti noi”.

La poesia di Ernesto


All’omaggio dei grandi, va affiancato il tenero ricordo dei piccoli, degli umili e degli indifesi. C’è persino chi, spinto dal dolore, invece di lasciarsi travolgere dalle lacrime si arma di carta e penna per scrivere poesie e pensieri in lode di Madre Teresa. Uno che trova nella scomparsa della missionaria dei poveri un’originale fonte di ispirazione poetica è Ernesto Oliviero, fondatore del Sermig di Torino, una struttura di accoglienza e di solidarietà che per molti versi si avvicina allo spirito caritativo e umanitario delle Missionarie della Carità.
Appena arriva a Torino la notizia della morte di Madre Teresa, Oliviero, dopo una personale preghiera di suffragio, si chiude in camera e compone di getto una poesia sulla suora dal titolo “L’ultimo vuoto” che presentiamo qui di seguito:

“Dio ha creato tutto
ma ha lasciato dei vuoti
affinché l’immaginazione degli uomini
potesse riempirli
con la creatività
con il donarsi agli altri
senza sosta.
E con il tempo
Francesco-Caterina,
Ignazio-Mozart
Dostoevskij...
Hanno riempito i vuoti
Che abbiamo conosciuto
Vuoti pieni di musica,
Di poesia, di arte
Di invenzioni
Di santità.
L’ultimo vuoto
È il nome di Madre Teresa”.

I solenni funerali


Sono veramente tanti i commenti “a caldo” che arrivano a Calcutta appena si diffonde nel mondo la notizia della scomparsa della fondatrice delle Missionarie della Carità. Su tutti, però, emerge il rimpianto e l’omaggio di migliaia e migliaia di anonimi visitatori che si accalcano davanti alla Casa Madre di Calcutta nella speranza di poter vedere anche per un attimo solo “The Mother”. Le autorità indiane - che hanno subito ordinato l’esposizione della bandiera a mezz’asta su tutto il territorio nazionale in segno di lutto - d’accordo con la Superiora generale dell’Ordine, suor Nirmala, decidono di esporre il corpo della suora per un’intera settimana nella chiesa di S. Tommaso in modo da permettere al maggior numero possibile di persone di renderle l’estremo omaggio.
Per il saluto finale, la scenografia allestita intorno al feretro della suora ricalca per molti versi anche usi e costumi tradizionali indiani. Il corpo della Madre viene deposto dentro una teca di cristallo circondata da tanti fiori: indossa il solito sari bianco a strisce celesti; ha l’espressione serena e sembra che dorma; ha inoltre le dita delle mani incrociate e circondate dal rosario col quale per anni ha recitato le preghiere. Per sette giorni, nella chiesa, una fila - lunga in alcuni momenti anche oltre 5 chilometri - di poveri, pellegrini, credenti, non credenti si prostra ai piedi della suora per una breve preghiera, un saluto personale, una raccomandazione. In tanti lasciano messaggi, le lanciano un saluto, un bacio; quasi tutti piangono compostamente, ma non sono pochi quelli che si disperano ad alta voce: per contenere l’enorme afflusso di visitatori la polizia è costretta a scaglionare l’entrata in chiesa attraverso un rigido servizio d’ordine, che nei momenti di maggiore calca provoca anche qualche forma di tensione.
Il dolore più composto - e per molti versi, più sereno - appare sui volti di tutte le sue consorelle, che per tutta la settimana di suffragio, in attesa dei solenni funerali di Stato programmati per il 13 settembre nello stadio Netaji, sorvegliano costantemente il “sonno” della Madre con preghiere corali, veglie, Messe, lunghi momenti di meditazione. Vista la grande affluenza di pubblico, le autorità e le Missionarie della Carità di Calcutta decidono di allungare i giorni di esposizione pubblica del corpo della Madre. L’omaggio pubblico alla salma alla fine durerà nove lunghi giorni: troppi, lamentano in molti, perché le leggi della natura seguono inesorabilmente il loro corso e, per evitare che il corpo della suora possa danneggiarsi, anche in conseguenza del gran caldo, i responsabili sanitari decidono di sottoporre Madre Teresa a trattamenti speciali con punture e balsami. Qualcuno parla persino di imbalsamazione. Non manca comunque chi avanza critiche e richiami alle autorità indiane e alle stesse Missionarie della Carità per non aver favorito l’anticipazione della data del funerale. Ma va detto, ad onor del vero, che le richieste di vedere per l’ultima volta Madre Teresa sono veramente tante e durante i nove giorni la chiesa di S. Tommaso è come attraversata da un fiume in piena.

La nipote siciliana


Tra le tante anonime persone che si recano a Calcutta per rendere omaggio alla suora, ce n’è una che senza volerlo suscita la curiosità della stampa. È una signora di circa 50 anni, parla italiano con un forte accento siciliano. Nei lineamenti del volto è molto somigliante a Madre Teresa, soprattutto nel taglio degli occhi. Si chiama Agi Bojaxiu: è una nipote della missionaria scomparsa. È la figlia di Lazar, il fratello di Madre Teresa morto qualche anno addietro e che aveva messo su famiglia a Palermo dopo essere scappato dall’Albania. “Sì - dice Agi Bojaxiu - sono la sua unica, vera nipote, anche se adesso ne usciranno fuori chissà quante... sono nata a Tirana nel 1944, ma pochi mesi dopo mio padre, che sposò un’italiana di Lucca, ci portò in Italia” per sfuggire all’oppressione della dittatura di Hoxa. In un primo tempo i Bojaxiu vissero in Toscana. Poi Agi conobbe un commerciante siciliano, Giuseppe Guttadauro, e lo sposò. Ed oggi la coppia che ha due figli, vive a Palermo, dove ha un negozio di abbigliamento. “Vidi per la prima volta la zia Madre Teresa quando avevo 20 anni - ricorda la nipote - prima di allora eravamo state in contatto solo con le lettere che ci scrivevamo con una certa frequenza. Il nostro rapporto, specialmente dopo l’incontro, è stato sempre affettuoso e sincero, come può essere tra una zia e una nipote. Una volta al mese ci sentivamo per telefono: parlavamo sempre in inglese, perché io non conosco più la lingua di mio padre e Madre Teresa non padroneggiava bene l’italiano. Era una donna eccezionale: mi piaceva molto la sua capacità di comprendere le ragioni degli altri. La ricorderò sempre così e la porterò sempre nel mio cuore”.

Addio Teresa


Il rito funebre finale, quello del definitivo “Addio a Teresa”, inizia la mattina del 13 settembre con l’avvio del corteo dalla chiesa.
Tre momenti dei funerali di Madre Teresa

La teca trasparente con il corpo di Madre Teresa viene sistemata su un affusto di cannone e accompagnata da una scorta militare in alta uniforme: un onore di Stato riservato in passato solo a due padri della patria, il Mahatma Gandhi e Pandit Nehru. Per tutta la durata del corteo la cerimonia è contrassegnata da varie simbologie: alle preghiere cristiane - che culmineranno con la Messa celebrata dal cardinale segretario di Stato della Santa Sede Angelo Sodano - vengono affiancate preghiere indù, buddiste, musulmane, o il semplice silenzio di chi non crede. Stride, all’apparenza, l’enorme schieramento di militari in rappresentanza di tutte le armi dell’esercito indiano: ma è una presenza-simbolo per la tradizione indiana, i cui governanti - presenti al rito con le massime autorità - hanno voluto rendere così omaggio alla suora dei poveri con tutte le espressioni istituzionali dello Stato, a partire, naturalmente, dalle componenti dell’esercito. In segno di rispetto e di “sottomissione” alla suora dei poveri, i soldati al passaggio del feretro abbassano la testa e capovolgono i fucili con le baionette puntate per terra. Simbologie e gesti antichi per onorare una suora che l’India vuole con tutte le sue forze presentare al mondo intero come una delle sue figlie più amate e venerate.
Dietro all’affusto di cannone, le più alte autorità indiane, guidate dal presidente dell’India, accanto al quale prendono posto il presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro - che nei giorni precedenti si era recato anche nella chiesa di S. Tommaso a pregare e a deporre un omaggio floreale ai piedi della suora -, i presidenti dell’Albania, del Ghana, le regine Fabiola del Belgio, Sofia di Spagna e Noor di Giordania, le first lady di Francia e Polonia, Hillary Clinton degli Stati Uniti, la duchessa di Kent in rappresentanza della regina Elisabetta di Inghilterra, Sonia Gandhi - la moglie italiana dell’ex premier Rajiv Gandhi assassinato - seguite da un centinaio di ministri, ambasciatori, militari e tanta, tanta gente comune, tra cui anche quei poveri tra i poveri che hanno costituito la ragione portante della vita di Madre Teresa.

La Messa di suffragio celebrata dal cardinale Sodano


Alla fine del corteo, la bara viene depositata ai piedi dell’altare allestito in maniera sobria e tutto di bianco nel palasport dello stadio. Sullo sfondo, un grande lenzuolo con la scritta in inglese: “Le opere di amore sono opere di pace” , una delle frasi più significative che Madre Teresa amava ripetere durante i suoi interventi. Accanto al cardinale Sodano celebrano altri quattro porporati e una consistente schiera di vescovi. Il rito è lungo, solenne: il cardinale Sodano nell’omelia ricorda le tante opere di carità e di promozione umana fondate dalla suora, la quale - tiene a precisare il porporato - resterà per sempre un altissimo esempio di tolleranza, di promozione umana e di pace. Un esempio, insiste Sodano, che interpellerà le coscienze di ciascuno di noi ogni volta che le ragioni del dialogo si faranno sentire: “Ma soltanto quando impareremo a guardare agli altri come nostri fratelli come ha sempre fatto lei, soltanto allora saremo sulla strada della pace”. Il cardinale legge, infine, il messaggio del Papa nel quale, oltre a ricordare i meriti della suora, Giovanni Paolo II esorta le consorelle, i volontari e i collaboratori a “continuare l’opera iniziata da Madre Teresa”. Esortazione prontamente raccolta da suor Nirmala nel suo intervento commemorativo con una solenne promessa “a seguire l’opera e l’esempio della nostra amata Madre”, con la certezza che Dio in qualsiasi momento avrebbe concesso alle Missionarie della Carità tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno per “continuare ad aiutare i poveri tra i più poveri”.
Parlano anche esponenti di altre religioni, un guru indù, un imam musulmano, un religioso sikh, un lama buddista, un religioso parsi. Da parte di tutti, toccanti ricordi, preghiere e antichi canti in onore di Madre Teresa. Altrettanto toccante il momento dell’offertorio con una orfanella che porta sull’altare il pane, una donna, ex carcerata, con l’ampolla del vino e un handicappato che con grande fatica riesce a portare il calice con le ostie consacrate. Alla conclusione della Messa, l’omaggio dei potenti della terra con la deposizione delle corone secondo un severo rituale, scandito per alcuni personaggi anche dagli applausi dei circa 12 mila presenti alla cerimonia. Uno degli applausi più calorosi viene riservato a Sonia Gandhi. Dopo gli omaggi, il corteo funebre ripercorre il tragitto nel cuore della città fatto in mattinata per far ritorno alla Casa Madre: il feretro al suo passaggio viene salutato da circa un milione di persone distribuite lungo i marciapiedi.
In molti al passaggio del corteo gettano fiori freschi di campo, espongono cartelli con scritte “Grazie, Madre”, “Non ti dimenticheremo”, “Prega sempre per noi”, “Sei la santa dei poveri”; in tanti applaudono, nessuno riesce a trattenere lacrime e commozione. Nella Casa Madre, le consorelle prima della sepoltura danno vita ad una seconda celebrazione funebre, ma rigidamente riservata: è il loro addio alla Madre tanto amata, è un momento di intimità che nessuno può disturbare, un momento fatto di preghiere corali e personali, lunghi silenzi, tante lacrime e tante promesse di continuare a seguire la strada di amore e carità tracciata dalla fondatrice. Il rito riservato si conclude intorno alle ore 15 del 13 settembre, quando la bara di Madre Teresa viene deposta nella cripta del convento dove la religiosa potrà finalmente riposare per sempre. In quel momento, una suorina si affaccia ad un finestra e fa un cenno a un plotone di soldati Gurka, di guardia alla Casa, per avvisarli dell’avvenuta tumulazione: al breve cenno della missionaria i soldati sparano tre salve di fucileria e quattro trombettieri del Rajputh Regiment intonano il silenzio d’ordinanza, è l’estremo saluto dell’India alla sua figlia prediletta.

Suor Nirmala, il futuro


Dorme ora Madre Teresa. Dopo 87 anni vissuti di corsa e sempre all’inseguimento della pace, della vita, dell’amore sulle orme di Cristo, la suora dei poveri riposa nella sua Casa di Calcutta, diventata subito meta di un pellegrinaggio ininterrotto, di preghiere, di silenzio. A poche ore dalla conclusione dei funerali, all’apparenza tutto ritorna magicamente come prima: ogni Missionaria della Carità, facendo ben attenzione a tenere chiusa nel suo cuore una ferita che forse non si rimarginerà mai (chi, in fondo, potrebbe “sostituire” una Madre così grande?), riprende il suo posto accanto a poveri ed ammalati: è quello che Madre Teresa si aspetta dalle sue consorelle. La prima a dare l’esempio è la nuova Superiora generale della congregazione, suor Nirmala, che, incurante della grande fatica affrontata durante i nove giorni di veglia che hanno preceduto il funerale di Madre Teresa, riprende subito a viaggiare.
La prima tappa è, significativamente, Roma, il Vaticano, dove con la devozione di una figlia va in udienza da Papa Wojtyla, che la incoraggia, con una benedizione apostolica, a proseguire l’opera della Madre appena scomparsa. Anche suor Nirmala - come del resto è sempre accaduto in precedenza alla fondatrice delle Missionarie della Carità - è chiamata a misurarsi spesso e volentieri con le tante richieste di interviste che, però, lei concede con il contagocce. Anche lei, seguendo alla lettera gli insegnamenti della Madre, spesso risponde ai giornalisti che “non è importante intervistarmi, non scrivete di me, piuttosto scrivete di Lui (di Dio) e se proprio non potete fare a meno di scrivere, offrite una carezza ed un sorriso a chi soffre”.
Durante la visita in Vaticano del post-Madre Teresa, suor Nirmala rompe spontaneamente il suo tradizionale silenzio e si lascia intervistare a lungo da un giornalista dell’“Osservatore Romano”, Giampaolo Mattei, al quale racconta della sua vita, delle sue origini e dei sentimenti che l’accompagnano in questa prima fase di viaggio al vertice della congregazione delle Missionarie della Carità. Il colloquio offre lo spunto al giornalista di pubblicare la monografia “Io, Nirmala: la storia dell’erede di Madre Teresa di Calcutta” edita dalla Elledici.

La prima intervista di suor Nirmala


È una testimonianza diretta, finora unica, con la quale la suora parla delle sue origini, della sua conversione e confessa tutti i suoi sentimenti, le sue attese e i suoi proponimenti. È anche un’occasione - certamente rara - di conoscenza diretta della stessa suora, la quale più che parlare di sé amerà far “parlare” le opere di carità della congregazione.
L’incontro tra suor Nirmala e Mattei avviene nella Casa “Dono di Maria” in Vaticano. Prima di iniziare il colloquio, la religiosa sfoglia i numeri dell’“Osservatore Romano” che hanno pubblicato i servizi sulla morte di Madre Teresa e sui solenni funerali presieduti dal cardinal Sodano a nome del Papa. Legge con attenzione, gli occhi in certi momenti le si riempiono di lacrime e con un fil di voce ripete spesse volte “grazie”. E forse proprio questa lettura la mette in condizione ideale per parlare della sua vita e del futuro, suo e della congregazione.
Inizia parlando delle sue origini e della famiglia. “I miei genitori - ricorda la suora - erano molto devoti ai valori dell’induismo. Penso alla castità, alla fedeltà nel matrimonio, alla preghiera, alla compassione, all’aiuto alle persone bisognose, alla gentilezza e all’autocontrollo. Come tutti gli induisti, anche i miei familiari erano letteralmente innamorati dello spirito del Mahatma Gandhi. Noi figli siamo cresciuti seguendo il loro esempio. Ho pregato Dio con i nomi di Ran, di Krishna e di Shiva. Già da piccola sentivo forte dentro di me il desiderio di amare i poveri. La divinità che preferivo era proprio Shiva e lo sa perché? Perché Shiva divenne la mia preferita quando seppi che era poco amata a causa del suo aspetto molto brutto”. Non rinnega, suor Nirmala, l’educazione ricevuta dalla sua famiglia: “Conservo dentro di me i valori più belli dell’induismo. Vengo da quella religione, da quella cultura. Lì sono le mie radici e non posso, non devo, dimenticarle. Credo che ci sia una parziale verità nelle altre religioni e quindi anche nell’induismo. Solo Cristo però è la verità”. Come ha sempre insegnato Madre Teresa, anche suor Nirmala spiega che “quando ci accostiamo ad una persona che soffre, non chiediamo mai a quale confessione religiosa appartiene”.
A sette anni - racconta la suora - i genitori iscrivono la piccola Kusum in una scuola di missionarie cristiane di Durunda. Il primo “incontro” con Gesù avviene qui e in maniera del tutto casuale. Un giorno, mentre sta giocando in cortile, entra nella cappella e si trova improvvisamente davanti ad una statua di Gesù con le braccia spalancate. “Sono scappata, tanta è stata la mia paura - ricorda sorridendo la religiosa - poi mi sono fatta coraggio e sono tornata indietro piano, piano, un passettino alla volta. E ho scoperto che era la statua del Sacro Cuore di Gesù. Da quel giorno, uscendo da scuola, facevo sempre un giro più lungo per tornare a casa proprio per rivedere quell’immagine che mi affascinava”.
La conversione al cattolicesimo arriverà, comunque, molto più tardi. Dopo il diploma, la futura suor Nirmala - che ancora si chiama Kusum - si iscrive alla facoltà di legge dell’Università di Patna e prende alloggio in un pensionato gestito da suore cattoliche. “Il giorno successivo al mio arrivo - racconta - sentii suonare una campana. Era sera e a quei rintocchi la mia compagna di stanza, anch’essa induista, si inginocchiò a pregare in silenzio. Non conoscevo il significato del suono delle campane e il gesto della mia amica mi commosse. In quel momento Gesù toccò il mio cuore. Capii che era dentro di me da tanto tempo. Io non lo avevo mai cercato e mi aveva finalmente trovata. Avevo 17 anni. Fu allora che Gesù cominciò a parlarmi personalmente e da qual giorno cominciai a fare domande su di Lui, a leggere libri su di Lui”.

La conoscenza di Gesù


La “conoscenza” di Gesù non significa automaticamente conversione. Ne sa qualcosa la stessa suor Nirmala, che prima di abbracciare definitivamente la fede cattolica, dovrà attendere ancora altri sei anni e mezzo, caratterizzati da dubbi, domande, “lotte” intime, specialmente nell’ambito familiare. Uno dei problemi più gravi fu quello di parlarne con i genitori; poi la suora temeva di perdere gli affetti antichi e tutta la ricchezza delle tradizioni induiste. Timori e paure che svaniscono, misteriosamente, il giorno in cui incontra una “certa” Madre Teresa. Ecco come la futura Superiora generale delle Missionarie della Carità lo racconta. “Volevo andare in Nepal per aiutare la rinascita della terra dei miei genitori - ricorda suor Nirmala - un giorno mi confidai con un gesuita americano e lui mi parlò di una certa Madre Teresa. Anzi a lei presentai i miei progetti. Così un giorno Madre Teresa mi scrisse: ‘So che vuoi andare in Nepal, ma le anime sono le stesse in Nepal, in Bengala e in qualsiasi altra parte del mondo’. E aggiunse che avrei potuto unirmi alle Missionarie della Carità: se vuoi venire senza condizioni, vieni. Decisi dunque di andare a Calcutta per conoscere personalmente Madre Teresa”. Quando le due donne si incontrano sembra che si conoscano da anni. “Mi venne naturale - racconta infatti suor Nirmala - considerarla subito una seconda mamma. Le aprii il mio cuore, con tutte le incertezze di una giovane che voleva cambiare il mondo. Mi ascoltò a lungo, poi mi disse: ‘Tu prega come se tutto dipendesse da Dio e agisci come se tutto dipendesse da te’. In una parola, quel giorno, a 17 anni, mi arresi a Gesù che mi seguiva da tanto tempo e decisi di restare con Madre Teresa”. Dopo il colloquio, la giovane Kusum decide di farsi battezzare. Il rito si celebra il 5 aprile 1958, e il 24 maggio successivo entra definitivamente nelle Missionarie della Carità con il nome di Nirmala, che significa “purezza”. “Per grazia di Dio oggi sono una religiosa cattolica. Per pura grazia di Dio mi sono convertita a Cristo. Ma i primi tempi - ricorda la suora - non furono facili. Sentivo nostalgia della mia famiglia e mi tormentava l’idea di non avere neppure un periodo, diciamo di vacanza, per tornare almeno un po’ a casa. Mi sfogai con Madre Teresa. In quei momenti mi ha sostenuta. È stata la mia forza. Mi ha insegnato a chiedere aiuto a Dio, a pregare. Una volta mi ha detto: non pensare adesso alla tua intera esistenza, ma cerca di vivere giorno dopo giorno. Così, piano piano, insieme a lei, ho trovato quella serenità che cercavo, della quale avevo bisogno”. Nella congregazione, spronata anche da Madre Teresa, completerà gli studi universitari conseguendo la laurea in giurisprudenza e, in seguito - prima dell’elezione a Superiora generale - ricoprirà importanti incarichi all’interno dell’Ordine. In particolare sarà molto apprezzata come responsabile del ramo contemplativo delle Missionarie della Carità. “Dopo la mia prima professione religiosa avvenuta nel 1961, Madre Teresa - ricorda infine suor Nirmala - mi mandò a studiare legge all’Università di Calcutta. Mi disse che così avrei potuto fornire gratuitamente assistenza legale ai poveri”. In realtà, suor Nirmala, non eserciterà mai la professione di avvocato: “È vero - è la sua spiegazione - però ho scelto una legge più alta, quella dell’amore. E tutto questo lo devo a Dio e a Madre Teresa che, anche da lassù, continuerà ad essere sempre la mamma prediletta delle Missionarie della Carità e di tutti i poveri tra i più poveri”.

di Orazio La Rocca

L'iscrizione nell'albo dei beati

Madre Teresa di Calcutta è Beata. Un evento ecclesiale, mondiale e mediatico. Al centro della festa i poveri, come avrebbe voluto la piccola "grande" suora di origine albanese e di nazionalità indiana, che Giovanni Paolo II ha elevato all’onore degli altari il 19 ottobre 2003, con la solenne "cappella papale" presieduta in Piazza San Pietro, insieme a più di 40 concelebranti, tra cui il cardinale arcivescovo di Bombay, Ivan Dias, l’arcivescovo di Calcutta, Lucas Sirkar, l’arcivescovo di Scutari, Angelo Massafra, davanti a una folla valutata in 300.000 persone e alle delegazioni giunte da ogni parte del mondo. Duemila poveri in prima fila, al posto d’onore, insieme alle suore della carità con il sari bianco bordato di blu, sul sagrato della Basilica Vaticana addobbato di fiori. I grandi della terra, rappresentati da una trentina di delegazioni ufficiali, a cominciare dai presidenti di Albania, Macedonia, terra natale di Madre Teresa, Kosovo, e, in rappresentanza dell’India, il ministro della giustizia. Significativa anche la delegazione ecumenica e interreligiosa, con esponenti della Chiesa ortodossa e di due Comunità musulmane d’Albania. Con suor Nirmala Joshi, superiora generale delle Missionarie della Carità, presenti naturalmente i responsabili degli altri istituti fondati da Madre Teresa, tra cui i rami contemplativi delle suore e dei fratelli.
"In lei scorgiamo l’urgenza di metterci in atteggiamento di servizio, specialmente dei più poveri e dimenticati, degli ultimi tra gli ultimi", ha detto nel rito di introduzione Giovanni Paolo II, apparso con volto disteso e sorridente. Tre felici coincidenze hanno accompagnato la beatificazione di Madre Teresa, come ha sottolineato il Papa: l’odierna Giornata Missionaria Mondiale, la conclusione dell’anno del rosario e il 25° anniversario del suo Pontificato.
Canti, danze e preghiere tipici della cultura indiana hanno costellato il solenne rito. Il senso della gioia, con applausi e canti, è esploso quando il Papa, dopo la "domanda" canonica pronunciata dall’arcivescovo di Calcutta, e alcuni cenni biografici della religiosa, ha pronunciato la formula di beatificazione, fissando la festa di Madre Teresa "nel giorno della sua nascita al cielo", il 5 settembre.
"Un itinerario di amore e di servizio, che capovolge ogni logica umana. Essere il servo di tutti!". Così il Papa ha indicato il cammino evangelico di Madre Teresa, all’omelia della Messa.
"Sono personalmente grato – ha voluto testimoniare il Papa – a questa donna coraggiosa, che ho sempre sentito accanto a me. Icona del Buon Samaritano, essa si recava ovunque per servire Cristo nei più poveri fra i poveri. Nemmeno i conflitti e le guerre riuscivano a fermarla". L’omelia del Papa è proseguita in racconto: "Ogni tanto veniva a parlarmi delle sue esperienze a servizio dei valori evangelici". E ricorda ad esempio quanto disse ricevendo il premio Nobel per la pace: "Se sentite che qualche donna non vuole tenere il suo bambino e desidera abortire, cercate di convincerla a portarmi quel bimbo. Io lo amerò, vedendo in lui il segno dell’amore di Dio".
Significativo poi che la sua beatificazione avvenga proprio nella Giornata Missionaria Mondiale. "Con la testimonianza della sua vita – infatti – Madre Teresa ricorda a tutti che la missione evangelizzatrice della Chiesa passa attraverso la carità, alimentata nella preghiera e nell’ascolto della parola di Dio". "Emblematica di questo stile missionario", per Giovanni Paolo II, "è l’immagine che ritrae la nuova Beata mentre stringe, con una mano, quella di un bambino e, con l’altra, fa scorrere la corona del Rosario".
Contemplazione e azione, evangelizzazione e promozione umana: Madre Teresa proclama il Vangelo con la sua vita tutta donata ai poveri, ma, al tempo stesso, avvolta dalla preghiera. Così Madre Teresa "ha trovato la sua più grande realizzazione e ha vissuto le più nobili qualità della sua femminilità", ricordando a tutti il valore e la dignità di tutti i figli di Dio, "creati per amare ed essere amati", e saziando in tal modo "la sete di Cristo, specialmente per i più bisognosi, quelli ai quali la visione di Dio è stata oscurata dalla sofferenza e dal dolore a tratti lancinante", accolta come un singolare "dono e privilegio".
Nelle ore più buie ella s’aggrappava con più tenacia alla preghiera davanti al Santissimo Sacramento. Questo duro travaglio spirituale l’ha portata ad identificarsi sempre più con coloro che ogni giorno serviva, sperimentandone la pena e talora persino il rigetto. Amava ripetere che la più grande povertà è quella di essere indesiderati, di non avere nessuno che si prenda cura di te.
Per tutti, l’invito del Papa è quello di rendere "lode a questa piccola donna innamorata di Dio, umile messaggera del Vangelo e infaticabile benefattrice dell’umanità", di onorare in lei "una delle personalità più rilevanti della nostra epoca", di seguirne l’esempio e "servire con la gioia e il sorriso ogni persona che incontriamo".
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